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Lo stupore delle prese elettriche

Più concorrenza per tutti! Le basi.

Da: principles of Economics, di Greg Mankiw.

LA FORZA DEL LIBERO SCAMBIO
Consideriamo la giornata tipica di uno studente americano. Si sveglia e prende un succo di frutta composto da arance cresciute in Florida o un caffè ottenuto da chicchi cresciuti in Brasile. Guarda un programma televisivo trasmesso dalla Russia su un televisore prodotto in Corea. Si veste con vestiti fatti di un cotone cresciuto in un campo in India e tessuto in una fabbrica thailandese. Guida un’auto fatta di pezzi prodotti in una dozzina di Paesi nel mondo. Poi apre un libro scritto da un autore del Massachussetts, pubblicato da un’impresa dell’Ohio e stampato in una tipografia con carta fatta attraverso l’uso di alberi dell’Oregon.
Ogni giorno, per svolgere le nostre attività, facciamo affidamento su persone che ci forniscono beni e servizi. Questa interdipendenza è possibile perché le persone commerciano l’una con l’altra. Queste persone non agiscono per generosità. Né ci sono agenzie governative che dirigono le attività di alcune persone per soddisfare i desideri di altre. Le persone forniscono i propri prodotti o si organizzano in imprese per farlo perché ottengono qualcosa in cambio. L’economia di mercato è il modo più efficiente per coordinare le attività di milioni di persone con gusti e abilità diverse.
Cosa guadagnano le persone con lo scambio con altre? Perché le persone scelgono di essere interdipendenti? Ciò che vale per le persone vale per le nazioni. Nella maggior parte degli Stati si hanno importazioni di beni dall’estero ed esportazioni dei propri prodotti verso i consumatori stranieri. In generale, lo scambio di mercato determina un guadagno per le parti, sia che si tratti di ricevere un servizio come andare da un parrucchiere locale per un taglio di capelli sia che si tratti di comprare una t shirt fatta da un lavoratore dall’altra parte del globo.
Immaginiamo che ci siano due soli beni nel mondo: la carne e le patate. E ci siano due persone: l’allevatore e il contadino. I due sanno fare il loro mestiere bene e comunque meglio dell’altro. A tutti e due piacciono sia la carne che le patate. Il guadagno derivante dalla specializzazione e dallo scambio è ovvio se l’allevatore produce solo carne e il contadino solo patate.
Potrebbe essere che le due persone decidano di non avere niente a che fare l’uno con l’altro. Prima o poi l’allevatore si stuferà di mangiare carne e il contadino di mangiare patate. Probabilmente inizieranno a chiedere un po’ dell’altro prodotto all’altra persona: con lo scambio il contadino può mangiare anche della carne (della migliore qualità disponibile in quel mercato, perché prodotta da un soggetto più bravo di lui a farla,) e l’allevatore può mangiare delle patate. Lo scambio soddisfa le parti in gioco e aumenta la varietà delle combinazioni di cibo disponibili: ognuno dei due può farsi un hamburgher con patatine o una bistecca con patate arrosto.
Mettiamo il caso che i due siano in grado di produrre sia carne che patate, ma l’allevatore disponga di un terreno peggiore per la coltivazione delle patate e che il contadino non sappia allevare il bestiame o fare la carne altrettanto bene dell’altra persona. Anche in questo caso è ovvio come la specializzazione di ognuno in ciò che sa fare meglio sia benefica per ambedue le parti: in termini di qualità, in termini di minore spreco di risorse, di costi opportunità più bassi, forse anche di piacere nello svolgimento del proprio lavoro.
Ma se una persona fosse brava a produrre ambedue i cibi allo stesso modo? Se fosse l’allevatore, gli converrebbe ancora lo scambio o sarebbe preferibile l’auto produzione?
Si può dimostrare con l’analisi delle possibilità produttive di frontiera, che lo scambio permette di specializzarsi in ciò che sappiamo fare meglio. Una persona passerà più tempo a coltivare patate e meno tempo ad allevare il bestiame. Per l’altra varrà il contrario. Alla fine, facendo i calcoli, scopriamo che nel complesso le due persone hanno più quantità di beni a disposizione di quanta avrebbero con l’autoproduzione senza avere lavorato di più.
Nel tenere conto di chi dovrebbe specializzarsi in cosa dobbiamo considerare i vantaggi comparati e i costi opportunità (ciò a cui si rinuncia facendo una cosa anziché altre) e non i vantaggi assoluti: anche se uno è più bravo dell’altro in tutto, lo scambio è comunque conveniente per una questione di vantaggi comparati.
Il produttore che rinuncia a una quantità inferiore dell’altra merce per produrre la merce x ha un costo opportunità inferiore nel produrre x. Si dice, in questo caso, che ha un vantaggio comparato nel produrla. Il vino può crescere anche in Inghilterra, ma l’Italia ha un vantaggio comparato. Il mais cresce anche in Italia, ma gli Stati Uniti o il Messico hanno un vantaggio comparato.
Torniamo al nostro esempio. Supponiamo che produrre una quantità x di patate costi all’agricoltore la misura corrispondente a ¼ di quantità di carne. Se all’allevatore il costo corrispondente è pari a ½ di quantità di carne, l’agricoltore ha un costo opportunità più basso nel produrre patate, cioè ha un vantaggio comparato, cioè gli conviene: anzi conviene alla società nel suo complesso. (Se qualcuno ha in mente l’idea che quindi ci debba essere una sorta di dittatore benevolo chiamato governo che dovrebbe stabilire chi produce cosa è bene che se la tolga dalla testa: il mercato si è dimostrato un giudice migliore per stabilire chi può restarci e chi deve uscirne.)
Al contrario il vantaggio comparato della produzione di carne spetta all’allevatore se, per esempio, produrre una quantità x di carne gli costa la misura corrispondente a due quantità di patate, mentre all’altro costa 4 unità di patate. Vale a dire che se l’agricoltore produce carne rinuncia a produrre il doppio della quantità a cui rinuncia l’allevatore.
