there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Le scioccanti sciocchezze di Naomi Klein (3)

Ho già tradotto un paper dello svedese Johan Norberg che ha smontato le affermazioni della Klein in Shock Economy.

La risposta della Klein è qui.

La sua risposta è selettiva, include nuovi errori e fugge da alcune sue stesse affermazioni fatte senza le dovute conoscenze. E’ ancora più interessante il fatto che la Klein ammetta che il suo pensiero centrale sui disastrosi effetti del mercato libero, vale a dire che le liberalizzazioni abbiano impoverito tra il 25 e il 60% della popolazione nelle nazioni in cui sono state attuate, si basava su una combinazione di misure diverse riferite a pochi anni in non più di quattro paesi.
Nel suo libro “Shock Economy” la Klein presenta tre argomenti:
1. Le liberalizzazioni economiche sono impopolari, per cui coloro che vogliono liberalizzare sperano in una crisi in modo da potere implementare le loro riforme senza che le persone possano resistervi. Si tratterebbe di una sorta di capitalismo dei disastri e chi vorrebbe introdurlo lo avrebbe imparato da Milton Friedman.
2. Le liberalizzaioni economiche negli ultimi decenni sono state il risultato di questa strategia globale di riformatori che si sono avvantaggiati di violenza politica, colpi di stato militari, guerre e disastri naturali.
3. Queste liberalizzazioni, specialmente dopo il 1990, quando il capitalismo globale è collassato nella sua forma più selvaggia, ha prodotto come risultati un’ampliamento della povertà e della disoccupazione.

PUNTI SU CUI LA KLEIN NON HA RISPOSTO
Questi tre punti sono falsi, come già scritto.
Infatti:
1. La Klein non ha trovato nessun economista che credesse in questa strategia globale, pur avendolo cercato. Lei ha dovuto prendere alcune frasi di Friedman e tirarle fuori dal loro contesto per dare al lettore l’impressione che lei voleva (ndrr, così da farle crescere il proprio conto in banca, assumendo la malafede. Se invece assumiamo che lei creda in quel che scrive solo per ignoranza e mancata volontà di approfondimento, ci chiediamo come possa definirsi giornalista.) L’unica cosa che afferma in merito è che un economista a un seminario una volta le ha detto che l’alta inflazione potrebbe produrre un consenso popolare alle riforme. (Ndrr. Appunto. Un consenso popolare. A parte che detta così sembra che alla Klein sarebbe piaciuto vivere in iperinflazione, non sapendo che colpisce i più poveri e i risparmiatori, ma tanto lei fa parte dell’1% più ricco, quindi che gliene frega a lei? Inoltre il consenso popolare le piace o no? Non è che fa come tanti per i quali il consenso popolare è giusto solo se va d’accordo con quel che pensa lei e “c’è qualcosa dietro” altrimenti?)
2. Poiché le liberalizzazioni sono avvenute in quasi tutti i paesi del mondo, in una qualche misura, negli ultimi decenni (ndrr: e sono state particolarmente di successo nei paesi scandinavi,) la Klein può prendere esempi di riforme che sono state introdotte anche in dittature, in tempi di guerra e dopo dei disastri naturali. Pero se guardiamo al mondo intero e USIAMO DELLE STATISTICHE INVECE DI ANEDDOTI, vediamo che le riforme sono andate più avanti nelle democrazie e che l’era del capitalismo selvaggio è stata l’era della democrazia: il numero di democrazie elettorali è aumentato da 76 a 121 tra il 1990 e il 2007, secondo la Freedom House.
3. Dal 1990, il PIL mondiale pro capite è aumentato di un terzo e la povertà assoluta si è ridotta dal 42 al 26% secondo le ultime statistiche della Banca Mondiale (Ndrr: questo nel 2007. Oggi siamo sotto il 10%.) 76000 persone al giorno sono uscite dalla povertà estrema nel periodo che la Klein chiama di “capitalismo selvaggio.” C’è in effetti una forte correlazione: più libertà economica c’è in un Paese e più bassi sono i tassi di povertà e di disoccupazione.
Nel paper precedente viene mostrato come la Klein non è capace di sostenere i propri argomenti con fatti e cifre e inoltre prova a supportarli attraverso affermazioni distorte, tempistiche manipolate, frasi decontestualizzate.
Nella sua risposta la Klein non chiama mai l’autore per nome (ndrr: forse perché affermare che scrive per il Cato Institute la fa sembrare un Davide contro Golia e così pensa di incrementare le vendite dei propri libri e le parcelle delle sue interviste.) A parte questo, la Klein difende uno solo dei suoi argomenti che sono stati criticati e per il resto dà l’impressione che Norberg abbia solo trovato alcuni errori qua e là nel libro.
Ecco comunque come la Klein si difende.

