Di Massimo Fontana:
E quindi siamo giunti alla fine della parabola di Sergio Marchionne.
Un uomo tra i più odiati nell’Italia del pensiero unico social-statalista.
Purtroppo per gli italiaci “geni” che straparlano quotidianamente di economia e similari, non solo Marchionne è stato il più grande amministratore delegato del paese degli ultimi 50 anni, ma è senza ombra di dubbio un esempio da seguire, sia nella gestione aziendale, sia da un certo punto di vista anche nella eventuale gestione del paese.
Per capire il perchè di questo elogio bisogna innanzitutto conoscere il settore economico con il quale si è andato a confrontare e un minimo di storia economica del bel paese.
Partiamo da questo ultimo punto e facciamo un salto indietro di 32 anni.
Era il 1986 e l’Iri, la società statale che possedeva Alfa-Romeo dal 1932, guidata allora da Romano Prodi, decise di privatizzarla vendendola alla Fiat.
Il punto dirimente della questione è che all’epoca e un po’ come oggi, parlare di privatizzazioni in Italia, era letteralmente come dire una eresia.
Si veniva crocefissi al solo pensiero di privatizzare aziende statali.
Eppure Alfa-Romeo venne ceduta ai privati.
Perchè?
Per due ragioni fondamentali che ci permettono di capire quasi tutto:
1) il settore automobilistico già allora era dal punto di vista economico “maturo”.
Ovvero aveva raggiunto la massima estensione possibile del mercato, con un livello elevato di concorrenza.
In questo contesto la profittabilità di una azienda cade.
A meno di:
– cambiare prodotto, cosa che ovviamente non si voleva fare
– delocalizzare la produzione in paesi a basso costo del lavoro
– costruire un marchio esclusivo per poche auto di alta gamma, quindi ripercorrere la via intrapresa dal settore tessile e da tutti i settori nelle stesse condizioni.
Cosa questa però difficile da farsi, dai costi enormi ed aleatori e last but not least, da un numero relativamente ristretto di lavoratori.
2) Il break-even del settore auto è devastante per i conti.
Infatti, a causa dell’alto costo relativo di produzione di ogni singola auto e dell’elevato numero di queste venduto e quindi prodotto, basta essere poco sotto il break-even per perdere una quantità enorme di denaro.
Ovviamente il contrario se si è sopra, ma bisogna esserci.
Sopra.
In sostanza la congiunzione dei due punti portava l’Alfa-romeo non solo in rosso nei bilanci, ma ad essere in ristrutturazione perenne da anni, e senza nessuna capacità di tornare in utile.
A quel punto era diventata un costo insopportabile da gestirsi anche per uno stato.
Ecco allora la vendita a Fiat e la privatizzazione.
Adesso facciamo un salto di qualche anno e arriviamo al 2002.
I due punti descritti sopra caratterizzanti il mercato automobilistico, non solo erano ancora vivi e vegeti, ma anzi si erano inaspriti notevolmente.
Il settore era sempre saturo e la concorrenza era aumentata ulteriormente.
Con l’arrivo negli anni ’80 dei giapponesi, negli anni ’90 e primi 2000 dei coreani, l’ombra delle case cinesi e indiane già all’orizzonte e della delocalizzazione produttiva in Cina operata dalle grandi case occidentali, in primis Volkswagen e Renault, ecco, in questo contesto bastava sbagliare un prodotto e non riuscire a contenere i costi, che scattava subito il problema del break-even descritto nel punto 2.
Cosa che puntualmente successe.
La Fiat nel 2002 perse in un solo anno 4,2 miliardi di euro.
Ripetiamo: 4,2 miliardi di euro.
A questo punto iniziò un drammatico piano di ristrutturazione del gruppo automobilistico italiano, ma rimanevano sempre i due punti dirimenti descritti sopra.
E infatti nel 2003 Fiat perde quasi 2 miliardi di euro.
E nel 2004 1,5 miliardi di euro.
In totale in soli tre anni Fiat perse 7,7 miliardi di euro.
Per capire il livello di cui stiamo parlando, la perdita cumulata di questi tre anni è pari alla perdita cumulata da Alitalia in trent’anni circa.
Il break-even automobilistico in tutto il suo dramma insomma.
In questo contesto arriva Marchionne.
Il quale prende quindi in mano una azienda che perde letteralmente miliardi di euro ogni anno, lavora in un settore stramaturo, ipercompetitivo, con un prodotto dal basso appeal commerciale e con un unico asset di valore: Ferrari.
Cosa avrebbe dovuto fare un amministratore delegato in tale situazione?
Banalmente vendere o al limite chiudere Fiat auto, ovvero il buco nero del bilancio dell’epoca, vendere l’Alfa ai tedeschi, e se proprio si voleva continuare a produrre auto, integrare Ferrari con Maserati e Lancia in un gruppo del lusso e ovviamente investire in altri settori gli eventuali ricavi ottenuti dalla liquidazione del gruppo.
Ovviamente straparlavano e ancora straparlano i soliti geni nostrani che urlano che Fiat doveva fare come i tedeschi.
Straparlano perchè con ogni evidenza non sanno che le grandi case automobilistiche tedesche e del resto del mondo, producono i modelli della fascia medio-bassa, ovvero quella di Fiat, quasi esclusivamente nei paesi emergenti, ovvero li dove il costo del lavoro è basso.
Non esisteva e quasi non esiste casa automobilistica del pianeta che produca utilitarie di massa in paesi ad alto costo del lavoro.
E li dove lo fa su tale prodotto ha marginalità zero.