In sostanza conviene alla società nel suo complesso che un bene sia prodotto da chi è in grado di produrlo al costo opportunità inferiore.
Il costo opportunità di una persona è l’inverso di quello dell’altra, per cui è impossibile che nella situazione indicata uno dei due abbia un vantaggio comparato nella produzione di ambedue i beni.

Comparative Advantage and Trade
I guadagni dalla specializzazione e dallo scambio sono quindi basati sui vantaggi comparati e non su quelli assoluti. Quando ogni persona si specializza nel produrre beni o servizi per i quali ha un vantaggio comparato la produzione totale nell’economia cresce. Questo incremento delle dimensioni della torta economica (la torta diventa più grande) può essere usato per far sì che tutti i soggetti in campo migliorino le proprie condizioni economiche.
Restano due questioni da affrontare: qual è il prezzo dello scambio? Come vengono ripartiti i vantaggi tra i partecipanti allo scambio?
Il prezzo deve stare in un punto tra i costi opportunità dei partecipanti, in modo che ambedue veda un vantaggio nell’acquisto o vendita del prodotto a quel prezzo. Dato che c’è uno scambio non può essere che ambedue le persone siano o solo compratori o solo venditori. Per quanto i due stiano ambedue meglio dopo lo scambio, non è detto che il beneficio sia ripartito equamente (efficienza ed equità sono cose diverse e il mercato massimizza la prima): questo dipende dal prezzo, dall’allocazione iniziale delle risorse, dalle preferenze individuali, dalla quantità che va a uno e all’altro ecc.
Esempio da libro di economia: Tom Brady dovrebbe falciare il proprio prato?
Tom Brady è uno dei migliori calciatori di tutti i tempi, ma oltre a questo è bravo anche in molte altre attività. Per esempio non c’è nessuno capace a falciare i prati con la stessa velocità. In due ore riesce a sistemare il prato di casa sua. Supponiamo che invece che falciare il prato, in quelle stesse due ore, abbia l’opportunità di fare da testimonial in uno spot pubblicitario e guadagnare ventimila dollari. Mettiamo che il suo vicino di casa, Forrest Gump, sia in grado di falciare il prato in otto ore o, in alternativa, di lavorare un giorno da Mac Donald e guadagnare 80 dollari. E’ chiaro che il vantaggio assoluto nel falciare il prato ce l’ha Tom, ma per la legge dei vantaggi comparati conviene a lui girare lo spot e assumere il vicino di casa per falciare il prato a un prezzo compreso tra gli 81 e i 19.999 dollari. Ambedue avrebbero convenienza ad effettuare lo scambio a qualsiasi prezzo compreso tra le due cifre.
Passiamo adesso agli Stati.
Supponiamo che ci siano due nazioni: Stati Uniti e Giappone, e due beni: cibo e automobili. Immaginiamo che ambedue gli Stati producano auto ugualmente bene. Un lavoratore statunitense e uno giapponese possono produrre un’auto al mese ciascuno. Però gli Stati Uniti hanno più terra, e più produttiva. Un lavoratore statunitense può produrre due tonnellate di cibo al mese, mentre un giapponese ne produce una al mese. Il principio dei vantaggi comparati stabilisce che ogni merce dovrebbe essere prodotta dal Paese che ha il costo opportunità più basso nel produrre quella merce. Poiché il costo opportunità di un’auto è di due tonnellate di cibo negli Stati Uniti e di una tonnellata in Giappone, questo ha un vantaggio competitivo nel produrre auto. Il Giappone, quindi, dovrebbe produrre più auto di quelle che vuole per il proprio uso ed esportarne alcune negli Stati Uniti. Dal canto loro gli Stati Uniti dovrebbero produrre cibo per sé ed esportarlo in Giappone e importare auto. Infatti il costo opportunità di una tonnellata di cibo è un’auto in Giappone e mezza auto negli Stati Uniti.
Attraverso la specializzazione e lo scambio, ambedue i Paesi possono avere più cibo e più auto.
Nella realtà, certo, ci sono questioni più complesse che riguardano il commercio tra le nazioni. La principale è che ogni Paese ha molti cittadini con interessi diversi. Il commercio internazionale può peggiorare la condizione di alcuni individui anche se il Paese nel suo complesso ne ricava benefici. Quando gli Stati Uniti esportano cibo e importano auto, l’impatto su un agricoltore statunitense è diverso da quello che subisce un produttore nazionale di automobili.
Tuttavia, contrariamente all’opinione spesso urlata da politici e pundits, il commercio internazionale non è una guerra in cui alcuni Paesi vincono e altri perdono. Il commercio permette a tutti i Paesi di raggiungere una prosperità maggiore. (Sono i dazi e le protezioni a scatenare guerre. Inoltre sono gli interessi contrapposti dei cittadini all’interno di un Paese a generare opposizioni, pressioni politiche e decisioni governative che favoriscono alcuni cittadini contro altri. Ne riparleremo a breve.)
Per concludere questa parte.
Il principio dei vantaggi comparati mostra che attraverso lo scambio tutti i soggetti che vi partecipano ottengono dei benefici.
In concreto, e in un mondo ben più complesso di quello formato da due soli prodotti o due soli Stati, il risultato è raggiunto dalle forze della domanda e dell’offerta.
Uno dei principi dell’economia è che i mercati sono di solito un buon modo di organizzare un’attività economica. In ogni sistema economico le risorse scarse devono essere allocate tra usi in competizione tra loro. L’offerta e la domanda determinano i prezzi di molte merci e servizi. I prezzi sono i segnali che guidano l’allocazione delle risorse.
