Da Elsa Fornero, “Chi ha paura delle riforme”
DISEGNO DI UN BUON SISTEMA PENSIONISTICO PUBBLICO
Il sistema pubblico si occupa di redistribuire da chi ce l’ha fatta a chi non ce l’ha fatta, cosa che il sistema privato non fa.
Come avviene la redisitribuzione. Contributi pagati sui redditi bassi possono avere rendimenti più alti di quelli accordati ai contributi pagati sui redditi alti. Si può usare la fiscalità generale per far fronte a periodi di disoccupazione. Esistono i congedi di maternità e paternità e di svolgimento di attività di cura. Si può garantire un’indicizzazione più generosa o benefici indiretti proporzionalmente più elevati alle pensioni più basse. Si può pensare a una pensione più alta a una coppia anziché ai single (redistribuzione familiare). Si può avere una redistribuzione tra generazioni se si aumentano le pensioni favorendo così gli anziani o invece si aumenta l’età di pensionamento o si riduce l’indicizzazione o si riduce l’aliquota contributiva per i giovani. La ripartizione è un contratto tra generazioni. Se ben disegnato può farsi carico dell’interesse delle generazioni future. Se mal disegnato può accumulare oneri su di loro.
Non esistono né la pensione sicura né il sistema perfetto.
Ci sono sempre anche dei disincentivi di sistema. La pensione minima può indurre a evadere contributi. La pensione di anzianità può spingere al pensionamento anticipato chi è in grado di lavorare determinando una perdita di contributi e un incremento della spesa oltre forse a un aumento del lavoro sommerso. Una reversibilità generosa può condurre a matrimoni di scopo. Il pensionamento anticipato può essere usato per sopperire alla mancanza di servizi assistenziali e di cura.
Il secondo aspetto negativo riguarda la direzione della redistribuzione. Nel sistema previdenziale, le misure di redistribuzione comportano sempre una qualche dissociazione, a livello individuale, tra contributi versati e prestazioni ricevute, nel senso che per qualcuno, sperabilmente più povero, le seconde saranno superiori ai primi, mentre per altri, più ricchi, accadrà il contrario. L’applicazione di criteri redistributivi rende i contributi versati più vicini all’imposta che al risparmio e dovrebbe quindi rispettare i due canoni fondamentali della tassazione, ossia l’equità orizzontale (a uguale capacità deve corrispondere uguale imposta) e l’equità verticale (a maggiore capacità deve corrispondere un’imposta proporzionalmente maggiore). È perciò cruciale, in tutti questi casi, che la redistribuzione vada dai redditi alti a quelli bassi, cioè dai ricchi ai poveri, e non viceversa, altrimenti il rimescolamento delle risorse che si realizza va in senso opposto ai criteri di equità sociale e diviene «perverso».
I diritti acquisiti come nozione favoriscono una tale perversa distribuzione.
Esempio. Antonio e Marco hanno entrambi 62 anni e stanno per andare in pensione. Hanno versato entrambi 40 anni di contributi, per un totale complessivo di 400mila euro. Antonio, dipendente pubblico, non ha avuto grande progressione di carriera e termina la sua vita lavorativa con una retribuzione annua lorda di 36mila euro. Marco ha invece avuto una carriera più brillante: partito con una retribuzione inferiore arriva a fine carriera con 60mila euro di retribuzione annua lorda. La formula pensionistica applicata è la seguente: pensione annua lorda = anni di anzianità x retribuzione annua finale x tasso di rendimento (2%). Nel caso di Antonio la pensione annua lorda sarà perciò di 28.800 euro, mentre nel caso di Marco sarà di 48.000 euro. Non si vede quale principio di equità possa giustificare una simile differenza di pensione quando i contributi complessivamente versati sono uguali; certo non il voler assicurare a Marco, a spese altrui (e magari di qualcuno più povero), il mantenimento dello standard di vita acquisito negli ultimi fortunati anni di vita lavorativa.
Questa attività di redistribuzione, se non contenuta e ben indirizzata, può determinare un’eccessiva frantumazione del sistema in nome di vere o presunte specificità professionali. Ne risultano differenze di trattamento scarsamente giustificabili, rincorse sociali e perdite di trasparenza che, nella pratica dei sistemi di welfare, hanno spesso finito per oscurare la natura assicurativa della pensione e facilitare un uso politico dei sistemi pensionistici, maggiormente concentrato sui vantaggi promessi ai votanti di oggi e perciò meno attento al carico di oneri delle generazioni giovani e future.
