Qui la prima puntata del dossier: https://www.riccaricci.com/olio-palma-uno/
Ecco che la domanda di olio di palma è esplosa nel mondo, soprattutto negli anni Novanta e Duemila. Migliaia o forse milioni di persone in Indonesia e Malesia (soprattutto) hanno capito che in casa loro crescevano o potevano essere piantati gli alberi della cuccagna. Ecco che, a fronte dell’esplosione della richiesta, sono esplosi anche la coltivazione, la raccolta, la produzione, la vendita. Migliaia, se non milioni di persone, hanno capito che grazie all’olio di palma potevano uscire dalla povertà.
Certo: la produzione “naturale” non era più sufficiente a far fronte a tutte le richieste. La trovata poco geniale è stata quella di buttare giù le foreste. “Quel territorio è pieno di foreste! Che vuoi che sia buttarne giù qualcuna per farci mega piantagioni di palme da olio?”, avranno detto i cittadini, i governi, le imprese, comprese quelle che dall’estero cercavano di impiantarsi da quelle parti magari acquisendo a prezzi irrisori dei terreni dove c’erano molti alberi e pochi diritti di proprietà.
Il problema è che quelle tropicali non sono foreste qualsiasi. Sono foreste millenarie, perfettamente preservate. Sono l’habitat di migliaia di specie animali e vegetali. Permettono di trattenere la CO2. Assicurano la conservazione dell’integrità dei suoli. Permettono anche la vita, sia pure di sussistenza, di popolazioni indigene. Tagliare a raso quelle foreste significa distruggere quell’ambiente e il pianeta stesso. I danni causati dalla loro scomparsa sarebbero enormi e la sostituzione di quegli alberi con altri, di un unico tipo e comunque più diversi, non compenserebbe un beato tubo. Perdita di biodiversità, rischio di estinzione di specie quali gli oranghi o le tigri di Sumatra, impatto sui cambiamenti climatici, peggioramento dell’assetto idrogeologico del territorio: un conflitto non da poco tra sviluppo economico di alcune popolazioni e sostenibilità ambientale planetaria.
Inizialmente il mondo non si è accorto di quanto stava succedendo. Taglio, legale o meno, di foreste primarie, bulldozer che avanzano, animali che perdono la casa: tutto per mettere su piantagioni estensive di palme da olio.
Certo: migliaia di indonesiani o di malesiani sono usciti dalla povertà, si sono arricchiti, hanno sfruttato la gallina dalle uova d’oro. Alcuni saranno stati a loro volta sfruttati, ma probabilmente prima erano meno sfruttati e più poveri e nel caso di altre produzioni sarebbero sfruttati ugualmente: solo con la libertà economica possono affrancarsi dallo sfruttamento e…magari iniziare a sfruttare gli altri. (Ok: ho usato lo stesso verbo una decina di volte. Pazienza.)
Insieme a loro si sono arricchite le imprese, multinazionali o meno, land grabber o meno. I governi hanno avuto buon gioco a favorire il fenomeno della deforestazione. A fronte di pressioni internazionali potevano anche proibire il taglio in alcune parti della foresta, ma poi si sa come vanno le cose: dove c’è uno Stato c’è corruzione. Questo già dove le istituzioni sono forti: figuriamoci dove non lo sono.
Come accade anche in Amazzonia, occorre che ci sia una forte pressione internazionale, da parte di cittadini, organizzazioni non governative, anche organizzazioni sovranazionali affinché la deforestazione cessi o quantomeno si riduca. Il deforestatore può dirti: “Tu ti sei arricchito abbattendo le foreste: perché non posso farlo io?”
Perché le tue foreste sono un beneficio per tutto il mondo, possono essere fonte di reddito anch’esse, se preservate, perché dello sviluppo devono godere anche le generazioni future. Inoltre sono la casa di migliaia di specie animali e vegetali. Guardate questa tigre che passeggia prima nella sua foresta e poi in quella che è diventata una landa desolata: è a rischio la sua sopravvivenza.
Ed ecco, allora, che occorre trovare soluzioni internazionali al problema. Ecco che la pressione dei consumatori può fare qualcosa.
Ecco, quindi, che sono intervenuti Greenpeace e il WWF e hanno cercato di preservare lo sviluppo economico assicurato dalla produzione di olio di palma e contemporaneamente di non distruggere l’ambiente.
Greenpeace si è battuta contro la deforestazione, ha creato campi nei villaggi, ha promosso coltivazioni sostenibili, ha chiesto ai consumatori di fare pressione sulle aziende che comprano olio di palma affinché evitino acquisti da fornitori chiaramente implicati nella distruzione delle foreste, ha fatto pressione sulle aziende stesse, ha portato degli attivisti ad incatenarsi alle macchine distruttrici.
Esempi?
Uno, il presidente indonesiano visita un villaggio devastato dalla deforestazione, dove si trovano degli attivisti di Greenpeace impegnati nell’opera di ricostruzione e salvataggio del villaggio stesso e della sua popolazione.
due, le drammatiche foto degli attivisti di Greenpeace che testimoniano le devastazioni provocate dalla deforestazione.
tre, il ministro dell’agricoltura indonesiano si impegna con Greenpeace a garantire uno sviluppo sostenibile delle coltivazioni di palme da olio, seguendo le indicazioni previste, le soluzioni proposte e le attività svolte sul campo dagli attivisti insieme alle comunità dei villaggi locali.
quattro, il conflitto e le parti in causa: un esempio reale tratto da un articolo molto esplicativo. Da una parte l’impresa (di Singapore) che vuole buttare giù un pezzo di foresta per piantare alberi di acacia (non è olio di palma, in questo caso, ma la deforestazione resta tale.) Da un’altra il governo che è restio a concedere la terra e cerca di trattare. Dall’altra i residenti che vogliono una vita migliore e non sempre hanno diritti di proprietà sulla terra. Da un’altra ancora gli attivisti di Greenpeace che sostengono i residenti e cercano di convincere loro e il governo a non vendere la terra e far distruggere la foresta, ma contemporaneamente propongono soluzioni che portino a uno sviluppo economico, ma sostenibile.
cinque, attivisti di Greenpeace bloccano una spedizione di olio di palma in Indonesia.
sei, attivisti di Greenpeace si sono incatenati alle macchine che distruggevano la foresta per impedirlo. Sono stati espulsi. Il caso non riguardava l’olio di palma, ma l’industria cartaria. Clienti come Mattel o molte case editComerici hanno acconsentito in seguito a fornirsi esclusivamente di carta non proveniente dalla distruzione di foreste primarie.
sette, attivisti di Greenpeace chiedono a Procter and Gamble di proteggere le foreste pluviali e di non rifornirsi di olio di palma insostenibile.
otto, il video di Greenpeace che mostra come, mangiando un Kit Kat, mangi(avi) il sangue degli oranghi.
nove, l’azione di Greenpeace a Coverciano dove gli attivisti chiedevano un impegno della Ferrero nel rifornirsi di olio di palma sostenibile.
Come è andata a finire in questi casi? Lo scopriremo nella prossima puntata. Il problema esiste ancora, ma le soluzioni ci sono e in parte sono state seguite. Eppur qualcosa si muove, si potrebbe dire.
Eppur si muovono, quelli che vogliono trovare soluzioni.