Per esempio, consideriamo l’allocazione della terra lungo la spiaggia. Poiché l’ammontare di tale terra è limitato, non tutti possono godere della possibilità di vivere a ridosso della spiaggia. Chi otterrà tale risorsa? Chiunque sia disposto e capace a pagarne il prezzo. Il prezzo si aggiusta finché la quantità di terra offerta bilancia esattamente la quantità richiesta.
Allo stesso modo, i prezzi determinano chi produce ciascuna merce e quanta ne viene prodotta.
Prendiamo la produzione di cibo. Poiché abbiamo bisogno di cibo per sopravvivere, è cruciale che alcune persone lavorino la terra. Cosa stabilisce chi fa l’agricoltore e chi no? In una società libera non c’è un’agenzia di pianificazione governativa (per fortuna) che prende questa decisione e assicura un’adeguata (o meglio, nel caso, inadeguata) quantità di cibo. L’allocazione dei lavoratori nelle aziende agricole si basa sulle decisioni di lavoro di milioni di lavoratori. Questo sistema decentralizzato lavora bene perché le decisioni dipendono dai prezzi. Il prezzi del cibo e i prezzi del loro lavoro (i salari) si aggiustano per assicurare che abbastanza persone scelgano di fare gli agricoltori.
Le economie sono gruppi enormi di persone che svolgono una moltitudine di attività interdipendenti (vi rendete conto di quanto sia assurdo pensare di pianificarle tutte?). Cosa evita a tutte queste decisioni decentralizzate di trasformarsi in caos? Cosa coordina le azioni di milioni di persone con abilità e desideri diversi e variabili? Cosa assicura che ciò di cui c’è bisogno sia effettivamente fatto? (No, non un’autorità centrale: come sognano alcuni politici e cercano di mettere in pratica molti dittatori, da PolPot a Stalin a Chavez a ogni soggetto centralista distrutto prima o poi o dal desiderio di libertà delle popolazioni o dalla rovina delle economie pianificate.) Cosa assicura tutto ciò? In una parola: i prezzi.
Vediamo adesso cosa succede se si cerca di controllare i prezzi. Prendiamo i gelati. Supponiamo che esista un mercato libero in cui i prezzi sono pari a tre euro. Supponiamo, però, che l’associazione dei mangiatori di gelato si lamenti che il prezzo sia troppo alto affinché sia possibile mangiare almeno un gelato al giorno. L’associazione dei produttori di gelato, invece, ritiene che il prezzo di tre euro è troppo basso e deprime il reddito dei propri membri. Queste due associazioni premono sul governo affinché faccia delle leggi che alterino il mercato in loro favore, fissando dei prezzi imposti.
Se il governo fissa un tetto massimo ai prezzi dei gelati superiore al prezzo di equilibrio, per esempio 4 euro, non succede niente. Il prezzo che si forma resta di 3 euro. Se invece il governo fissa un prezzo di 2 euro, la quantità che i compratori vogliono comprare aumenta, ma quella che i venditori vogliono vendere diminuisce: l’effetto netto è che a quel prezzo c’è un eccesso di domanda, il che genera una carenza di prodotto disponibile. Non c’è abbastanza gelato per tutti. (Ecco perché dove i prezzi sono tenuti artificialmente bassi si formano sempre le code, come dal medico di famiglia o per le visite presso le asl. Ecco perché i tentativi di tenere bassi i prezzi della benzina negli Stati Uniti abortirono dopo gli innumerevoli casi di code alle stazioni di rifornimento. Ecco perché il trasporto pubblico gratuito, oltre a essere un peso per i contribuenti e un caso di inefficienza per l’impresa, è un possibile elemento di scarsità di mezzi a disposizione e quindi di code e quindi di necessità di rivolgersi al mezzo privato, con ciò pagando il servizio almeno tre volte senza usufruirne.)
Un esempio di tetto ai prezzi è costituito dal canone di affitto, ovvero “il miglior modo di distruggere una città, escluso un bombardamento.”
Il controllo degli affitti è un modo inefficiente di aiutare i poveri a migliorare il loro standard di vita. Gli effetti si vedono dopo qualche anno. Nel breve periodo i proprietari hanno un numero fisso di abitazioni a disposizione e non possono aggiustare questo numero velocemente al variare delle condizioni di mercato. Nel breve periodo le persone hanno bisogno di tempo per modificare i loro piani di investimento e anche di ricerca di alloggio. Quindi sia la domanda che l’offerta sono inizialmente rigide. Questo significa che anche se nel breve periodo si ha una scarsità di alloggi a disposizione a seguito di eccesso di domanda, l’effetto è piccolo. Nel lungo periodo le cose cambiano perché le curve diventano più elastiche. I proprietari non sono incentivati a mantenere le proprie case o a costruirne di nuove. Inoltre non sono neanche incentivati a tenerle in buono stato. I consumatori sono invece incentivati dal prezzo basso a cercare una casa in affitto anziché stare coi genitori o condividere l’appartamento. I bassi costi di alloggio spingono anche a muoversi verso le città. A questo punto, dopo un certo periodo di tempo, il fenomeno della carenza cronica di alloggi e tutta una serie di altri fenomeni di discriminazione si verificano. I proprietari possono approfittare delle code davanti casa per fare qualsiasi tipo di discriminazione e possono anche permettersi di non mantenere in buono stato la casa, viste appunto le code. I governi possono chiedere leggi che evitino le discriminazioni o impongano certe condizioni di igiene, ma sono leggi che comportano ulteriori costi e sono difficili da implementare (o da verificarne l’attuazione.) (Come spesso accade i governi causano un problema col controllo dei prezzi, poi scoprono gli effetti negativi e cercano dei rimedi che peggiorano ulteriormente la situazione.)
Torniamo ai gelati. Se a vincere fosse l’associazione dei produttori di gelato? Loro volevano la fissazione di un prezzo minimo. Vediamo quindi il caso di pavimenti di prezzo. Ad esempio il salario minimo.
