“Beata lei che va in pensione. Bisogna che aumentino le possibilità di andare in pensione. Non possono continuare ad allungare l’età pensionabile. Altrimenti COME SI LIBERANO POSTI DI LAVORO?”
“Io non penso che al posto suo assumano qualcun altro. Sarebbe anche un controsenso, visto che parlano sempre di esuberi qua dentro.”
La persona che ha detto queste due frasi è la stessa. Si sarà accorta della contraddizione tra teoria, sua, e pratica?
Aggiornamento. Di cinque persone andate in pensione in una certa azienda quante sono state sostituite? Una. Secondo appunto: qual è stata l’età effettiva di pensionamento? Tra i 58 e i 62 anni.
Chi afferma che i giovani possano trovare lavoro più agevolmente anticipando l’età pensionabile di chi è più anziano di loro fa un ragionamento basato sul modello superfisso: esiste un numero fisso di posti di lavoro e per ogni persona pronta ad abbandonare il lavoro ecco che dalla panchina dell’occupazione un giovane si sta scaldando per entrare al suo posto. Innanzitutto sfugge il fatto che, anche se fosse così, queste due persone potrebbero avere conoscenze, competenze, interessi diversi e voler operare su tipi di lavoro, attività, prodotti, mercati diversi. Inoltre se bastasse anticipare l’età pensionabile per ridurre la disoccupazione giovanile basterebbe andare in pensione a trent’anni, così i ventenni lavorerebbero…fino alla pensione, dieci anni dopo. Sarebbe anche inutile che i giovani cercassero lavoro: dovrebbero soltanto aspettare la chiamata del grande pianificatore che avverte che si è liberato un posto.
I presupposti sbagliati a cui si aggrappano i sostenitori del modello superfisso per quanto riguarda la pensione sono svariati:
Non si potrebbero licenziare gli anziani.
Esisterebbe un numero fisso di posti di lavoro in un Paese. Immutabile per l’eternità.
Nascite, morti, diplomi, lauree, immigrazioni, emigrazioni, cambi di mestiere, si dovrebbero sviluppare secondo criteri di equilibrio. Come se ci fosse un grande pianificatore del mercato del lavoro che mette tutti al posto giusto. Dopo di che, nessuno entra finché un altro esce. Barriere all’entrata ad altissimi livelli, insomma.
La crescita economica o la crisi economica sarebbero irrilevanti.
Lo sviluppo tecnologico sarebbe irrilevante.
I modi di produzione, i processi, i settori, i mercati, i bisogni, la domanda sarebbero immutabili o comunque il loro cambiamento non inciderebbe sull’equilibrio nel mercato del lavoro.
Tutte le persone svolgerebbero sempre lo stesso mestiere nella stessa azienda.
Questo varrebbe in tutti i luoghi e in tutti i tempi.
Andare in pensione non comporterebbe costi, o questi sono ritenuti irrilevanti: contributi a carico delle aziende, contributi a carico dei lavoratori attivi, tasse o debito (e quindi interessi) per mantenere la pensione. Quisquilie.
I sostenitori del modello superfisso non tengono in considerazione neppure la piramide demografica: che succede se aumentano i pensionati, si allunga l’aspettativa di vita, il tasso di invecchiamento si espande, ci sono e ci saranno sempre più vecchi inattivi e sempre meno giovani attivi? Che accade se l’ingresso nel mondo del lavoro si ha sempre più tardi, o per motivi di studio o per motivi di disoccupazione? La lungimiranza e la statistica non sono di questo mondo.
Ipotizziamo comunque che una persona vada in pensione. Che alternative ha l’azienda rispetto ad una nuova assunzione? Potrebbe riorganizzarsi e spostare del personale. Potrebbe esternalizzare un ruolo o un servizio. Potrebbe riassumere il pensionato come consulente. Potrebbe farne a meno. Potrebbe rendere più efficiente un processo produttivo o tutta l’organizzazione. In pratica non è affatto detto che un posto “liberatosi” debba essere coperto.
Ma se invece l’azienda fosse in crescita oppure non cercasse nessuno, ma le si presentasse un giovane di talento e con delle capacità che “fanno al caso suo?” Forse allora lo assumerebbe nonostante tutto.
Che succede se lo Stato anticipa l’età pensionabile in un sistema a ripartizione, ma i contributi dei lavoratori e delle aziende non sono sufficienti al pagamento delle pensioni? Lo Stato deve incrementare i costi per sé (interessi sul debito) o per le aziende e i lavoratori (più tasse e più contributi). Dati tali costi, è anche probabile che a quel punto aumenti la disoccupazione giovanile: l’azienda non assume nessuno e magari chiama il pensionato a fare qualche consulenza. Oppure, chissà, il giovane assunto al posto del pensionato si trova forzatamente costretto a usare il proprio stipendio lordo per pagare la pensione del pensionato.
