Mezza maratona di Bologna. Anno 2012.
Km zero. Non ho nemmeno tanta voglia. Quando è davvero una gara seria è diverso. Penso a delle frasi motivanti come “run like you’ve never done before,” o “sbrana la strada.” Mi sono preparato mangiando molto e allenandomi chissà come. La tabella di preparazione prevede di correre a un ritmo di cinque minuti e quaranta secondi al chilometro. Io non so se prenderla come una gara o come un allenamento.
Mi viene a prendere Simona B. Lei fa guidare me e sbaglio strada otto volte dopo avere fatto una colazione a base di ciò che non andrebbe preso. Cappuccino. Pasta. Pizza.
C’è tensione. Laura è agitata e tesa come prima di un esame. Katia vuole partire piano perché ha paura. Seguiamo il coach.
Km uno. Katia è tesa. Dice “ohi ohi”. Silvia è già involata. Pensiamo che rischia di schiantare dopo dieci chilometri. Il coach fa:” Lei sta correndo una dieci chilometri.” Dico a Katia di guardare il colore rosso delle case della città di Bologna. Siamo in Piazza Maggiore.
Più avanti ci applaudiranno anche lì. Gli incitamenti fanno bene. Come i bambini che danno il cinque e la banda che suona. Alcuni gruppi musicali hanno suonato durante tutta la gara. Come già a Berlino e ad Amsterdam. A Firenze, invece, quando passai, stavano muti.
Km due. “Katia. Facciamo un po’ di lezione di inglese. Ti dico i suoni. Suono th. Poi. Pronuncia Comfortably.” Una ragazza che corre accanto a noi si mette a ridere.
Km tre. Katia e il coach vanno avanti. A me e al Garmin sembra di andare forte. Rallento e sto un po’ con Cecilia.
Km quattro. Passiamo lungo dei viali alberati e delle strade ai cui incroci c’è gente arrabbiata, come succede solo in Italia. È inevitabile il paragone con le maratone internazionali, dove le gare sono sempre una festa. Sembra quasi che l’italiano abbia una tara genetica.
Km cinque. Il primo rifornimento. Prendo un goccio d’acqua. Tutte quelle bottiglie sono uno spreco. Potevano dare i bicchieri, anziché far sì che la gente prendesse poca acqua e buttasse il resto della bottiglia. O, al contrario, possono aver fatto bene: col caldo e il sole è meglio bere molto. Per essere a metà settembre non era male il meteo, però.
Km sei. Penso al racconto “il sudore dell’atleta.” Penso che quando non ti sembra di sudare è peggio. A Roma andavo benissimo. Poi crollai. Il vento asciugava il sudore e disidratava. Non ce ne accorgemmo e il primo sole di marzo distrusse tanti corridori, che arrivarono stremati all’arrivo. Un uomo non sapeva neppure come si chiamava. Io mi ritirai anche per il problema alla bandelletta (sai che sei un runner se sai cosa e dove è la bandelletta ileo tibiale.). Dato che non trovai i pulmini degli accompagnatori arrivai a piedi al traguardo. Una donna mi fece forza per ripartire correndo, ma mollai. Adesso vado bene, anche se mi sembra di sudare troppo.
Km sette. Vado avanti. Accelero. Cerco di andare già a cinque e dieci al chilometro. In testa si accende la lampadina “record”. È la stessa voce insistente che a Roma diceva “ritiro.”. Do sempre troppa retta a queste voci. La voce mi ha trascinato, insieme al pubblico festante, alla vista di tanti runner davanti a me lungo i viali, al pensiero di cosa dirò e farò una volta raggiunto l’obiettivo in anticipo, al pensiero della condivisione. In questo tumulto di pensieri positivi tornano anche quelli del cambio lavoro cambio casa cambio nazione divento libero professionista salvo il pianeta faccio tantissimi sport scrivo tantissimo conosco gente da tutto il mondo imparo diecimila lingue in tre mesi. Tutto mi sembra possibile.
Km otto. Guardo il Garmin. Tutto mi sembra possibile. Non ho ancora fatica. Inizio a vedere la maglia arancione di Silvia e quella viola di Katia davanti a me. Significa che le raggiungerò. Succede sempre così. Se vedi qualcuno davanti a te, sia pur lontano, che prima non vedevi, quasi sicuramente lo superi mantenendo il passo. Se stai in un gruppo e poi ti fai staccare, cerchi di riuscire a recuperarlo. Se ce la fai vuol dire che stai bene. Quando non ti fidi del Garmin o quando non ce l’hai queste strategie sono utili. A Jesolo e alla Roma Ostia intervennero altri fattori: ragazze carine che andavano veloci e ti superavano e tu che le inseguivi. In ambedue i casi ho fatto il mio record, di quei tempi.
Km nove. Katia e Silvia, insieme al coach sono sempre più vicine. Ci saranno tremila partecipanti, ma non vedo molta gente intorno a me su cui curiosare o inventare storie o a cui chiedere l’amicizia su Facebook. Tengo il passo di qualche ragazza crina, ma poi va troppo lenta. Non ci sono magliette con scritte da ricordare.