Le leggi sul salario minimo stabiliscono il prezzo più basso che un imprenditore può pagare ai propri dipendenti. Innanzitutto chiariamo che le imprese determinano la domanda di lavoro e i lavoratori l’offerta: in un mercato libero senza interventi governativi i salari, come tutti i prezzi, si aggiustano seguendo la legge della domanda e dell’offerta.
Se il salario minimo è sopra il livello di equilibrio, c’è un eccesso di offerta e il risultato è la disoccupazione. Così il salario minimo alza il reddito di coloro che hanno un lavoro, ma abbassa il reddito dei lavoratori che non lo trovano.
Naturalmente l’economia include molti mercati del lavoro per diversi tipi di lavoratori. L’impatto del salario minimo dipende dalle competenze e dall’esperienza del lavoratore. Lavoratori altamente qualificati e con esperienza non sono minimamente influenzati dal salario minimo, perché la loro retribuzione è già oltre e anche molto oltre quel livello.
I teenager, invece, o i lavoratori meno qualficati subiscono diversi effetti dall’imposizione di un salario minimo. I salari dei teenager, in particolare, sono bassi a causa della loro inesperienza e della loro scarsa qualificazione. Inoltre i teenager spesso sono disposti ad accettare salari bassi in cambio di training on the job. Fissare un salario superiore rispetto a quello precedente causa eccesso di offerta e disoccupazione e se il lavoro prodotto ha un valore di mercato inferiore rispetto al costo del salario minimo, il teenager resta senza lavoro.
Se un lavoratore ha un salario di cinquecento euro e il salario minimo viene portato a mille cosa può succedere? L’impresa non può fare a meno di lui, ma i costi sono troppo alti e, soprattutto se non può agire sui prezzi, chiude. Ci rimettono tutti. Oppure L’impresa non può fare a meno di lui e riesce a competere sul mercato, ma aveva intenzione di assumere un altro lavoratore. Ovviamente non lo farà più. O ancora l’impresa ha due lavoratori da cinquecento euro l’uno. Potrebbe convenire mettere i due part time o licenziarne uno.
Alcuni studi hanno mostrato come un incremento del dieci per cento del salario minimo comporti un incremento della disoccupazione giovanile variabile tra l’uno e il tre per cento: tale percentuale è molto significativa, visto che comunque esistono giovani già pagati sopra il salario minimo. A rimetterci rischiano di essere i più poveri e quelli che hanno bisogno di un salario, sia pure basso. Chiaramente invece i salariati che usavano il salario sotto il minimo per arrotondare o per aiutare nelle famiglie dove erano mantenuti possono anche restare senza lavoro senza soffrire esageratamente.
Un aumento del salario minimo può spingere alcuni giovani che prima studiavano a entrare già nel mercato del lavoro (pure eventualmente non lasciando gli studi.) In questo modo si mettono in concorrenza con giovani disoccupati meno qualificati di loro che così si trovano ancora più in difficoltà.
Gli avvocati difensori del salario minimo vedono tale politica come un modo per alzare il reddito dei lavoratori poveri: è chiaro che chi riesce a entrare o a stare sul mercato del lavoro e ha un salario minimo più alto avrà un miglioramento del proprio tenore di vita. Il problema si pone per chi è fuori. Molti sostenitori del salario minimo ammettono gli effetti avversi ma credono che queste conseguenze negative siano temporanee e che un salario minimo più alto aiuti i poveri a migliorare.
Gli oppositori sostengono che il salario minimo non è il modo migliore per combattere la povertà. Un minimo alto causa disoccupazione, incoraggia l’abbandono delle scuole, evita che alcuni lavoratori non qualificati possano ottenere la formazione on the job di cui hanno bisogno.
Inoltre la politica del salario minimo non è ben targettizzata. Non tutti i lavoratori a salario minimo sono capi famiglia che cercano di aiutare le proprie famiglie a fuggire dalla povertà. Nei fatti, poco meno di un terzo di chi guadagna salari minimi negli Stati Uniti appartiene a famiglie con redditi sotto la linea della povertà. Molti sono teenagers che provengono da famiglie di classe media e che lavorano part time per ricevere soldi extra da spendere.
In generale gli economisti si oppongono a forme di controllo dei prezzi.
I prezzi sono il risultato di milioni di decisioni di imprese e di consumatori. I prezzi bilanciano la domanda e l’offerta e coordinano l’attività economica. Quando i politici fissano i prezzi per decreto oscurano i segnali che normalmente guidano l’allocazione delle risorse nella società.
I governi hanno altri mezzi per aiutare i bisognosi rispetto al controllo dei prezzi. Per esempio possono pagare una quota dell’affitto oppure possono fornire un reddito ai lavoratori che li porti a incrementare il reddito senza intaccare la parte a carico delle imprese. In ambedue i casi non si hanno fenomeni di scarsità: il prezzo di equilibrio resta invariato. Un esempio di sussidio ai salari è il credito di imposta sul reddito guadagnato dai più poveri.
Anche se queste politiche alternative sono spesso migliori di quelle che prevedono il controllo dei prezzi, non sono perfette neanche loro, soprattutto perché impongono il pagamento di tasse per il loro mantenimento e la tassazione ha dei costi.
Chi paga le tasse sul lusso? L’obiettivo di tali tasse è quello di ricavare soldi soprattutto da chi può permettersi di pagare di più senza mettere a rischio la propria sopravvivenza. Tassare il lusso sembra una mossa logica per tassare i ricchi. Il problema è che la realtà tende ad andare per i fatti suoi.
