Lui. 20 anni. Assunto a tempo determinato per una sostituzione di maternità. Crea e gestisce un foglio Excel per effettuare un’analisi gestionale in dieci minuti. E’ ritenuto bravo. Prende una miseria. A fine contratto deve andarsene. Sceglie l’estero. L’azienda continua regolarmente ad andare avanti come tutti i giorni.
Lei. 50 anni. Assunta a tempo indeterminato. Venticinque anni nella stessa azienda. Per fare lo stesso lavoro di lui ci mette un’ora. Di solito usa la calcolatrice tascabile per fare i calcoli e poi scrivere i numeri su Excel. Rifiuta di migliorarsi a meno che non le facciano fare un corso. Rifiuta di ricevere una telefonata in inglese perché non era prevista quella conoscenza quando era stata assunta oppure perché non è stata assunta per quello. E’ comunque brava e valida nel suo lavoro, pur essendo dieci volte meno produttiva di lui. Un giorno l’amministratore delegato decide che un certo servizio non deve più essere svolto dall’azienda e la licenzia su due piedi. Poi verrà reintegrata, ma il punto è che in azienda serpeggia il malumore solo per lei, mentre il licenziamento di lui era ritenuto normale, invece. PERCHE’?
Il problema è che lei era blindata: perfino per cambiare ufficio avrebbe forse dovuto richiedere un permesso da parte del sindacato. Lei può permettersi di rifiutare di riqualificarsi, tanto sa che alla fine il reintegro per lei ci sarà, o perché l’azienda non vuole subire delle beghe giudiziarie o perché un giudice del lavoro le darà ragione a prescindere. Lei sì, lui no, alla faccia della meritocrazia e dell’uguaglianza: il sistema basato sull’anzianità e sui contratti collettivi è inefficiente e discriminatorio.