Km dieci. Raggiungo Katia, Silvia e il coach. “State accelerando.” Dice il coach, che poi si ferma. “Per forza. È arrivato lui a rompere i coglioni,” dice Katia. Io bevo al rifornimento, loro no. Non le raggiungerò più.
Km undici. Continuo a correre allo stesso passo. Dovrei essere sui cinque e dieci al chilometro. Guardo il Garmin, ma vatti a fidare! Non riesco ad accelerare per raggiungere Katia e Silvia. Comunque va bene per ora tenere. Percorro una salita. Sento che le gambe si stanno indurendo, ma non molto. Continuo a tenere il ritmo. Forse faccio la salita troppo forte. Saluto un bambino con la bandiera. Sorride. Supero diversa gente e diversi gruppi. Sento distintamente suonare la banda. Non accelero, ma è tutto a posto. Penso al record.
Km dodici. Sono in una strada stretta. Sto sbarellando? Inciampo quasi in uno scalino. Mi sembra che questo chilometro non passi mai. Abbasso la testa. Gli occhi guardano per terra. Non va bene. Era il mio errore tecnico nei primi tempi. Non li rialzo. Il sole comincia a darmi noia. Le strade mi sembrano tutte in salita. Non mi sento andare avanti d’impeto, tantomeno di accelerare. Eppure il Garmin dice che sto tenendo il passo. Penso che un rallentamento prima di un’accelerazione finale può starci.
Km tredici. Che fatica andare avanti! Eppure sembra che non stia andando troppo piano. Più che altro mi sembra che mi manchi il fiato. E’ una sensazione mai provata. La colazione con pasta, pizza, caffè e latte non l’ho digerita. Durante l’estate mi sono allenato, ma non ho fatto lunghi e non sono stato attento all’alimentazione. Sono cose che si pagano.
Km quattoridici. “Signora!”, dice una ragazza ad una donna che attraversa la strada, disturbando la corsa. “Che devo fare?” Risponde lei. Sto al lato della strada. Per non sbattere il braccio sinistro contro i colonnini lungo il marciapiede devo alzare la mano. Continuo a guardare in basso. La gente sulla strada sembra incitare, ma non la vedo, non la cerco, non la sento. La musica della banda mi fa pensare ai primi chilometri ma non mi entusiasma più. Mi sembra di sbiancare. Penso alla colazione. Mi sembra di avere voglia di andare in bagno. Vedo un bar. Lo supero.
Km quindici. Prendo i sali al rifornimento. Mi sa che devo andare in bagno. Vedo un bar. Oltrepasso il pubblico che incita. Il titolare deve essere sulla soglia. Gli chiedo se c’è un bagno. Ci vado. Esco. “Tutto bene?” Mi fa qualcuno. “Abbastanza.” Rispondo. Mi spiace non avere niente per consumare. Ringrazio. La gente forse ci considera degli eroi perché abbiamo corso quindici chilometri. Una bazzecola, si potrebbe pensare. Riparto veloce. Forse era soltanto un problema di intestino.
Km sedici. Penso di non mollare. Il pensiero che mi fece andare avanti anche a Vienna. Però vedo che rallento. Le gambe sono dure. Respiro affannosamente, ma soprattutto sbarello. La gente inizia a superarmi. Sento una ragazza dire di non mollare perché manca poco alla fine. In fin dei conti mancano solo cinque chilometri all’arrivo.
Km diciassette. A pensarci bene sono già al diciassettesimo. Non deve essere andata malissimo. Mi devo allenare meglio nei progressivi. Lo dico sempre in gara, però. Non mi devo fermare cinquecento metri prima negli allenamenti. Lo dico sempre in gara, però. Corro cinque giorni a settimana e sto attento all’alimentazione e al potenziamento muscolare. Lo faccio sempre dopo le gare andate male, però. Dopo quelle andate bene mi rilasso, ma è nel mezzo tra una gara e l’altra che sto meno attento. Anche perché so che poi riparto e raggiungo gli obiettivi.
Km diciotto. E se svenissi? E se mi fermassi? Piazza Maggiore dovrebbe essere vicino. Quasi quasi faccio un chilometro di corsa e il prossimo a piedi.
Km diciannove. Cammino. Dai. Che vuoi che sia un chilometro a piedi? Certo che poi a guardare i tempi si accorgeranno tutti della prestazione, ma questo era un allenamento. Bisognerà vedere più avanti. Mi supera Simona: urla “Vai!”. Mi risulta difficile.
Km venti. L’ultimo chilometro. Corro. Vado anche veloce. No. Per poco. La gente sarebbe entusiasmante, riuscissi a connettere i neuroni. Vado avanti a sbuffi o camminando o sbarellando. Un addetto dell’organizzazione mi ferma il passo pensando che sia uno spettatore. “Ma tu stavi correndo”. Mi fa. Gli faccio cenno che non importa. Riparto fortissimo. Il canto del cigno, più o meno. Finisco camminando. Non è stata mica una corsa.
Km ventuno. Ritrovo Silvia. “Ma non eri dietro di me?” Ha chiuso in 1h54′ ed è contentissima.
Andiamo tutti a mangiare in un ristorante. Io comincerò a gustare il pranzo quando mi sarà passato il mal di stomaco, cioè quando gli altri saranno già al caffè.