Prendiamo il caso di una tassa sugli yacht. La domanda di yacht è elastica: i proprietari possono agevolmente non comprare più yacht, rivolgersi a prodotti sostitutivi, vendere i propri, spostarsi dove gli yacht non sono tassati e così via. L’offerta è rigida: gli yacht richiedono anni per la produzione e le imprese di yacht si trovano in difficoltà se perdono clienti o non riescono a ottenere utili (a seconda, anche, del fatto che possano traslare l’imposta sul prezzo di vendita o la sobbarchino come costo proprio.) Chi ci perde, quindi, non sono gli originari obiettivi della tassa, i proprietari di yacht, ma le imprese produttrici e i loro lavoratori. (In generale, ribadiamo un altro effetto: soprattutto nei casi di elasticità della domanda bassa rispetto al prezzo, l’effetto principale della tassazione su un’impresa è la traslazione ai consumatori. Inoltre si hanno perdite secche, incremento di costi, riduzione del reddito disponibile e così via. Perdite di efficienza che sarebbero giustificate solo nel caso in cui tali costi fossero compensati da benefici in termini di servizi pubblici efficienti, riduzione di problemi di equità e povertà, riduzione di esternalità negative quali quelle causate dall’inquinamento. )

COMMERCIO INTERNAZIONALE
Un secolo fa l’industria tessile era una delle principali dell’industria statunitense. Cinquant’anni fa lo era dell’industria italiana. Anche come luogo di produzione. Oggi non è più così. Messi alle corde da concorrenti stranieri che producono beni di qualità a costi bassi, molte imprese tessili statunitensi si sono traovate in difficoltà nel produrre e vendere prodotti di abbigliamento con profitto. Come risultato, hanno licenziato lavoratori, chiuso fabbriche. Oggi la maggior parte dell’abbigliamento dei cittadini statunitensi è importato. Per la politica economica diverse questioni emergono.
In che modo il commercio internazionale influenza il benessere economico?
Chi guadagna e chi perde dal libero scambio tra nazioni e in che modo i guadagni sono confrontabili con le perdite?
Abbiamo già visto che in base ai vantaggi comparati tutti i Paesi possono beneficiare dal commercio con gli altri poiché lo scambio permette a ogni nazione di specializzarsi nel fare ciò che sa fare meglio. Non abbiamo ancora spiegato però come il mercato internazionale raggiunge questi risultati o come i guadagni sono ripartiti tra i vari partecipanti.
Immaginiamo il mercato tessile nella terra di Isolandia. Tale mercato è isolato dal resto del mondo. Per decreto governativo nessuno a Isolandia può importare o esportare prodotti tessili e la pena in caso di violazione è così elevata (e i controlli sono così efficaci) che nessuno osa provarci.
Poiché non c’è nessun commercio internazionale, il mercato interno è formato da soli compratori e venditori locali. Si formano un prezzo e una quantità di equilibrio che esprimono il beneficio totale che compratori e venditori ricevono dalla partecipazione al mercato.
Supponiamo che un nuovo governo decida di valutare tre cose:
1. Se il governo consentisse l’importazione e l’esportazione di prodotti tessili, cosa accadrebbe al prezzo e alla quantità dei beni venduti nel mercato domestico?
2. Chi guadagna e chi perde dallo scambio? I guadagni eccederebbero le perdite?
3. Una tassa sulle importazioni dovrebbe far parte della politica economica?

Primo punto. Supponiamo che esista una sorta di “prezzo mondo.” Se questo prezzo è più alto di quello in vigore all’interno del Paese, i produttori saranno ben disposti a esportare e ottenere ricavi più alti di quelli ottenibili ai prezzi domestici. Se il prezzo mondo è più basso, i consumatori saranno ben disposti a comprare prodotti dai fornitori esteri. Nel primo caso la spinta del mercato si tradurrà nel rendere Isolandia un Paese esportatore netto di prodotti tessili. Nel secondo caso il Paese sarà importatore.
In base alla regola dei vantaggi comparati se il costo interno è basso, il Paese ha un vantaggio competitivo rispetto agli altri e produrre prodotti tessili in Isolandia è conveniente rispetto agli altri Stati. Viceversa, se il costo è alto: in questo caso sono gli altri Paesi ad avere un vantaggio comparato e quindi a Isolandia conviene importare.
Secondo punto. Per fare un’analisi corretta dovremmo considerare come si muovono le curve di domanda e offerta e studiare le aree delle figure che mostrano i guadagni e le perdite degli operatori. Lasciamo questo compito ai libri di economia. Come esempio di base occorre assumere che l’economia di Isolandia sia sufficientemente piccola da non poter essere che “price taker,” vale a dire che non è in grado di determinare o influenzare i “prezzi mondo.” (Isolandia non sono gli Stati Uniti o la Cina, insomma.) In un’ipotesi del genere il prezzo interno si adegua a quello mondiale e la domanda è perfettamente elastica. Se è più basso, si alza, poiché nessun produttore accetterebbe un prezzo di vendita più basso di quello mondiale e nessun compratore ne accetterebbe uno più alto di quello mondiale. Se è più alto, si abbassa. Tale ipotesi è utile per semplificare l’analisi, ma la lezione di base non cambia se si introducono maggiori complessità o si prendono in considerazione economie così grandi da essere in grado di influenzare il livello dei prezzi. Cosa si scopre effettuando l’analisi grafica?
1. Quando un Paese si apre al commercio internazionale e diventa un esportatore di un bene, i produttori della merce hanno un beneficio, ma i consumatori hanno una perdita: i primi ricevono un prezzo più alto di prima, i secondi lo pagano.
2. L’apertura migliora il benessere economico della nazione nel senso che i guadagni dei vincitori eccedono le perdite dei perdenti.
3. Quando il Paese diventa un importatore di una merce, i consumatori locali migliorano la loro condizione (pagano prezzi più bassi di prima,) mentre i venditori la peggiorano (ricevono prezzi più bassi.)
In sostanza viene confermato il principio economico secondo cui lo scambio può migliorare le condizioni di tutti. Se Isolandia apre il mercato tessile al commercio internazionale, il cambiamento creerà vincitori e sconfitti, sia che il Paese diventi importatore o esportatore. In ambedue i casi il guadagno dei vincitori sarà superiore alla perdita degli sconfitti, cosicché i vincitori potrebbero dare un compenso agli sconfitti e stare ugualmente meglio di prima. In realtà queste compensazioni è improbabile che si verifichino.
