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Lo stupore delle prese elettriche

Maestra, l’Islanda l’ha fatto

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https://phastidio.net/2015/06/16/grecia-sicuri-di-voler-fare-come-lislanda/

. L’Islanda ha pagato, e continua a pagare, per il default del proprio sistema bancario. Lo ha fatto e lo fa in vari modi. Ad esempio, post default delle proprie banche, l’Islanda ha chiesto un finanziamento di emergenza al Fondo Monetario Internazionale, pari a 5 miliardi di dollari. Questo “dettaglio” tende ad essere omesso, nella narrativa dei ribelli del debito da dopolavoro e tastiera che ammorbano i social network e la pubblicistica italiani, ma se leggete questi pixel lo sapete da molto tempo. Come possa, in caso, la Grecia fare default sul Fondo Monetario Internazionale e poi chiederne l’assistenza appare questione non immediatamente risolvibile, diciamo.

Vi è poi la questione della nazionalizzazione del sistema bancario.Ovviamente possiamo credere che basti “stampare” ma l’unica risorsa che in natura non appare scarsa è la credulità. Al contribuente islandese la nazionalizzazione del sistema bancario nazionale è costata tra un quinto ed un quarto del Pil nazionale. Essere in un programma di assistenza del Fmi non significa mettersi in coda per un piatto di minestra, somministrata da caritatevoli samaritani. Significa aderire ad un programma di “aggiustamento fiscale” che di solito equivale a sangue, sudore e lacrime. E così avvenuto, come dimostrano alcuni numeretti islandesi che trovate qui.

Ve li riassumiamo:

Il saldo di bilancio pubblico dell’Islanda, corretto per il ciclo economico, è passato da un deficit del 10% del Pil potenziale nel 2009 ad un avanzo del 2,7% del Pil potenziale nel 2014, cioè una variazione del 12,7% del Pil potenziale. Ma anche questo tende a sottostimare la quantità di austerità fiscale attuata dall’Islanda. Questo accade perché questo dato include l’aumento di spesa pubblica attribuibile a crescenti pagamenti per interessi sul debito nazionale. Per farsi un’idea più corretta della quantità di austerità fiscale attuata dall’Islanda, (cioè tagli di spesa diretta ed aumenti di entrate) si deve guardare al saldo primario della pubblica amministrazione corretto per il ciclo economico. Per l’Islanda tale saldo è passato da un deficit del 6,9% del Pil potenziale nel 2009 ad un surplus del 6,2% del Pil potenziale nel 2014, cioè una variazione del 13,1% del Pil potenziale.

Questo spiega perché il rapporto debito-Pil islandese è passato dal 101% all’86% in soli tre anni. In altre parole, l’Islanda ha tenuto e continua a tenere una posizione fiscale molto restrittiva, per abbattere il debito. In altri termini, non stanno “stampando”: così è più chiaro? In caso continuasse a non essere chiaro, ecco il dettaglio delle misure fiscali del “paradiso” islandese:

Si stima che le spese primarie al netto dell’inflazione siano diminuite del 12,7% tra il 2009 ed il 2012. Ciò è stato ottenuto tagliando spese correnti, trasferimenti, investimenti e manutenzioni, e congelando salari e benefit del settore pubblico per per un periodo di quattro anni, durante un periodo in cui l’inflazione crebbe a causa di un deprezzamento del 50% della corona. Da lato delle entrate l’Iva fu aumentata al 25,5%, che all’epoca era la più elevata al mondo. L’aliquota massima dell’imposta personale sul reddito fu aumentata dal 35,7% al 46,2%. L’aliquota d’imposta sul reddito da capitale fu aumentata dal 15% al 20%, i contributi per la Sicurezza Sociale furono aumentati dal 5,34% all’8,65% ed i contributi sulla pesca (importanti in Islanda) furono aumentati. In aggiunta furono introdotte nuove imposte (una sulla ricchezza netta, una sulle successioni, una sulle attività finanziarie, ecc.)

Speriamo sia più chiaro, ora. Se continuasse a non esserlo, ecco la sintesi:

  • La sola svalutazione della moneta non basta;
  • La monetizzazione è pura illusione (per definizione, coinvolgendo grandezze nominali e non reali);

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