Nelle riforme europee dell’ultimo ventennio si è cercato di rimediare a tali eccessi politici di discrezionalità e miopia e di ripristinare un disegno previdenziale più vicino all’impostazione originale, accentuando la corrispondenza tra contributi e prestazioni e correggendo in senso equitativo la redistribuzione residua.
Il disegno di un sistema previdenziale pubblico comporta molti importanti margini di scelta per il decisore politico, come il livello dell’aliquota contributiva, l’età di pensionamento, le regole per il calcolo della pensione e la sua variazione durante il periodo di quiescenza (indicizzazione). Siccome il sistema finisce per essere trasversale, ossia rilevante per tutta la popolazione, comprese le generazioni future, le decisioni, una volta prese, hanno inevitabilmente conseguenze di lungo termine che rendono progressivamente più difficile o di fatto impossibile invertire la rotta.
Una delle scelte più importanti riguarda il metodo di finanziamento delle prestazioni, che, per un sistema pubblico, può essere la capitalizzazione o la ripartizione, o una loro combinazione. In un sistema a capitalizzazione, i contributi versati periodicamente dai lavoratori (e dai datori di lavoro) sono impiegati in attività finanziarie, i cui rendimenti vengono accreditati in un fondo comune del sistema, sia esso a carattere settoriale o esteso a tutti i lavoratori (più raramente i fondi vengono accreditati sul conto individuale del lavoratore). Si accumula così un capitale finanziario, detto «montante», che consente di liquidare all’atto del pensionamento un beneficio commisurato all’insieme dei contributi versati, gli interessi composti accumulati anno dopo anno e, normalmente, alla speranza di vita della classe di età alla quale appartiene il lavoratore
Poiché i contributi sono una forma di risparmio (obbligatorio), ci si può domandare se l’operazione sia conveniente per il lavoratore. Un modo per rispondere alla domanda è guardare al tasso di rendimento che viene riconosciuto ai contributi sociali da lui versati. Senza entrare nei dettagli delle scelte di portafoglio, si può dire che il tasso sarà pari a una media dei tassi di interesse su titoli a basso rischio del mercato finanziario. In linea di principio, pertanto, con questo metodo di finanziamento il sistema non promette unlivello predefinito di pensione, ma soltanto la distribuzione, lungo l’arco della vita residua dell’assicurato, del capitale da lui accumulato, inclusivo degli interessi composti. Per una determinata percentuale di contribuzione, supposta sufficiente ad assicurare, con l’accumulo degli interessi, l’obiettivo di pensione mensile che il lavoratore si propone, il lavoratore stesso è soggetto al rischio finanziario, ossia al rischio che la pensione si riveli inadeguata in termini di potere d’acquisto rispetto alle aspettative precedenti. In linea di principio, poiché il sistema non fa promesse, non corre il rischio di insostenibilità, dato che la misura delle pensioni è determinata dal livello delle riserve accumulate. In condizioni finanziarie buone, con rendimenti superiori al previsto, è possibile aumentare i benefici oppure ridurre temporaneamente i contributi (ossia concedere le cosiddette «vacanze contributive») o, più semplicemente, incrementare le riserve. Tuttavia quando le cose vanno male, può diventare impossibile persino preservare il valore nominale del capitale. Con un’accorta gestione del rischio finanziario si possono introdurre garanzie (sempre limitate) di mantenimento sia del valore (reale) del capitale sia di un rendimento minimo predeterminato, compresa una (moderata) copertura del rischio di inflazione per la pensione e perciò di tenuta del suo potere d’acquisto nel tempo. È ovvio, peraltro, che pensioni insufficienti richiederanno interventi di assistenza a carico del bilancio pubblico e questo mostra l’inadeguatezza per un sistema pubblico di un meccanismo finanziario basato sulla fiducia nella perenne «normalità» delle situazioni finanziarie: scaricare i rischi finanziari interamente sui lavoratori equivarrebbe, infatti, a tradire la stessa ragion d’essere del sistema. Per di più, il meccanismo della capitalizzazione non consente alcuna specifica copertura del rischio demografico, ossia nessuna sua suddivisione tra le generazioni, poiché ognuna è limitata dai propri risparmi (contributi) e, fatti salvi interventi pubblici di redistribuzione entro la generazione, ciascun lavoratore ottiene come pensione il valore capitalizzato di quanto ha versato nel fondo.
