Molti anni fa ero interessato alla questione degli OGM. Non ne sapevo niente, non era una campagna che consideravo tra le più interessanti per me tra quelle di Greenpeace, leggevo che c’era un conflitto tra scienziati e ambientalisti sul tema e volevo saperne di più. Alla fine vinsero gli scienziati, ma non completamente, perché i possibili danni ambientali erano confermati anche dai pro ogm e a me bastava, mi dicevo, per non essere del tutto pro OGM. Anche in seguito sono sempre stato combattuto: gli OGM causano problemi anche se grazie a loro si può usare meno terra per la coltivazione (e quindi proteggono anche dalla deforestazione) e permettono di renderla più efficiente, così da contribuire a ridurre il costo delle produzioni. Poi ho approfondito l’argomento in libri di economia ambientale e poi in blog e siti scientifici. Ormai sono più pro OGM di allora ma per avere un quadro aggiornato dovrei di nuovo studiare il tema. Prima, però, ho tanto materiale salvato in note, file, appunti, che devo pubblicare qua, affinché il blog diventi anche un raccoglitore di cose scritte e ricercate a suo tempo. Se nel tempo dal confronto tra domani, oggi, ieri e ieri l’altro scaturiranno delle contraddizioni, potrebbe essere divertente analizzarle.
Fatta questa premessa, copio un dossier di Alberto Guidorzi pubblicato a suo tempo (2013?) su “Salmone.org”. Volevo pubblicare il link, ma sembra che il sito sia scomparso. Allora faccio il copia incolla del testo.
OGM E AMBIENTE: FACCIAMO IL PUNTO
La coltivazione di PGM, a differenza delle coltivazioni convenzionali, può
avere delle conseguenze sull’ambiente circostante ?
Lo spazio naturale che ci circonda, ormai definito come “ambiente” è formato dall’insieme degli
ecosistemi liberi di evolvere spontaneamente e sottoposti a varie pressioni antropiche non agricole.
Per contro lo spazio agricolo circostante viene coltivato rispettando dei principi agronomici di base e
delle pratiche sperimentate, come, ad esempio:
la restituzione al substrato terreno
degli elementi nutritivi asportati dai raccolti;
l’alternanza di coltivazione, nel medesimo campo e
di anno in anno, di specie diverse al fine di preservare al meglio la struttura del suolo e non
selezionare solo una categoria di erbe infestanti o di parassiti;
la riduzione al minimo dei rischi, sia per l’uomo che per l’ambiente, che sono legati all’uso di intrans e di
pesticidi ecc.
Queste tecniche, chiamate buoni comportamenti agricoli (BCA) concorrono ad ottimizzare la quantità
dei raccolti pur mantenendo inalterati per lungo tempo il potenziale produttivo del suolo e gli
equilibri biologici e dinamici dell’agrosistema. Tutto ciò è anche compendiato nella seguente frase:
“coltivare da buon padre di famiglia”, che è la base della professione dell’agricoltore, qualsiasi sia il
sistema agricolo praticato e qualsiasi sia la zona geografica.
L’interazione tra i diversi agrosistemi e gli ecosistemi frammisti è una preoccupazione recente nella
storia dell’agricoltura. A causa dello sviluppo delle scienze dell’ecologia e ambientali, la professione
legata all’agricoltura ha integrato il concetto di durabilità della loro attività sottoforma di sistemi di
produzione più rispettosi dell’ambiente, come quelli dell’agricoltura
ragionata.
L’introduzione delle coltivazioni PGM non affranca il conduttore dell’azienda agricola dal
rispetto di queste regole, salvo se la PGM preveda la modifica di qualche pratica agronomica. Ad esempio se si coltiveranno delle PGM che utilizzeranno meglio la concimazione azotata è evidente che
si adeguerà la somministrazione di azoto.
Pertanto l’impatto di una
PGM deve essere preso in esame “caso per caso”, distinguendo tra gli effetti che la “disseminazione
del transgene” provoca sulla fauna e la flora dell’ambiente e gli effetti indotti da una
modifica indotta nelle pratiche agronomiche.
1 – I rischi e le conseguenze della disseminazione di geni nell’ambiente provenienti da piante
transgeniche.
Le piante convenzionali, ottenute per mezzo della selezione classica, hanno sempre disperso i loro geni
nell’ambiente attraverso il flusso pollinico. Non solo, ma le tecniche classiche di miglioramento vegetale
hanno largamente ricorso alla introduzione dei geni di specie esotiche senza essere a
conoscenza della caratteristiche genomiche del carattere che si trasferiva e soprattutto senza dover
spiegare la tracciabilità delle tecniche che erano state messe in atto. Queste piante sono ormai
considerate totalmente naturali, comprese quelle tolleranti a certi erbicidi, a certe malattie o a certi
parassiti animali.