MILTON FRIEDMAN E LA GUERRA.

Poiché la guerra in Iraq è uno degli esempi principali di capitalismo dei disastri, sui cui Friedman avrebbe avuto influenza, è interessante notare come la Klein non abbia mai fatto menzione del fatto che Friedman si è opposto a quella guerra. Una volta che i giornalisti hanno fatto notare la cosa alla collega, lei si è difesa dicendo che non ha mai esplicitato che Friedman fosse in favore della guerra. In effetti lei ha solo cercato di fornire quella impressione e ogni lettore con cui ho parlato ha avuto proprio quella impressione.
Nella sua risposta all’autore del paper, invece, la Klein afferma testualmente che Friedman supportasse la guerra. Lei può dire questo solo ignorando tutte le parole di Friedman contro la guerra e facendo affidamento su un’intervista rilasciata ad aprile 2003 che la Klein deve avere trovato di recente, poiché non ne fa menzione nel suo libro. Qui Friedman dice che non ha paura che la guerra risulti in meno libertà e difficoltà economiche (in un periodo in cui sembrava probabile che la guerra sarebbe finita dopo pochi giorni,) dava a Bush il beneficio del dubbio sulle ragioni della guerra e dice che il fine giustifica i mezzi e le relazioni tra Stati Uniti ed Europa miglioreranno dopo la guerra.
Questa intervista, presa fuori dal contesto, e se ignoriamo cosa Friedman ha detto in altri luoghi, può far sembrare che lui fosse favorevole alla guerra. Questa è una buona dimostrazione di come la giornalista canadese lavori. La frase “Il fine giustifica i mezzi,” per esempio, non è una frase esplicativa della filosofia di Friedman (in “Capitalism and Freedom” Friedman insiste sull’uso di mezzi accettabili) ma è riferita al suo pensiero in merito alle relazioni tra Stati Uniti e Unione Europea. A questo tipo di obiezione la Klein risponderebbe sicuramente “Non ho mai scritto che questa è la filosofia di Friedman.” Giusto. Ha solo cercato di dare l’impressione.
Klein usa le parole di Friedman: “Ma, avendo detto che la guerra era un errore, una volta che siamo andati in Irak, mi sembra molto importante vincere la guerra.” In altre parole, il fatto che secondo lui fosse importante che l’Iraq diventasse una democrazia prova, secondo la Klein che Friedman era per la linea dura. Questo indica quanto la Klein usi liberamente termini come “pro war” o “per la linea dura.” Ci potremmo chiedere se esistevano degli oppositori alla guerra che sperassero che questa si concludesse in un tragico fallimento, e in che modo quella sarebbe una posizione pacifista. E perché, inoltre, Friedman spera in un successo se, secondo la mente della giornalista, lui voleva dei disastri?
La seconda difesa della Klein, e l’unica che ha usato in precedenza, quando ancora non pensava che Friedman fosse in favore della guerra, è che in realtà è irrilevante ciò che Friedman pensava della guerra in Iraq, poiché lei ha presentato l’invasione e l’occupazione del’Iraq come il culmine della crociata ideologica di stampo friedmaniano. Lui infatti era, secondo lei, l’intellettuale leader in favore della privatizzazione dello Stato. La Klein trova il link nell’ampio uso di contractors privati effettuato dall’esercito americano. Inoltre gli Stati Uniti volevano liberalizzare l’economia irachena.
La Klein fallisce nel cercare di stabilire questa connessione. Non è sufficiente fare finta che una frase del segretario di Stato Armitage sul condurre gli iracheni a una riconciliazione religiosa intendesse in realtà portare l’Iraq al liberismo. BUTTARE DENARO PUBBLICO IN AZIENDE PRIVATE SENZA PROCEDERE AD ASTE APERTE E’ QUALCOSA A CUI FRIEDMAN SI E’ SEMPRE OPPOSTO. E nel libro, la Klein ammette che gli Stati Uniti NON ERANO INTERESSATI DAVVERO ALLA LIBERALIZZAZIONE ECONOMICA DELL’IRAQ, BENSI’ AL CORPORATISMO, AL PROTEZIONISMO, AI SUSSIDI AI CONTRACTORS E ALLE IMPRESE, ESATTAMENTE IL TIPO DI COSE A CUI FRIEDMAN SI E’ SEMPRE OPPOSTO.
Se usassimo lo stesso sistema bizzarro di associazioni di idee che usa la Klein, potremmo dire che l’invasione dell’Iraq fu il culmine delle sue stesse idee. Certo. Lei si oppose alla guerra, ma questa fu usata per attaccare il libero mercato e aumentare la spesa pubblica: esattamente ciò a cui lei mira.