Aprire un’economia al commercio internazionale è una politica che, in pratica, espande le dimensioni della torta economica, ma lascia qualche partecipante con una fetta più piccola.
Adesso è chiaro come mai il dibattito sulla politica degli scambi è sepsso materia di contenzioso per politici e anche per economisti. Quando una politica crea vincitori e sconfitti, si crea uno scenario ideale per battaglie politiche. Le nazioni a volte non riescono a godere dei guadagni derivanti dall’apertura perché i perdenti sono organizzati meglio dei vincitori. I perdenti possono riuscire a convincere i politici a imporre restrizioni al commercio come tasse o vincoli all’import.
Eccoci così al…
Terzo punto. Se Isolandia diventa esportatore di prodotti tessili, la tassa sulle importazioni è irrilevante. Se diventa importatore, invece no.
Una tassa sulle importazioni alza il prezzo del prodotto, che diventa pari al prezzo mondiale della merce più la tassa. I venditori ricevono un prezzo più alto rispetto al caso dell’isolamento. Il governo riceve l’importo della tassa. I compratori pagano un prezzo più alto sia rispetto al caso dell’isolamento che rispetto al caso dell’apertura senza tasse. Il fatto è che un prezzo di equilibrio più alto comporta una quantità di equilibrio inferiore al caso precedente. Si riducono le dimensioni della torta.
Facendo un’analisi grafica osserviamo l’effetto della tassa sul comportamento degli attori coinvolti e quindi sul surplus dei consumatori (effetto negativo,) sul surplus dei produttori (effetto positivo,) e sui ricavi del governo (effetto positivo.) Il fatto è che il surplus totale nel mercato diminuisce. Questa diminuzione è chiamata la perdita secca (deadweight loss) della tassa ed è uno dei caratteri fondamentali nello studio dei sistemi di tassazione: ogni tassa distorce l’efficienza del mercato in senso peggiorativo.
Come la maggior parte delle tasse, un dazio sulle importazioni distorce gli incentivi e allontana l’allocazione delle risorse dal punto di ottimo.
Un altro modo attraverso cui i governi a volte restringono il commercio internazionale è limitare la quantità di beni importati. Anche le limitazioni alle importazioni producono effetti simili alle tasse. Sia le tasse che la regolamentazione delle quote di import riducono la quantità dei beni importati, alzano il prezzo delle merci importate all’interno del Paese, alzano il benessere economico dei produttori locali, riducono il benessere economico dei consumatori locali, causano deadweight losses. Nel caso delle tasse, inoltre, crescono i ricavi governativi mentre nel caso delle quote all’import, crescono i ricavi di chi ha la licenza all’importazione (il beneficio netto è dato dalla differenza tra prezzo mondo e prezzo interno.)
(Un esempio molto italiano sui dazi alle importazioni riguarda la Fiat. C’erano una volta in giro solo auto Fiat, che potevano essere di qualità inferiore a quelle giapponesi, ma protette dai dazi. La Fiat aveva il sessanta per cento del mercato italiano. Spariti i dazi, la Fiat ha il trenta per cento: lei ci ha rimesso, ma i consumatori no.)
Ci sono altri casi di possibili restrizioni al commercio internazionale o sistemi di tariffazione o assegnazione di licenze in modo triangolare tra vari Paesi, ma il punto in favore del libero scambio resta. Ci sono altri elementi che dimostrano i benefici degli scambi liberi tra stati:
1. Una maggiore varietà di merci. Beni prodotti in Paesi diversi non sono esattamente gli stessi. Una birra americana, per esempio, non è la stessa di una birra tedesca. Il commercio libero permette un’ampia libertà di scelta tra svariati tipi di prodotti diversi provenienti da tutto il mondo.
2. Economie di scala e costi inferiori. Alcuni tipi di merci possono essere prodotte a costi bassi solo se sono prodotte in grandi quantità. Le economie di scala riducono i costi fissi unitari. Un’impresa in un piccolo Paese non può avvantaggiarsi del tutto delle economie di scala se può vendere soltanto in un piccolo mercato locale. Il commercio internazionale amplia il mercato a disposizione e quindi la possibilità che hanno le imprese di accedere a mercati più grandi e permette la realizzazione di economie di scala più pienamente.
3. Aumento di concorrenza. Un’impresa che è protetta contro la concorrenza ha un potere di mercato più ampio, può operare in una posizione monopolistica garantita, può permettersi di non innovare, di tenere i prezzi alti, di pagare poco i dipendenti, di ridurre le quantità disponibili. Questo è un tipo di fallimento del mercato: l’apertura del mercato permette alla mano invisibile di operare più efficacemente.
4. Sviluppo di idee. Il trasferimento di avanzamenti tecnologici nel mondo è spesso collegato al commercio di merci che incorporano quegli avanzamenti. (Pensiamo all’algoritmo di Google o alla mappatura del genoma o alla stessa Internet.) Il miglior modo per una nazione agricola povera di imparare qualcosa sulla rivoluzione informatica è di comprare computer dall’estero anziché provare a farli internamente.
Così il libero commercio internazionale accresce la varietà dei prodotti per i consumatori, permette alle imprese di avvantaggiarsi delle economie di scala, rende i mercati più competitivi, facilita lo sviluppo tecnologico tra Paesi. Inoltre rende improbabili le guerre commerciali, visto che la base del libero mercato è la partnership: ognuno fa quel che sa fare meglio e scambia il prodotto con l’altro. (Per il vincolo di bilancio è impossibile che un solo Paese sappia fare tutto meglio e venda tutto agli altri che non producono più niente, anche perché in questo caso il primo Paese a chi venderebbe?)