La transgenesi, che è solo più recente, suscita, per contro, molte interrogazioni che hanno messo in atto
delle regolamentazioni molto severe sia per autorizzare le PGM che per essere messe in coltivazione e
usate. Inoltre le regolamentazioni variano da paese a paese, complicando così ancor più le cose.
1.1 Circa i rischi di trasmissione dei transgeni ad altre specie vegetali.
Questo rischio è prioritariamente legato all’esistenza nell’ambiente circostante di specie apparentate o
comunque interfertili: in Europa è il caso del colza e della bietola Per contro il mais non ha
partner nella flora europea e dunque non può diffondere il proprio polline alle piante selvatiche. E’
appunto per questo che il dossier botanico delle PGM proposte all’omologazione contiene un esame
particolarmente attento, quando si esaminano le domande di messa in coltivazione. Questo rischio
potrebbe diventare preoccupante solo nel caso in cui queste piante selvatiche, che avessero
integrato un gene attraverso il polline di altre piante, fossero sottomesse ad una pressione selettiva che
favorisca la loro salvaguardia e che alteri gli equilibri esistenti. Occorre anche segnalare che il
suolo è un serbatoio di semi che possono avere una lunga sopravvivenza e ciò potrebbe amplificare il
rischio delle PGM nell’ambiente.
1.2 La flora selvatica può divenire un serbatoio di transgeni?
I geni delle PGM si trasmettono alle piante apparentate alla stessa identica maniera di tutti gli altri geni
della pianta selvatica ed inoltre possono rimanere anche in assenza di una pressione selettiva, tutto ciò
fino al punto che queste modifiche possono divenire non reversibili a corto o medio termine. Di fatto
quindi ed alla stessa stregua delle piante convenzionali, certe piante selvatiche possono divenire dei
serbatoi di transgeni ed a loro volta possono trasferire i loro geni a piante interfertili attraverso l’incrocio.
Comunque la probabilità di questa disseminazione inversa aleatoria è molto bassa.
E’ altrettanto vero che sono gli stessi meccanismi che operano anche nelle piante convenzionali, ma in
questi casi non si cerca di tracciare i geni miglioratori che si dovessero infiltrare nelle flora selvatica,
contribuendo a far evolvere la biodiversità delle specie “naturali”.
1.3 I mezzi per ridurre i rischi legati alla disseminazione.
Da un punto di vista agronomico una sorveglianza molto attenta dei ricacci (vale a dire le piante che
nascessero da semi sparsi durante il raccolto precedente), come anche la messa in atto di interventi
meccanici e fitosanitari appropriati, nonché l’organizzazione spaziale delle coltivazioni, permettono di limitare i
rischi di disseminazione di varietà geneticamente modificate (GM).
Sono pratiche non nuove, ma già
messe in atto per certe coltivazioni di piante tradizionali. Dal punto di vista della sorveglianza postcommercializzazione,
viene chiesto ai fornitori di PGM di diffondere le raccomandazioni necessarie agli
utilizzatori di sementi GM.
In più i fornitori di sementi GM sono obbligati a mettere a disposizione delle sonde molecolari per poter
tracciare la dispersione di transgeni. Si può dunque affermare che la disseminazione ambientale di PGM è
ben sorvegliata ed inoltre, a causa dell’obbligo del rinnovo dell’autorizzazione ogni 10 anni, si ha la
possibilità, negando l’ulteriore omologazione, di non far continuare la coltivazione.
Una soluzione biotecnologica futura, al fine di evitare la diffusione del transgene attraverso il polline,
sarebbe la transgenesi plastidiale, cioè nei genomi degli organi citoplasmatici, in quanto questi
sono a trasmissione solo materna.
1.4 Impatto sulla flora batterica
La possibilità di trasferimento di geni tra una PGM ed un batterio dell’ambiente è stata dimostrata in
laboratorio, ma trasferimenti simili non sono mai stati osservati in campagna ed inoltre non
conferirebbero un vantaggio selettivo ai batteri riceventi se si tratta di resistenza agli erbicidi o agli
insetti, in quanto non impattano con il ciclo di vita dei batteri nell’ambiente. La stessa cosa dicasi per i
geni di resistenza agli antibiotici o a diserbanti usati come marcatori di selezione. Infatti questi geni
non danno un vantaggio selettivo. Inoltre, ormai dopo l’azione di selezione richiesta, questi caratteri sono
tolti dalle PGM commercializzate.