Vogliamo dare la parola agli esperti? Vogliamo vedere come funzionano le cose nel mondo reale?
Cominciamo con un articolo di Noisefromamerika.
http://noisefromamerika.org/articolo/occupazione-ricambio-intergenerazionale
La logica della favola è quella, solita, del modello superfisso: esiste un numero dato di posti di lavori disponibili, per cui se vuoi far lavorare i giovani, devi toglierli agli anziani. Fine della storia. Una versione leggermente più sofisticata della stessa favola è che i giovani sono belli, pimpanti e produttivi, mentre gli anziani sono stanchi e hanno in mente la pensione e i nipotini. Nello scambio dunque, il paese guadagnerebbe in produttività. Questo ragionamento, pur essendo leggermente più intelligente, ignora intanto che i giovani mancano di esperienza, e bisognerebbe dunque andare a misurare quanto la minore esperienza dei giovani conti rispetto alla maggiore stanchezza degli anziani. Ma il problema principale è che i pensionati vanno mantenuti con i soldi dei giovani, e che pensionare più gente significa aumentare le tasse per i lavoratori, che di conseguenza hanno meno incentivi per lavorare, e per chi fa impresa, che così ha meno incentivi per creare posti di lavoro.
Sì, ma in pratica? Già Boeri e Galasso avevano notato che non c’è correlazione significativa tra disoccupazione giovanile ed età pensionabile. Andrea Moro va oltre e scopre che, nei vari Paesi, non c’è neppure tra occupazione giovanile ed età pensionabile. Questo non significa che ci sia un rapporto di causa effetto tra le due cose o meno: semplicemente le due cose non sembrano legate tra di loro.
Un paio di considerazioni sui commenti. (Direttamente dal blog, ndrr)
Un gruppo di commenti sostiene che la staffetta e’ efficiente se anziani pagati con stipendi sopra la propria produttivita’ vengono sostituiti con stipendi pagati meno di quello che producono, o comunque con stipendi inferiori. Questo e’ vero, ma per la singola azienda. La collettività deve trovare da qualche parte le risorse per pagare quelle pensioni e può farlo solo spremendo chi resta a lavorare.
Un altro gruppo di commenti sostiene che in alcuni settori, in particolare quello pubblico, il modello superfisso sia una approssimazione ragionevole. Questo puo’ essere vero a causa della prassi o di una regolamentazione/legislazione che di fatto fissa il numero di impiegati del settore pubblico per evitare ulteriori aumenti di spesa. Può essere anche vero in certi casi nel privato: in un mercato concorrenziale, data la domanda di uno specifico mercato, l’offerta puo’ essere soddisfatta da 5 giovani e 5 anziani o da 10 giovani (a parita’ di produttività).Il problema pero’ non e’ quello di uno specifico mercato. Se i 5 anziani vanno mantenuti con la pensione, ne soffre la produttivita’ generale del paese e gli incentivi a produrre di tutti. I 10 giovani che rimangono non hanno lo stesso incentivo a lavorare, ad innovare, etc...
Anche Mario Seminerio su Phastidio si è occupato della questione. In particolare, per riprendere un’intervista al ministro Poletti, ha scritto, oltre ad altre cose interessanti su ammortizzatori sociali e costi di formazione:
http://phastidio.net/2014/08/01/tra-modelli-superfissi-e-coperte-corte/
E’ innegabile che solo la crescita crei occupazione, ma sulla staffetta generazionale occorre cautela. Forse Poletti ricorda che, in questo paese, abbiamo trascorso decenni con pensioni di anzianità poco sopra i 50 anni d’età proprio con la motivazione che “così facciamo entrare al lavoro i giovani”, eppure il tasso di disoccupazione giovanile è sempre felicemente rimasto tra i più alti del mondo (occidentale e non solo), mentre quello di partecipazione alla forza lavoro è stato specularmente tra i più bassi. Quindi è dura ora prendersela con l’innalzamento dell’età pensionabile quale determinante della disoccupazione giovanile. Quanto alla flessibilità pensionistica in uscita, è certamente fattibile: basta applicare dei correttivi al coefficiente di trasformazione delle retribuzioni in pensioni, basandosi sulla speranza di vita. In tal modo si manterrebbe anche l’equilibrio dei conti pubblici. Se Poletti ed il governo ritengono che questa possa essere una via, la percorrano. Ma dubitiamo fortemente che la sola possibilità di andare in pensione anticipata, opportunamente penalizzati, possa determinare un significativo riassorbimento della disoccupazione giovanile.
Secondo http://www.lintraprendente.it/2014/04/volete-piu-lavoro-per-i-giovani-toccate-finalmente-le-pensioni/ occorrerebbe una riforma cilena delle pensioni (“oguno si costruisca da sé la propria pensione e lo Stato intervenga solo in caso di fallimento”) dopo che dalla riforma Dini in poi ci sono voluti diciassette anni prima che un sistema compiutamente contributivo prendesse piede. In effetti, in un’ottica libertaria, ogni persona dovrebbe poter decidere di andare in pensione quando vuole: semplicemente attraverso i propri investimenti e senza che lo Stato si intrometta.
