TRENTAQUATTRO. La sequenza delle meraviglie. Ecco i passi medi al chilometro a ogni giro impostato sul Garmin dal numero 53 (km 26,5) al 67 (km 33.) Ogni giro corrisponde a cinquecento metri. 5’31, 5′ 26, 5’29, 5’29, (incontro con l’ultrà granata?), 5′ 24, 5’29, 5’28, 5’29, 5′ 55 (ristoro), 5′ 28, 5′ 28, 5′ 28, 5’25, (incontro con la ragazza in bici) 5’26, 5’23. In tutto questo tempo ho la mente libera e lascio che le gambe facciano quello che vogliono. Sono i migliori sette chilometri che abbia mai fatto, tenendo conto di tutta una serie di fattori. Supera, come valore e sensazioni quella della mezza maratona di Valencia, non solo per la distanza diversa (certo: andare a 4’30” era impossibile a Torino, ma sarebbe anche stato suicida,) ma soprattutto perché in quella gara avevo raggiunto un livello di forma probabilmente superiore. Il fatto di avere preparato bene, ma anche molto più
tranquillamente e quasi alla leggera, questa maratona e avere raggiunto questa prestazione, le dà un sapore speciale. Per qualche ora ho temuto che si fosse trattato di un’illusione. Oppure che lo fosse stata la sequenza successiva. (Per esempio: domenica sera.) Per un po’ ho temuto che in realtà fossi andato dieci secondi al chilometro più lentamente, trasformando un risultato fantastico in uno solamente ottimo. (Per esempio: lunedì pomeriggio.) Poi finalmente ho appurato che non avevo vissuto un’illusione. Volavo davvero. Libero e felice, direbbero in uno spot pubblicitario a caso. Il merito, naturalmente, è da dividersi con le mitiche tabelle di Gianni e con la vostra compagnia, soprattutto nei lunghi. E nelle cene. Oltre che nei viaggi. TRENTACINQUE Non penso più a niente. Non mi è rimasto niente a cui pensare oppure ho un numero di chilometri sulle gambe che mettono a dura prova anche la resistenza mentale. Sento le gambe un po’ più dure. Mi sembra di essere calato. Non voglio guardare il Garmin. “Non mollo per nessun motivo al mondo,” mi dico. Noto il fatto di essere arrivato fin qui senza avere la vista annebbiata, né andare a rimorchio della strada o dell’acido lattico. È la prima volta. Sto per rientrare nella città. Lucido. Vedo gente davanti a me. Un uomo regge una barriera che fa da transenna. Si sposta lui: non mi sembra il caso che sia io a muovermi di lato per evitare di travolgerlo. La mia andatura è, o mi sembra, più caracollante, ma soprattutto più lenta. Decido di guardare il Garmin appena passo il cartello trentacinque. Mi segna un tempo totale di tre ore e ventitré. Faccio un calcolo: se vado a sei al chilometro da qui in avanti, chiudo in… Allora. Tre ore e ventitré più quarantadue uguale tre ore e cinquantacinque! Esplosioni di giubilo e di incredulità nella mia testa. Andando a sei al chilometro, per di più. Guardo il Garmin di nuovo. Ehi! Ma vado a 5’44”! È un ritmo ancora eccezionale. Mi dico che va benissimo tenere questo passo. Ascolto le sensazioni per immedesimarmici: la testa deve riprendere il controllo delle gambe. Potrei anche andare un po’ più piano. Ma anche no. A pagare, morire e andare piano siamo sempre in tempo. (Per la cronaca i due giri precedenti li ho fatti a 5’35” e 5’37”.) Trentacinque e mezzo. Il ristoro. Mi fermo per dissetarmi. Oh. Come mi stanno ringraziando le gambe. Anche la testa è d’accordo. Si sta proprio bene. Bevo due sorsi d’acqua. Mi sforzo di berne di più. Prendo i sali. Faccio un sospirone. Lo sguardo torna determinato. Riparto. Penso che a Firenze non riuscivo nemmeno a deglutire l’acqua. Mi ricordo che sputavo. Vedo i biscotti e non cedo alla tentazione. So chi sta provando a mettermi i bastoni tra le ruote. TRENTASEI. (2). Il pensiero vero:” Che vuoi che siano sei chilometri. Non vale la pena nemmeno di alzarsi dal letto per correre sei chilometri. Non possono essere un problema. Se tengo i sei al chilometro, va già bene, ma non mi metto certo a rallentare apposta. Proprio adesso no.”