Tuttavia, per prevenire ogni altra eccezione, l’INRA ha organizzato delle
sperimentazioni in campo ed in condizioni regolamentari, tramite coltivazioni di PGM di specie legnose e
quindi persistenti nel tempo, al fine di valutare in quale misura verrebbe eventualmente modificata la
flora microbica del suolo. Era appunto l’obiettivo della sperimentazione delle vigna transgenica di Colmar
(saccheggiata e distrutta dagli oppositori degli OGM) e della sperimentazione su pioppi transgenici a
Orleans, ma ambedue hanno dovuto essere interrotte.
2 – Le perturbazioni indotte dalle coltivazione di PGM negli agrosistemi ed il loro impatto sugli
ecosistemi
Le PGM sono coltivate in pieno campo alla stessa stregua e nella medesima maniera delle piante
convenzionali, salvo per i caratteri conferiti dal transgene che appositamente sono stati immessi per
non essere obbligati a continuare certe pratiche agronomiche. La tolleranza agli erbicidi e la resistenza
agli insetti, i due caratteri più usati a livello mondiale, non possono quindi essere neutri da un punto di
vista delle pratiche colturali e perciò meritano un’attenta sorveglianza sull’ecosistema dell’ambiente
interessato.
2.1 La tolleranza agli erbicidi
Lo sviluppo della coltivazione di varietà di PGM tolleranti agli erbicidi in ambito di specie di grande
coltura (soia, mais, colza e bietola) si basa principalmente sulla resistenza ad una molecola di un erbicida
totale, come ad esempio il glyphosate (più conosciuto sotto il nome commerciale di Round Up®) che
inibisce un enzima essenziale per il metabolismo delle piante. Le piante tolleranti il gliphosate sono
dotate, tramite il transgene, di una forma mutante dell’enzima che è insensibile all’inibizione
dell’erbicida, e quindi sopravvivono allo spandimento del diserbante Round Up, che invece distrugge
tutte le infestanti del campo, che evidentemente vengono menomate nell’enzima non mutato.
E’ chiaro
che una tale molecola erbicida pone dei problemi non indifferenti. Se poi è associata alla
monocoltura su delle vaste superfici e senza mettere in atto delle rotazioni o alternanza di principi
diserbanti diversi, i problemi che fa sorgere sono gravi. L’utilizzazione ripetuta di
quell’erbicida porrà presto o tardi dei problemi di resistenza all’erbicida da parte delle erbe
infestanti.
Va detto che ciò non rientra nelle buone pratiche agronomiche e proseguendo con tali pratiche errate
non si fa altro che selezionare e far moltiplicare le erbe infestanti divenute resistenti. Il fenomeno è
infatti già evidenziato negli USA nelle coltivazioni di soia rr e mais rr (round up ready).
Resta da ribadire che non è il transgene che si è trasferito, ma è la selezione di meccanismi di resistenza
insorti per mutazione spontanea attraverso i tanti diserbi fatti sempre con lo stesso principio attivo che fa
risaltare il fenomeno. In altri termini si esercita una pressione selettiva forte su individui mutati di
infestanti. Il risultato è che lo strumento diserbo, prima risolvente egregiamente problemi di
inerbimento, non è più efficace.
Dunque non si tratta di un effetto diretto del transgene immesso, ma
semplicemente di una condotta agronomica inappropriata.
La conferma di quanto detto l’abbiamo dal
fatto che ben prima della introduzione delle PGM rr, i casi di erbe infestanti resistenti erano apparsi anche
con i diserbi convenzionali ripetuti fatti su coltivazioni tradizionali.
Non solo, ma in Europa dove le PGM
rr non sono state mai coltivate, mentre il glyphosate è stato usato da tempo e ripetutamente per pulire
aree particolari come scarpate dei binari della ferrovia, aeroporti, bordi stradali, sono già apparse specie
vegetali resistenti in questi luoghi incolti.
La lotta contro le malerbe resistenti agli erbicidi
Una buona gestione degli erbicidi è la base per poter controllare la comparsa non voluta di piante
infestanti resistenti, ma ciò vale sia in agricoltura convenzionale che in agricoltura che coltiva PGM
resistenti agli erbicidi. In questo ultimo caso, anche in considerazione del fatto che gli effetti di un uso
scriteriato delle PGM resistenti ad un diserbo totale ha già mostrato le conseguenze nefaste negli USA, occorre una strategia di gestione dell’uso degli erbicidi sempre integrata da buone pratiche
agronomiche.