AGGIUNGERE CONFUSIONE

Un modo col quale Naomi Klein si lamenta dei liberisti per qualsiasi cosa vada male nel mondo è che confonde il libertarianesimo/liberismo/neo liberalismo con il neoconservatorismo e col corporatismo. Adesso si difende così: “Non ho mai detto che Friedman fosse un neo con.”
Questo è un altro esempio eccellente di come la Klein lavoro. Le ha scritto cose di questo tipo:
“Solo dalla metà degli anni Novanta il movimento intellettuale che fa capo ad associazioni come la Heritage Foundation, il Cato Insitute, l’American Enterprise Institute, ha cominciato a chiamarsi neoconservatore. Questo movimento è guidato da think tank di destra, con i quali Milton Friedman ha avuto vari legami.” (P.17)
“Friedman formerebbe volentieri l’agenda economica del movimento neocon.” (P.56)
“Il movimento neocon, ovvero il cuore della Friedmanite” (p.322)
“L’eredità intellettuale di Friedman negli Stati Uniti.” (P. 444)
Klein fa di tutto per stabilire una connessione nella mente dei lettori. Lei dà l’impressione che Friedman, gli economisti favorevoli al libero mercato, i neocon, le grandi imprese, l’Amministrazione Bush facciano tutti parte di uno stesso piano fondato su militarismo/corporativismo/mercato libero. Certo. L’affermazione che il Cato Institute sia neoconservatore o che dichiari se stesso come tale, è sbagliata e sarebbe bastata una ricerca sul sito del Cato Institute per capirlo. Basta ricercare il termine “neoconservative.”
Lei difende se stessa dicendo che molti neo conservatori erano favorevoli al libero mercato negli anni Novanta e con ciò implica che lei poteva chiamare Friedman un neocon in quel periodo. Questo però è bizzarro, poiché il suo libro si focalizza sui neocon della decade successiva, i quali erano in favore del conservatorismo associato al big government. Lei scrive in merito al risultato: “Le grandi imprese e il governo hanno combinato il loro formidabile potere per regolare e controllare i cittadini.” Vergognosamente lei chiama questo: “il pinnacolo della controrivoluzione lanciata da Friedman” malgrado lui si sia opposto a ogni passo del genere in modo aggressivo. La Klein si è solo creata un collegamento immaginario tra i sostenitori dello Stato minimo e i fautori del big Government. (Ndrr: tra l’altro lei non è favorevole al big government? Allora è una neocon, seguendo il suo stesso ragionamento.)