Un esempio di guerra commerciale. Obama ha provato a fissare una tassa su alcuni prodotti provenienti dalla Cina, su pressione di qualche associazione di categoria, ma dopo una ritorsione dei cinesi, è tornato sulle sue decisioni.
Ritorniamo ancora una volta a Isolandia. Il governo è intenzionato ad aprire il mercato dei prodotti tessili e chiede un parere ai produttori tessili stessi. Il risultato dell’apertura sarebbe che il Paese diventa importatore, per cui i produttori non sono contenti e si oppongono. Credono che il governo dovrebbe proteggere l’industria del proprio Paese dalla concorrenza e mettono in campo varii argomenti:
1. L’argomento del lavoro.
2. L’argomento della sicurezza nazionale.
3. L’argomento dell’industria in fasce.
4. L’argomento della concorrenza sleale.
5. La minaccia nelle contrattazioni.
Primo punto. Il lavoro.
Spesso gli oppositori al commercio libero argomentano che tale commercio distruggerebbe il lavoro interno. Questo perché se i consumatori comprano da imprese estere che tengono i prezzi bassi, anche i produttori locali dovranno abbassare i prezzi e quindi anche i salari oppure chiudere e quindi i lavoratori perderebbero il posto. Se questo è vero nel breve termine, però, c’è da dire che gli stessi consumatori che spendono meno per i prodotti tessili adesso hanno più reddito disponibile per acquistare altri prodotti, anche interni, e quindi può aumentare la domanda per questi altri prodotti, e quindi la necessità di imprese di settori diversi di assumere persone che possono provenire dal settore tessile (dopo adeguata formazione e sussidio di disoccupazione, per dire.) Analogamente, se i consumatori comprano prodotti tessili all’estero, i cittadini di quei Paesi avranno disponibilità economiche per comprare prodotti dove Isolandia ha un vantaggio comparato e quindi ci saranno settori in crescita dove potranno essere assunti lavoratori.
Il periodo di transizione è sicuramente duro per alcuni lavoratori, ma consente di arrivare a un punto nel quale gli abitanti di Isolandia, nel complesso, godono di uno standard di vita migliore. (Che la globalizzazione abbia portato milioni di poveri fuori dalla povertà è un dato empirico ormai acclarato. Che l’apertura al commercio internazionale abbia portato benefici ai Paesi prima europei e poi asiatici e anche africani è un altro dato acclarato. Che la protezione offerta ai prodotti agricoli occidentali sia un problema per la povertà dei paesi africani è un altro dato incontrovertibile.)
Gli oppositori al libero commercio sono spesso scettici sulla creazione di posti di lavoro. Potrebbero argomentare che tutto possa essere prodotto più economicamente all’estero e che a Isolandia nessuno potrebbe essere impieagato con profitto in un settore. In realtà i guadagni derivanti dal commercio non si basano su vantaggi assoluti, ma su vantaggi comparati, come già visto. Anche se un Paese è più bravo in tutto rispetto a un altro, ogni nazione può ancora guadagnare dal commercio con le altre. I lavoratori in ciascun Paese, alla fine, troveranno lavori in un’industria in cui tale Paese ha un vantaggio comparato.
Secondo punto. La sicurezza nazionale. Ogni impresa che si rispetti ritiene di essere vitale per la sicurezza nazionale oppure di essere l’unico baluardo per fronteggiare la crisi o l’unico settore che è cresciuto. Si trovano sempre scuse per essere protetti, ma se siamo veramente bravi possiamo non avere paura della concorrenza.

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The Infant-Industry Argument
Le nuove industrie argomentano che dopo un periodo di restrizioni al commercio che le aiuti a crescere, potranno essere in grado di competere con le imprese estere e quindi allora potranno essere tolte le restrizioni. Allo stesso modo le vecchie industrie possono argomentare di avere bisogno di tempo e quindi di protezioni temporanee per potersi adattare a nuove condizioni. Bush, per esempio, ha imposto una tassa sulle importazioni di acciaio per venti mesi, a suo tempo.
Questo tipo di restrizioni è difficile da mettersi in pratica. Il governo dovrebbe decidere quali industrie saranno alla fine profittevoli e decidere se i benefici derivanti dall’aiutare queste imprese saranno superiori ai costi che devono subire in più i consumatori. Inoltre il processo politico potrebbe dare protezione alle imprese politicamente più sostenute anziché a quelle più efficienti. E’ difficile poi anche che il “temporaneo” non diventi “permanente.”
Oltre a problemi politici, gli economisti sono scettici anche per principio su questo tipo di argomenti.
Se un’impresa sa di non poter competere inizialmente coi concorrenti esteri, ma è convinta di riuscirci nel lungo termine, chi la regge è di solito consapevole delle perdite iniziali che dovrà subire. Lo stesso sanno gli azionisti. La storia mostra che le start up spesso hanno perdite temporanee nei primi tempi della loro vita e poi hanno successo nel lungo termine. Senza alcun bisogno di protezione dalla concorrenza.
Quarto punto. La concorrenza sleale.
Un argomento di opposizione comune è che il libero scambio sarebbe deisderabile solo se tutti i Paesi giocassero con le stesse regole. Se le imprese in Paesi diversi sono soggette a leggi e regolamentazioni diverse, allora è ingiusto aspettarsi che le imprese competano nel mercato internazionale. Supponiamo che il governo cinese sussidi le proprie industrie tessili garantendo loro pesanti agevolazioni fiscali. Le imprese cinesi praticherebbero prezzi più bassi non per vantaggi competitivi propri delle imprese stesse ma per sussidi governativi. Gli isolandiani potrebbero chiedere di essere protetti perché i cinesi non competono equamente. In realtà, però, cosa succede? Che i produttori tessili isolandiani sarebbero svantaggiati, ma i consumatori otterrebbero i prodotti a prezzi più bassi e quindi sarebbero avvantaggiati. Inoltre l’effetto netto complessivo sarebbe positivo: i guadagni dei consumatori sarebbero maggiori delle perdite dei produttori. Per quanto riguarda la brutta politica di sussidio da parte dei cinesi, il problema non riguarda gli isolandiani, ma i tax payer cinesi, su cui ricade il peso del sussidio.