Il dispositivo regolamentare attuale prevede che una PGM tollerante ad un erbicida debba essere
valutata dall’Alto Consiglio per le Biotecnologie per l’aspetto transgenico e da una apposita commissione
di omologazione circa l’uso dell’erbicida da un punto di vista fitofarmaceutico, indipendentemente dal
fatto che i due aspetti siano accoppiati in una sola pianta.
Certamente il vedere comparire delle
infestanti multi resistenti è un fatto molto preoccupante perché vi è il pericolo che esse diventino troppo
invadenti. Tuttavia l’approccio biotecnologico può offrire un aiuto per meglio controllare delle resistenze
indesiderate: infatti, le PGM possono essere rese tolleranti a più erbicidi nello stesso tempo e con un
modo d’azione diverso e ciò permette un diserbo diversificato di anno in anno in modo da colpire le erbe
che l’anno prima si erano dimostrate sfuggire al primo tipo di diserbo.
Non solo, ma la ricerca di nuovi
erbicidi selettivi può complementare l’uso continuato degli erbicidi totali.
2-2 : La resistenza agli insetti
La creazione di PGM resistenti agli insetti si basa principalmente nell’introduzione per transgenesi della
capacità di sintetizzare delle tossine naturalmente prodotte da un batterio del suolo, il Bacillus
thuringiensis. Queste tossine agiscono a livello dell’intestino delle larve di certe farfalle predatrici delle
grandi coltivazioni. E’ da qui che si è pensato di creare un mais Bt (di cui il MON 810) della soia Bt e del
cotone Bt.
L’agricoltura biologica usa spargere le spore di B. thuringiensis come mezzo per trattare gli
insetti distruttori, ma l’efficienza di questi trattamenti è limitata nella sua efficacia mentre le PGMbt
assicurano una disponibilità permanente a bassa dose di tossina insetticida.
Tuttavia, come detto per
gli erbicidi totali, questa disponibilità continua crea inevitabilmente una pressione selettiva tale da
favorire l’emergere di specie di insetti resistenti alla tossina.
Delle farfalle resistenti alle tossine sono
già state individuate e ciò esige una attenta sorveglianza nella post-commercializzazione di queste PGM
Per minimizzare la deriva di popolazioni di predatori verso la resistenza alle tossine si possono ipotizzare
due tipi di strategie:
- Una strategia agrochimica e biotecnologica volta ad equipaggiare le nuove PGM di una gamma di
tossine insetticide aventi modi di azione diversi sugli insetti, vale a dire fare in modo che se una
larva dovesse sfuggire ad una tossina ne trovi in aggiunta subito un’altra che la fa morire. In questo
modo essa non diffonde i suoi geni mutati.
- Una strategia che si basi sulla genetica delle popolazioni, in quanto è pacifico che i mutanti
resistenti che appariranno saranno inizialmente poco numerosi. Questi mutanti diluendosi in una
popolazione di insetti più vasta ed in assenza di un vantaggio selettivo,
difficilmente sopravvivrebbero in quanto andrebbero ad incrociarsi con insetti sensibili.
Si tratta quindi di mettere in pratica un sistema di zone rifugio in seno o in prossimità del campi seminati
a PGM; si devono, cioè, seminare delle superfici con varietà convenzionali. Queste zone hanno lo scopo di
far albergare dei predatori sensibili alla tossina espressa dalla PGM e su cui, e limitatamente a queste
zone, si faranno trattamenti insetticidi chimici ad efficacia parziale. Le superfici delle zone rifugio con
piante convenzionali sono definite su basi teoriche o empiriche, come ad esempio un 20% della superficie
seminata a PGM nel caso del mais Bt in Europa, Canada e USA.
Il concetto delle zone rifugio modifica la gestione dello spazio coltivato in quanto introduce il principio
di fare coltivazioni non monovarietali e di ripartire in modo più complesso i campi coltivati poiché si deve
programmare un’alternanza di campi con PGM e campi con piante convenzionali. Tuttavia, seppure
trattasi di restrizioni, esse hanno il vantaggio di stabilizzare le popolazioni naturali di predatori,
rallentando così la comparsa di insetti resistenti.
3 – l’impatto delle coltivazioni di PGM sulla biodiversità coltivata o naturale
La diversità genetica delle piante coltivate è funzione della velocità nel rinnovo delle varietà
commerciali. Questa diversità nelle piante coltivate non è diminuita con l’introduzione delle PGM.