FRIEDMAN E LO TSUNAMI
La Klein scrive in merito al governo dello Sri Lanka che ha rubato la terra a delle famiglie di pescatori per farci degli hotel di lusso dopo lo tsunami. Perché la Klein accusa Friedman e gli economisti della scuola di Chicago per questo crimine? La risposta della giornalista a questo crimine è che in realtà il nome di Friedman non appare mai nel capitolo dedicato allo tsunami.
Bene. Questo è vero, ma la Klein non deve menzionare il nome di Friedman qui, poiché il lettore già pensa a lui, dato che lei ha stabilito una connessione in precedenza. Nel primo capitolo del libro la Klein scrive che Friedman ha imparato che crisi e shock possono forzare l’applicazione delle sue idee favorevoli alle grandi imprese. Nel paragrafo successivo la Klein pone come testimonianza di questa affermazione proprio il caso dello Sri Lanka. Poi, nelle venticinque pagine del capitolo, quando lei parla di shock therapy e di disaster capitalism per la confisca, il lettore reagirà probabilmente come la Klein vuole, poiché queste sono le espressioni che lei ha usato costantemente per l’economia della scuola di Chicago e per Friedman.
Nel breve film che accompagna il libro, la Klein parla di come Friedman abbia insegnato ai politici a usare le crisi per forzare l’adozione di politiche liberiste mentre scorrono sullo schermo immagini dello tsunami e della linea costiera che stava per essere rubata. Lei usa il suo potere di suggestione per dare quella impressione.
Quando la Klein scrive delle azioni del FMI durante le crisi asiatiche, si comporta nello stesso modo. Certo. Lei scrive in un altro contesto (p.161-162) che Friedman non credeva nel Fondo Monetario Internazionale e nella Banca Mondiale, ma tuttavia dichiara che le persone che fanno parte di quelle istituzioni erano Chicago Boys ortodossi e credono fermamente in lui. Nel capitolo sull’Asia lei dà al lettore l’impressione che l’opposizione di Friedman a un bailout fosse una posizione del tipo “Non aiutate l’Asia” (p.266) e che questa fosse condivisa dal FMI, il quale reagì richiedendo di sottoporre le economie asiatiche alla shock therapy in stile Chicago. Dopo avere discusso delle azioni dell’FMI, Friedman viene citato quando dice che le crisi asiatiche saranno presto finite, così da far sembrare che fosse in accordo con i risultati positivi delle azioni del FMI. Il lettore costantemente è portato a pensare che le politiche Chicago Style che Friedman approvava fossero messe in pratica dall’FMI. Da nessuna parte la Klein ammette che Friedman disse che secondo lui il FMI era stata la causa della crisi per molti aspetti.
FATTI E CIFRE
Nonostante 74 pagine di note, la Klein omette spesso le note e le fonti quando fa un’affermazione centrale e controversa sugli orrori del mercato e che necessiterebbe di documentazione. Per mostrare come le politiche dei Chicago Boys sarebbero fallite prende dei dati riferiti a un anno che le fa comodo e poi cambia il parametro quando il vecchio produce risultati che non le piacciono.
Lei, per esempio, afferma che il Cile non è una storia di successo del libero mercato, poiché la povertà venti anni fa era alta quasi quanto il resto dell’America Latina. Lei non menziona il fatto che da allora si sia ridotta dal 45% a poco più del 10% (secondo la linea della povertà nazionale. Se usiamo il concetto di povertà estrema, questa è praticamente scomparsa) Invece lei cambia il parametro di riferimento quando parla della situazione attuale. Improvvisamente si è dimenticata della povertà. Adesso il problema è la disuguaglianza. Cioè il fatto che i ricchi siano diventati più ricchi in modo più veloce di quanto i poveri abbiano incrementato i loro standard di vita. (Ma li hanno migliorati.)
Ecco perché un’affermazione ripetuta nel libro è così importante. Il fatto, cioè, che tra il 25 e il 60% della popolazione si sia immiserita nei paesi che hanno liberalizzato le proprie economie. Questa frase è importante perché è il solo momento in cui lei sembra fornire al lettore dei dati sui problemi legati alle liberalizzazioni in un periodo di tempo lungo e in tutto il mondo, non un periodo breve in un Paese a sua scelta nel mezzo di una crisi. In sostanza questa affermazione è il suo argomento base per stabilire che le liberalizzazioni e il mercato libero siano un male per l’umanità.
Ci possiamo chiedere perché non abbia fornito una spiegazione di cosa esattamente intendesse oppure una nota o una fonte. Nella sua risposta, la Klein ammette che la frase è una sintesi di statistiche diverse e a volte incomparabili sulla povertà e sulla disoccupazione, riferite a un periodo di tempo breve (a volta non superiore a un anno) e su non più di quattro regioni: la Bolivia nel 1987, la Russia nel 1996, alcune aree della Polonia nel 1993 e così via. Non usa nemmeno serie storiche, ma articoli di giornale con informazioni su quell’anno particolare solamente.