Comunque, tanto per non andare fuori tema, ecco un altro articolo eloquente:
http://www.informarezzo.com/permalink/13375.html
. Il primo ovvio problema è che l’ipotesi richiede che le competenze richieste sul lavoro siano costanti o simili nel tempo, tanto da poter essere imparate e perfezionate in modo costante da tutti. Si presuppone anche che gli avanzamenti di carriera avvengano esclusivamente per anzianità e mai, o solo rarissimamente, per merito. Questi difetti logici sono abbastanza gravi, ma prendiamo comunque tutto per buono.
Il vero problema con il ragionamento di cui sopra è che, ammesso che il numero dei posti di lavoro sia fisso, il tasso di disoccupazione dovrebbe crescere con l’aumento della popolazione. Infatti è ovvio che una popolazione in crescita significa più giovani che vogliono entrare nel mondo del lavoro rispetto ai vecchi che lo lasciano. Il tasso di disoccupazione però non solo non aumenta all’aumentare della popolazione, ma addirittura diminuisce. Il grafico sotto riporta la popolazione italiana (in milioni, scala a destra) ed il tasso di disoccupazione in Italia (in percentuale, scala a sinistra) dal 1983 ad oggi. Si vede come a fronte di un aumento della popolazione (e anche un allungamento dell’età pensionabile) la disoccupazione, almeno fino al 2010 fosse diminuita.
Nell’articolo viene citato un rapporto del Dipartimento di Industria e Commercio britannico del 2003. A partire da pagina 60 (70 del pdf) viene dimostrato con dati empirici di diversi Paesi che ritardare l’età pensionabile non fa aumentare la disoccupazione giovanile. Agli scettici buona lettura al seguente link
http://webarchive.nationalarchives.gov.uk/+/http://www.bis.gov.uk/files/file11528.pdf
Anche Francesco Costa ha scritto un articolo sul tema. http://www.francescocosta.net/2011/10/24/un-luogo-comune-sulle-pensioni/ Produrre di più e creare più prosperità e benessere produce occupazione. Stare a non far niente mantenuti dallo Stato no. Altrimenti potremmo andare tutti in pensione a trent’anni, come già detto. (Ricordiamo anche che un eventuale aumento dei consumi causato da parte dei pensionati avrebbe effetti di breve termine, mentre l’aumento di spesa pubblica spiazzerebbe gli investimenti privati.)
Roberto Perotti su La Voce mette in discussione sia le correlazioni empiriche (non nel senso che non vi siano, ma che ci possano essere cause diverse che determinano le variazioni di disoccupazione, popolazione, numero di pensionati ecc.) che gli aspetti teorici, ma mette in luce altre questioni rilevanti:
in una economia moderna, nella maggior parte degli impieghi ogni lavoratore ha delle competenze specifiche e un capitale umano specifico; rimpiazzarlo con un altro individuo ha senso solo se il secondo è un migliore match per quell’impiego. Ma non c’è bisogno di imporlo per legge: con tutti i giovani disoccupati che aspettano una chiamata, un imprenditore lo avrebbe già fatto se ne valesse la pena.
Si potrebbe obiettare che l’imprenditore vorrebbe farlo, ma che i costi fissi di licenziare un anziano e di assumere un giovane eccedono il vantaggio dal miglioramento del match. La staffetta funziona dunque solo se lo stato fornisce incentivi che eccedono questi costi fissi. Ma vi sono altri costi fissi. Al contrario della vendemmia, per un imprenditore non è la stessa cosa fare lavorare Tizio e Caio 40 ore alla settimana, o 30 ore alla settimana e assumere Sempronio part time a 20 ore: non è possibile trasferire istantaneamente con un cavo Usb a Sempronio tutte le conoscenze accumulate da Tizio e Caio in quella azienda. Per assorbire la disoccupazione giovanile in fretta, lo stato deve dunque fornire ulteriori incentivi per compensare questi altri costi. Inoltre, la spesa pubblica aumenterebbe ulteriormente se, come sembra, il governo intende continuare a pagare contributi figurativi a Tizio e Caio per 40 ore invece di 30 – in altre parole, se la loro pensione non diminuisse in modo corrispondente.
Le soluzioni al problema della disoccupazione giovanile a lungo termine rispetto anche alla questione delle pensioni, secondo Perotti, sarebbero, o quella di tornare a crescere, o quella di ridurre gli importi delle pensioni più alte. Non che siano prospettive proprio all’orizzonte, come dice anche lui.
Qua una storia che ribadisce ancora questi punti: http://blog.tooby.name/tag/disoccupazione-giovanile/