there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Maratona di Torino 2012 (km 36-39)

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TRENTASEI (3) “Uahahahahahahahahaha. Ci hai creduto! Quanto fa quarantadue più ventitré? Quando arriverai tu i pacer delle quattro ore saranno a mangiare le trofie al pesto agli stand e a drogarsi di calamari fritti. Vuoi sapere a quanto hai fatto questo giro? Te lo dico io. Sei minuti e tredici. È inutile che ti guardi attorno. Stai superando tutti e nessuno supera te, ma

vedi quanto ci metti a farlo? Loro sono soltanto più scoppiati di te. Guarda il Garmin. Adesso. Dai, fallo. Guarda il passo istantaneo.” “Sette e trenta? Non ci credo.” “Uahahaha. Ma ti piaceva crederlo quando ti segnava i cinque e tredici, eh?” “Va bene. Sai una cosa? Ogni volta che vedo superare il sei sullo schermo accelero. Che lui segni la verità o no. Io torno all’attacco. Tu seguimi. Se ti riesce.” “Sì, sì. Tieni il Garmin sotto il polso in modo che non lo veda, eh?” “Guarda! Ho accelerato e adesso segna cinque e trenta. Vaffanculo, signora maratona!”

 

TRENTASETTE Mi sembra di avere l’Enervit fermo in gola, come a strozzarmi. Sto trafelato sulla sinistra della strada. Mi sembra di andare più lentamente, a passi corti, ma quasi rimbalzando più che spingendo. Non subisco il terreno, ma non aggredisco più la strada. Eppure il ritmo che segnala il Garmin è ancora molto buono: cinque e quarantacinque. Provo un improvviso brivido freddo lungo il corpo. I chilometri cominciano ad allungarsi. Be’. Certo: prima ci mettevo meno a farli. Allora la soluzione c’è: correre più forte. Sì, certo: chi ce la fa? Sono contento di avere attaccato al momento giusto e mi sta mettendo comunque entusiasmo il fatto che stia tenendo un ritmo regolare e molto buono, malgrado la fatica, la stanchezza, la mente più annebbiata, delle giunture che scricchiolano, alcuni dolorini sparsi in vari punti degli arti inferiori ma anche di quelli superiori (devo ruotare la spalla destra con la mano opposta, visto che mi fa male.)

TRENTOTTO È finita. “Bravo! Finalmente l’hai capito!” “Ma che vuoi? È dal trentacinquesimo che mi sto dicendo di non essere mai stato così in palla giunto a questo punto. Ormai è andata. Quattro chilometri restano: come da Stia a Pratovecchio e ritorno o come da Via Aretina al Girone o a Piazza Beccaria o…” “Va bene. Eppure ti sento un po’ deluso.” “Be’. Non c’è nessuno in giro. Senti. Prometto di riconsiderarti tra i miei obiettivi, purché mi lasci in pace.” “Mi devo fidare? Comunque ti lascio presto: devo passare da Nichelino perché sembra che mi stiano chiamando da un bar.” Intanto continuo a correre a passo costante e traduco le distanze restanti in percorsi conosciuti.

TRENTANOVE Brividi di freddo: superati. Sensazione di groppo in gola: superato. Cartello numero trentanove: superato correndo, anziché camminando o strisiciando. Voglia di fermarsi: mai pervenuta. Voglia che i chilometri finiscano il prima possibile: non pervenuta o affrontata accelerando il passo (se mi riesce) oppure adattandosi e accettando il ritmo. Persone viste in barella: una. Persone portate di peso in spalla: una. Gente simpatica che dice che manca poco all’arrivo o che siamo quasi in centro: qualcuno.

Gente che cammina: tantissima, a partire dal venticinquesimo chilometro, soprattutto. Atleti che hanno finito e stanno camminando verso di noi: due. Nelle gare precedenti: a frotte. Non era solo una questione di numero di partecipanti. Obiettivo: tra le quattro ore e le quattro e cinque. Se poi decido di rallentare l’ultimo chilometro va bene. “L’ultimo chilometro, perché non lo cammini?” “Col cazzo! Ma tu non dovevi andare al Toro club?”

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