Quinto punto. Le contrattazioni.
Un argomento di opposizione al libero commercio è il seguente:
dato che il Paese x applica un dazio sul bene y (facciamo conto che sia il grano,) minacciamolo di apporre dei dazi sull’importazione di prodotti tessili se non elimina il suo dazio. Ora, se il paese x accetta, il mercato è effettivamente più libero, ma se rifiuta? Se Isolandia mette il dazio, si ritrova becco e bastonato. Se non lo mette più, perde prestigio internazionale.
Conclusione
Gli economisti (seri) e il pubblico spesso sono in disaccordo sul libero commercio. Lo scambio è un modo per allocare la produzione in modo efficiente e per alzare gli stili di vita in un Paese e all’estero. Prendiamo gli Stati Uniti. Nel corso della loro storia hanno permesso commerci senza restrizioni tra i vari stati che li compongono e il Paese ha beneficiato della specializzazione che il libero scambio consente. La Florida produce arance, l’Alaska petrolio, la California vino ecc. Gli americani non godrebbero del loro attuale standard se le persone consumassero solamente i beni e i servizi prodotti nel loro singolo stato. Il mondo, analogamente, beneficia del libero commercio tra Paesi.
Torniamo a Isolandia. Supponiamo che il mercato non venga aperto: la gente continua a vivere come prima, il prezzo di equilibrio resta invariato e così pure le curve di domanda e di offerta di prodotti tessili. Mettiamo che entri nel mercato un inventore che scopre il modo di produrre vestiti a costi molto bassi. Ad esempio inventa una nuova tecnologia, un nuovo impianto oppure utilizza materie prime diverse. Può trovare il modo di produrre i vestiti usando il grano anziché il cotone e ridurre al minimo la manodopera. Il costo dei prodotti è quindi basso, così il prezzo di vendita e poiché tutti si vestono, i consumatori vanno in massa da lui (questo comporterebbe alcuni problemi di capacità di struttura, ma tralasciamoli, visto che non rilevano per il nostro discorso.) Il reddito disponibile dei consumatori aumenta e così il loro standard di vita. Certo: le imprese tessili pre esistenti chiudono, i lavoratori devono subire dei momenti di difficoltà, ma l’accresciuta quota di reddito disponibile si traduce in risparmio e in nuovi investimenti. Alla fine i lavoratori trovano lavoro in altri settori, magari a più alto valore aggiunto. E’ probabile che si formi una qualche forma di concorrenza all’impresa del nuovo inventore. Ognuno, comunque, capisce che come conseguenze inevitabile dello sviluppo tecnologico la fuoriuscita di lavoratori da settori industriali obsoleti (il vecchio modo di produzione di vestiti è superato e inefficiente: la sua protezione comporta solo costi per il sistema).
Un giorno un giornalista indaga e scopre che in realtà l’inventore aveva solo millantato che i suoi vestiti fossero fatti di grano: in realtà vendeva il grano che produceva all’estero e in cambio si procurava vestiti che costavano meno di quelli che si trovavano in patria.
A questo punto il governo decide di imprigionare l’inventore e chiudere la fabbrica, col plauso dei vecchi produttori tessili, che possono riaprire le loro decrepite industrie e assumere personale (al vecchio salario, più basso.) Gli standard di vita tornano al loro, peggiore, livello precedente, e la vita riprende in Isolandia nel suo poco beato isolamento protezionista.
Una nota. Le forze della domanda e dell’offerta permettono di allocare le risorse in modo efficiente in un mercato libero. Anche se ogni compratore e venditore pensa solo al proprio benessere, essi sono guidati da una sorta di mano invisibile verso un equilibrio che massimizza il beneficio totale dei compratori e dei venditori.
Bisogna però tenere conto di alcuni aspetti. Innanzitutto la legge della domanda e dell’offerta non è una legge fisica: vale quasi sempre, ma non sempre. Inoltre per concludere che il mercato è efficiente abbiamo fatto alcune assunzioni di base: se le togliamo la conclusione può non essere più vera.
Innanzitutto abbiamo supposto un modello di concorrenza perfetta in cui gli agenti non hanno un potere di mercato tale da influenzare i prezzi. Nella realtà esistono situazioni di monopolio, monopsonio, oligopolio, oligopsonia, concorrenza monopolistica e così via in cui qualcuno ha un potere di mercato tale da poter spostare il prezzo e la quantità di equilibrio della domanda e dell’offerta.
Inoltre abbiamo preso in considerazione solo due soggetti: il compratore e il venditore. Nel mondo reale le decisioni dei consumatori e dei produttori possono ricadere anche su soggetti esterni, che possono esserne beneficiati o danneggiati. Un esempio riguarda l’inquinamento. L’uso dei pesticidi, per esempio, non coinvolge solamente il produttore e il contadino, ma anche chi respira l’aria o beve l’acqua che sono state inquinate dai pesticidi (a prescindere da altri interessi, come quelli di chi assegna un valore al mantenimento dell’integrità del suolo o della limpidezza delle acque.) Questi fenomeni sono chiamati esternalità e fanno sì che il benessere della società nel suo complesso non dipenda solo dalla decisione dei compratori e dei venditori, qualora questi non considerino le esternalità stesse. Il prezzo che si forma in questi casi non riflette un equilibrio efficiente, cioè che massimizza il benessere economico totale della società. In questi casi, e solo in questi casi, l’intervento dei poteri pubblici può apportare miglioramenti. (Ovviamente può anche apportare peggioramenti nel tentativo di migliorare le cose.)
Nella maggior parte dei mercati, comunque, le assunzioni di base sono valide.

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