Fare quindi come i tedeschi voleva dire portare le fabbriche fiat in Cina.
Cosa fa invece Marchionne?
Per un po’ riesce miracolosamente a riportare i conti in ordine senza delocalizzare.
E questo fu un vero e proprio miracolo di gestione dei costi che solo una società privata sa e può fare.
Con la crisi del 2008-2009 però il contenimento dei costi non bastava più.
Bisognava rispolverare il progetto liquidatorio.
A quel punto però Marchionne ebbe il vero lampo di genio.
Lampo di genio che aveva un nome: Crysler.
Crysler che era nel mentre fallita miseramente.
Ma con due particolarità:
a) durante il fallimento aveva iniziato un piano di ristrutturazione che aveva superato uno dei principali motivi che ne avevano causato il fallimento, ovvero i salari bloccati a 70 dollari orari contro i 50 dei principali concorrenti.
b) il proprietario pro-tempore era lo stato americano che aveva tutta intenzione di venderla a chiunque, anche gratis, pur di non accollarsi le perdite che ogni casa automobilistica in simili condizioni produce.
In sostanza Chrysler era fallita, e quindi non costava nulla acquistarla, esattamente per i due motivi di crisi strutturale del settore automobilistico visti all’inizio, ma che proprio per la crisi intercorsa erano stati all’incirca superati.
Ma dopo il fallimento.
Con l’acquisto di Chrysler il buon Marchionne quindi stava acquistando per un “tozzo di pane” la terza società automobilistica statunitense, dai costi di produzione ridotti di almeno il 30% e con alcuni impianti, quelli meno redditizi, comunque chiusi.
E tutto questo grazie al governo Usa stesso.
Come diceva il barone De Rothschild, i migliori affari si fanno quando il sangue scorre nelle strade.
E nel 2009 di sangue “economico” ne scorreva a fiumi.
Ma il colpo di Marchionne non è stato solo finanziario.
Lo fu su tutti i fronti.
Acquistando Cherysler al 100% infatti non solo acquistava una società già risanata, ma riusciva anche a fare ciò che la Fiat non è mai riuscita a fare, ovvero entrare nel mercato statunitense.
E last but not least, tagliando la produzione in Italia degli impianti meno produttivi fin dove la politica permetteva e integrando il tutto in un nuovo gruppo, di fatto annacquava il vero problema dei conti, ovvero la produzione delle auto di fascia bassa in Italia, in una azienda mondiale dove l’Italia risultava talmente piccola da non essere più un pericolo per i conti.
Se a questo ci aggiungiamo lo scorporo della gallina dalle uova d’oro, la Ferrari, e il trasferimento della sede all’estero per metterla al riparo dai soliti “geni” italiani, ecco che torniamo a grandi linee li dove si era partiti nel 2004, ovvero alla quasi liquidazione di Fiat auto, all’integrazione di ciò che vale in un nuovo gruppo, anche se non esclusivamente del lusso e infine alla concentrazione sull’unica cosa che conta e deve fare una azienda privata: la ricerca della massima redditività.
Solo così infatti un sistema economico avrà sempre un saggio del profitto naturale positivo e non consumerà più risorse economiche di quante ne produce.
Concludendo.
Marchionne ha preso una azienda tecnicamente fallita, con un prodotto debolissimo, una concorrenza fortissima, in un settore che soffre da 40 anni di sovraproduzione cronica.
Nonostante questo l’ha risanata, l’ha portata all’utile e l’ha di fatto blindata da nuove crisi devastanti.
Ha fatto esattamente quanto un ottimo amministratore delegato deve fare.
Sia chiaro: un amministratore delegato.
Non un imprenditore.
Un impreditore fa altro.
Ma nella catena Fiat, l’imprenditore è la famiglia Agnelli.
Quindi non si può imputare a Marchionne ciò che riguarda qualcun’altro.
Cosa sarebbe successo alla Fiat senza Marchionne?
Impossibile saperlo.
L’unica cosa certa è che prima di lui Fiat era quasi morta, oggi è viva, vegeta e redditizia e mentre aziende dal marchio più blasonato e dalla forza economica più grande come GM e Chrysler, fallivano miseramente, lui aveva la forza di comprarne una e di farla un nuovo cavallo di razza.
Più di così era impossibile fare.
Altro da dire non c’è.
Di Luciano Capone:
Nel periodo 2004-2014 Peugeot ha licenziato, nella sola Francia 40.000 unità, nel decennio – d’altro canto – il settore ha vissuto un forte ridisegno e riassestamento. Nel 2004 il gruppo Fiat aveva 73.535 dipendenti divisi tra tutti i settori su 160.549 dipendenti nel mondo. Di questi, in Italia, 28.413 nel solo settore automobilistico (Ferrari e Maserati esclusa). Nel 2017 i dipendenti del gruppo FCA in Italia erano il 25,4% di 235.915 dipendenti nel mondo, ovvero 60.985 dipendenti. La fonte dei dati sono i bilanci di sostenibilità del gruppo. I posti di lavoro sono stati salvati grazie alla capacità manageriale e al ridisegno industriale (che comunque ha toppato le previsioni) di Sergio Marchionne: troppo semplice confortare solo numeri assoluti senza ricordare da dove si partiva e cosa accadeva nel mondo.
Nel 2004 Fiat perde -1,5 miliardi e le azioni valgono 1,61 euro, è messa così male che General Motors paga una penale da 1,55 miliardi per NON comprare la Fiat. Nel 2017 Fca ha un utile di 3,5 miliardi, le azioni valgono 16,4 euro e ha comprato Chrysler. In mezzo c’è #Marchionne.