Il transgene portatore del carattere ricercato può essere inserito in un gran numero di varietà
preesistenti la cui adattabilità e produttività sono note e ricercate. E’ il caso della Spagna dove vi sono a
disposizione ben 210 varietà diverse di mais Bt MON 810. La stessa cosa si registra negli USA dove ben
4500 varietà di mais transgenico sono coltivate e prodotte da ben 200 ditte sementiere diverse.
Per ciò che concerne la flora circostante, l’equilibrio degli ecosistemi potrebbe venire intaccato se delle
PGM si disseminassero in modo involontario oppure delle specie selvatiche interfertili acquisissero il
Transgene. In questo caso esse acquisirebbero un vantaggio selettivo per opera della pressione selettiva
naturale (es. rarefazione delle risorse idriche).
E’ questa una questione pertinente per dei caratteri recentemente introdotti come la tolleranza alla
siccità, alla salinità, o la resistenza alle malattie. Se le piante selvatiche acquisissero questi geni
potrebbero divenire più invadenti di ciò che sono, specialmente se confrontate con piante che non hanno
acquisito il transgene. Viene da sé che un’azione di sorveglianza e di osservazione degli equilibri floristici
dovrà essere messe in atto. Questo aspetto deve essere preso in conto in modo particolare nei casi in
cui delle specie selvatiche interfertili coesistano a distanze vicine alle PGM.
Circa l’impatto sulla biodiversità entomologica, i dossier da presentare allegati alla domanda di
autorizzazione prevedono l’esame dell’impatto sugli insetti ausiliari delle coltivazione (come le specie
impollinanti e le specie iperparassite). Per le PGM Bt, la domanda circa l’impatto sulle specie d’insetti
non bersaglio è legittima e ciò non solo in riferimento alle api domestiche ( il cui deperimento e
distruzione di alveari non è monofattoriale e specifico, ma multifattoriale e variabile da una regione ad
un’altra), ma soprattutto verso i parassiti che consumano gli organi della PGM e che sono esposti alla
tossina Bt contenuta nei tessuti della pianta. Tuttavia alla categoria delle piante Bt bisogna dare atto che
si evita che l’insetticida sia sparso nell’ambiente circostante, a differenza del ricorso allo spargimento di
- Thuringiensis nell’ambiente come si fa in agricoltura biologica, quindi le PGM Bt avvelenano molte
meno specie di insetti.
In più, la coltivazione delle PGM resistenti agli insetti distruttori sensibili alle
tossine Bt permette di ridurre molto sensibilmente lo spargimento nell’ambiente di altri insetticidi
chimici. Ecco tutti questi elementi messi assieme concorrono a minimizzare gli impatti sulla fauna
entomologica. A conferma di quanto affermato esiste uno studio condotto su 20 anni e fatto su 5 province
cinesi che ha mostrato che la biodiversità degli insetti è aumentata nei campi di cotone Bt, in particolare per quanto riguarda
gli insetti ausiliari, come coccinelle e ragni, che permettono il controllo biologico degli afidi.
Conclusioni sui rischi ambientali delle coltivazioni delle PGM
In Europa la richiesta di sperimentazioni, di importazione e di messa in coltivazione di una PGM deve
comprendere una valutazione precisa dei rischi ambientali e soprattutto una programmazione di un piano
di sorveglianza da attuarsi in postcommercializzazione, come pure dei mezzi di controllo e di correzione
di una eventuale diffusione involontaria della PGM o del transgene fuori dai limiti per cui è stata concessa
l’autorizzazione. Niente di tutto ciò è richiesto nel caso delle piante convenzionali, cioè non GM, seppure
queste usino gli stessi meccanismi biologici di diffusione.
Oggi lo spazio coltivato è grandemente
sorvegliato e controllato, inoltre è retto da pratiche agronomiche provate e lungamente sperimentate e
integranti il rispetto dell’ambiente.
Ebbene la coltivazione delle PGM non viene meno a questo principio,
anzi vi si uniforma più delle altre colture convenzionali e pertanto rinvigoriscono il controllo dell’attività
agricola e degli scambi con lo spazio naturale. Ciò a tutela e alla prevenzione dell’ambiente.
D’altronde, i
problemi recentemente riscontrati ( erbe infestanti multi resistenti agli erbicidi) incoraggiano lo sviluppo
delle ricerche in agrochimica ed in ambito biotecnologico, come anche nella biologia delle piante, dei loro
parassiti distruttori ( funghi, virus, batteri, nematodi, insetti) e dei loro competitori (erbe infestanti in
particolare.)