Da “Perché il sud è rimasto indietro” di Emanuele Felice.
Possiamo suddividere gli anni postunitari in quattro fasi. La prima (1861-1913) abbraccia l’Italia liberale, dall’Unità fino alla prima guerra mondiale: i divari aumentano, nel Nord-Ovest inizia a delinearsi il Triangolo industriale mentre il Mezzogiorno arretra, ma tutto sommato la divergenza è ancora contenuta. La fase successiva (1913-1951) va dallo scoppio della prima guerra mondiale alla ricostruzione che segue la seconda, e include naturalmente gli anni del fascismo: è questo il periodo di massima divergenza, come anche di più forte omogeneizzazione all’interno delle tre macroaree. La terza fase (1951-1973) comprende gli anni del miracolo economico, fino allo scoppio della crisi energetica: si tratta dell’unico segmento della storia d’Italia in cui il Mezzo giorno converge significativamente sul resto del paese; e per la verità inizia a convergere anche il Nec sul Nord-Ovest, pur se a un ritmo meno intenso. La quarta e ultima fase (1973-oggi) origina con la crisi petrolifera: in questo periodo il Mezzogiorno smette di convergere, e anzi inizia ad arretrare anche se molto lentamente; di contro, le regioni del Nec accelerano visibilmente la convergenza sul Nord-Ovest . Come si spiegano questi andamenti diversificati? Il discorso è sempre lo stesso: da una parte abbiamo la modernizzazione attiva delle regioni del Nec, che grazie ad essa sapranno raggiungere gli stessi livelli del Nord-Ovest; dall’altra la modernizzazione passiva del Mezzogiorno, che riuscirà a convergere solo grazie al massiccio intervento dello stato (con la Cassa per il Mezzogiorno.)
ll Triangolo industriale andò prendendo forma in epoca liberale: era già visibile nel 1911, al culmine dell’età giolittiana. A tale data la Lombardia risultava la regione più industrializzata d’Italia (con quasi il 38% della forza lavoro occupata nel secondario), seguita dalla Liguria (32%), che allora primeggiava nel reddito grazie anche a una possente struttura terziaria, dal credito ai trasporti. Occorre ricordare che le tre regioni del Triangolo non mostravano una spiccata specializzazione in nessun comparto specifico, ma si segnalavano rispetto al resto d’Italia un po’ in tutte le attività manifatturiere, da quelle della prima rivoluzione industriale (tessile) a quelle della seconda (meccanica, chimica): ne risulta che tali territori godevano di vantaggi generali di sistema (ad esempio istituzioni più efficienti, ma non solo), più che di vantaggi specifici di settore (ad esempio particolari risorse naturali, o una certa tradizione manifatturiera). La posizione del Triangolo si rafforzò negli anni fra le due guerre, anche grazie all’aiuto dello stato, che lì concentrò i suoi sforzi prima per sostenere la produzione bellica al fine di vincere la prima guerra mondiale, poi per salvare quelle stesse industrie che si erano smisuratamente ingrandite durante il conflitto e non riuscivano a riconvertirsi alla produzione di pace . Negli anni trenta gli interventi successivi alla grande crisi, con la creazione della conglomerata pubblica Iri, e le politiche autarchiche, che pur risultando complessivamente negative promossero l’innovazione in alcuni comparti (la chimica), fecero il resto. Anche se in una congiuntura non facile, l’industria del Triangolo continuò a svilupparsi, potendo sempre contare sull’appoggio dello stato, tardoliberale o fascista che fosse: un sostegno che non poteva venire meno, pena il crollo dell’intero apparato produttivo, e con esso anche delle ambizioni di potenza politica e militare, dell’Italia. All’interno di questo quadro di sintesi, emergono alcune differenze importanti fra le regioni del Triangolo. Sin dagli anni ottanta dell’Ottocento, la Liguria ricevette significativi aiuti di stato, diretti alla cantieristica, alla meccanica pesante e all’acciaio ; il flusso dei finanziamenti pubblici e delle commesse statali aumentò ancora negli anni fra le due guerre, prima per sostenere lo sforzo bellico e poi per i salvataggi industriali e bancari che ne seguirono. Di contro, le industrie lombarde dimostrarono di saper crescere e conquistare i mercati internazionali (quasi) senza l’aiuto finanziario dello stato e l’ombrello delle commesse pubbliche o del protezionismo. Il Piemonte si colloca in una posizione intermedia: la grande impresa era presente e si avvaleva di aiuti e commesse statali (basti pensare al caso della Fiat durante la prima guerra mondiale) , ma in misura meno pronunciata che in Liguria. Nell’insieme, possiamo parlare di un capitalismo di tipo «eclettico», condividendo la definizione di Duccio Bigazzi: vi ritroviamo tanto aspetti del modello à la Gerschenkron, come l’intervento decisivo dello stato o il ruolo delle banche universali tra fine Ottocento e anni trenta del Novecento, quanto alcune caratteristiche manchesteriane, come il tentativo di
sfruttare i vantaggi locali comparati per affermarsi sui mercati internazionali.
Occorre aggiungere però che nel corso della seconda metà del Novecento saranno i territori imperniati sul modello manchesteriano a conservare la leadership nel Pil pro capite: è il caso principalmente della Lombardia, la quale ancora oggi è la regione più ricca del paese (dopo Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige), mentre la Liguria e anche il Piemonte hanno perduto posizioni. Dove la prosperità dipende maggiormente dall’intervento esterno, statale, è più difficile mantenerla nel lungo periodo; dove questa si basa invece anche sull’attivismo locale, i risultati appaiono più solidi.
Ma quali sono i vantaggi locali, endogeni, su cui si è fondato il successo di lungo periodo di una parte del Triangolo? Gli studiosi hanno sottolineato il ruolo delle risorse naturali, del capitale umano e del capitale sociale, variabili che recentemente sono state contestualizzate in un approccio dinamico, che postula un peso diverso a seconda delle epoche storiche e soprattutto dei «regimi tecnologici» (cioè delle tecnologie di produzione prevalenti in un periodo); quel che conta però è che tutte queste determinanti sono tenute insieme dall’azione di istituzioni inclusive. Così, abbiamo l’energia idraulica e la compenetrazione fra industria e agricoltura all’epoca della prima rivoluzione industriale (circa 1830-1880), basata sui settori leggeri: condizioni che poterono essere sfruttate appieno grazie alla relativa apertura degli stati preunitari del Nord Italia, la quale come abbiamo visto favoriva la modernizzazione dell’agricoltura, la creazione di infrastrutture di trasporto e creditizie, l’innalzamento dei livelli di istruzione. Nel
periodo della seconda rivoluzione industriale (circa 1880-1970), incentrata sui settori pesanti, troviamo come determinanti il capitale umano e l’efficacia del sistema creditizio − di per sé conseguenze dell’assetto istituzionale di cui sopra (specie il primo) − ma anche direttamente il ruolo delle istituzioni locali (dalle università alle amministrazioni comunali, alle casse di risparmio) in sinergia con quelle nazionali. Nell’era postfordista, dagli anni settanta ai nostri giorni, fondata sulla produzione flessibile e la telematica, si è insistito molto sul capitale sociale e ancora sulle istituzioni locali, entrambi − come vedremo − decisivi per il decollo dei distretti.