Naomi Klein chiama questo modo di manipolare le statistiche e di produrre conclusioni generali basandosi sugli effetti di politiche particolari “la pratica standard.” Ora. Può darsi che in alcune riviste di sinistra canadesi questa sia la pratica standard, ma alle università queste pratiche si chiamano “spazzatura.” Non solo per la mancanza dei dati, ma anche per le scelte pregiudiziali. Non c’è alcuna spiegazione sul perché quella particolare selezione sia stata fatta: se quelle nazioni si siano liberalizzate più di altre, se sono rappresentative, perché gli anni scelti non sono i più recenti o quelli relativi a un periodo particolare dopo la liberalizzazione. Lei ha solo trovato (cercato?) dei Paesi e degli anni in cui le cose siano andate molto male.
Per esempio la Klein ha preso in considerazione un anno in cui la disoccupazione in Bolivia era tra il 25 e il 30%, ma dimentica di far notare come poi si sia ridotta velocemente a meno del 10%. Non è probabilmente una coincidenza che lei guardi alla disoccupazione di massa in Polonia quindici anni fa e non oggi, che si è ridotta a meno del 10%. Inoltre una delle sue statistiche sulla Polonia nel 2006 provengono da un articolo del 2005. C’è qualcosa di strano nei libri della giornalista.
Se prendessimo quattro altri Paesi, altre regioni, altri periodi, potremmo agevolmente tirare conclusioni opposte alle sue. Per esempio basterebbe guardare all’Estonia, all’Irlanda, all’Islanda, all’Australia, (ndrr: ai Paesi scandinavi, a Uk e Usa dopo la crisi del 2008 ecc.) di cui la Klein non scrive mai perché sono troppo pacifiche, democratiche e di successo.
Il fatto che la Klein pensi che la sua sia una ricerca seria è effettivamente più dannoso per lei piuttosto che le distorsioni volute già esaminate in precedenza.
Se tu non vuoi dei dati unbiased, devi guardare al lungo periodo e a più paesi e non puoi fare cherry picking delle nazioni e degli anni. Se però la Klein avesse fatto questo, avrebbe ottenuto il risultato opposto: risulta costantemente che più un’economia è liberalizzata, minori sono i tassi di disoccupazione e di povertà. Ecco la ragione per la quale la giornalista non ci prova nemmeno. (Ndrr, trattandosi di una giornalista: sarà ignoranza o malafede?)
Come scritto nel paper precedente, nel quintile più libero tra le nazioni, la povertà è del 15,7%, mentre nel resto del mondo è del 29,8%. La disoccupazione nel quintile più libero è del 5,2%, cioè meno della metà di quanto sia nel resto del mondo.
Nel quintile meno libero economicamente, con quelle restrizioni alla proprietà privata, agli affari e al commercio che secondo la Klein sono il modo di aiutare le persone, la povertà è del 27,4% e la disoccupazione è del 13%.
Forse la Klein dovrebbe prendere una pausa dalla pubblicizzazione (ops!) intensa (ops!) e dalle riletture del suo libro (Ndrr: ops! Aerei! Soldi! Ricchezza per lei a spese di chi vuole credere a quello a cui vuole credere anche lei, ma almeno lei fa soldi su queste sue credenze e li fa grazie al libero mercato!) Forse dovrebbe leggere le critiche, controllare le fonti e decidere se la sua frase seguente rappresenti solo un modo di dire senza alcune basi nella realtà:
“Se verranno alla luce degli errori, li correggeremo immediatamente nelle edizioni future e posteremo una correzione e una spiegazione nel sito web del libro.” (Ndrr: sì, certo. E poi a chi vende? Come fa a fare soldi?)

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