RIPARTIZIONE
Il patto intergenerazionale, per contro, è centrale nel sistema finanziario della ripartizione. In questo caso non vi è accumulazione di fondi, poiché i contributi versati in ogni periodo dai lavoratori attivi sono usati nello stesso periodo per corrispondere le pensioni di chi ha già smesso di lavorare. Il lavoratore di oggi, pertanto, sa che i suoi contributi sono utilizzati, insieme a quelli di tutti gli altri lavoratori, per pagare la pensione degli attuali pensionati e confida di potere a sua volta contare, allorché sarà in pensione, sui contributi delle generazioni allora attive. Il diritto alla pensione di un lavoratore si fonda perciò sulla fiducia nella continuità del patto generazionale, e più specificamente sulla convinzione che vi saranno, in futuro, sufficienti entrate contributive dai lavoratori attivi per finanziare il monte pensioni dei pensionati di allora. Il patto viene rinnovato ogni volta che una nuova generazione entra nel mondo del lavoro e inizia a versare i contributi.
Con la ripartizione, lo Stato può spingersi a fare promesse pensionistiche piuttosto precise; per esempio, stabilire che, per un certo numero di anni di contribuzione (poniamo 40) la pensione sarà pari a una data percentuale (poniamo 80 per cento) della media dei redditi degli ultimi tre anni di lavoro o anche dell’ultimo (come nell’esempio sopra riportato). La promessa di un certo tasso di sostituzione (ossia il rapporto tra l’ammontare della pensione mensile e l’ammontare della precedente retribuzione mensile) è tipica della formula retributiva ed è possibile perché lo Stato può sempre coprire l’eventuale deficit aumentando l’aliquota contributiva o ricorrendo alla fiscalità generale o ancora aumentando il debito pubblico. Mentre le garanzie sono sempre desiderabili, le conseguenze finanziarie che da esse potranno derivare alle generazioni giovani e future dovrebbero essere sempre accuratamente monitorate, su periodi che si protraggono per svariati decenni, ciò che richiederebbe una «cultura dei dati» che non sempre la politica apprezza. Anche in questo caso, ci si può domandare se la partecipazione a un sistema così congegnato sia conveniente da un punto di vista personale, rispetto a soluzioni alternative. Come la capitalizzazione, anche la ripartizione è in grado di offrire un rendimento sui contributi versati senza mettere a rischio la sostenibilità del sistema, ossia mantenendo un equilibrio strutturale tra entrate e uscite del sistema stesso.
Tuttavia, mentre la capitalizzazione non può non poggiare sui tassi del mercato finanziario, nel caso della ripartizione non ci sono risparmi investiti ai quali riconoscere un rendimento, e vi è quindi discrezionalità politica sul tasso da applicare. Vi è però un particolare rendimento che ha il pregio di mantenere l’equilibrio finanziario del sistema e che può essere approssimato dal tasso di crescita del PIL. Al di là dei tecnicismi, il caso può essere illustrato in modo intuitivo. In ogni periodo ci sono giovani che lavorano (tutti quelli in età attiva, ignorando, per il momento, la non partecipazione e la disoccupazione) e anziani che percepiscono una pensione. I giovani versano un contributo, supponiamo pari al 30 per cento dei loro redditi (lordi) da lavoro. Il totale dei contributi viene distribuito fra tutti i pensionati, senza accumulazione di riserve (e senza sottrazione di spese, per ipotesi sostenute dallo Stato).
Se la popolazione cresce e anche il reddito medio dei lavoratori cresce, ogni generazione anziana può ricevere, come somma delle pensioni, un ammontare più elevato di quello a suo tempo complessivamente versato. È come se a quei contributi fosse riconosciuto un interesse «virtuale», pari alla somma dei tassi di crescita del numero di lavoratori e del loro reddito pro capite. Questo rendimento è approssimabile, per l’appunto, con l’incremento percentuale del prodotto interno lordo (PIL). Questo aspetto sinergico della ripartizione – la crescita economica dipende da tutti noi e con essa si possono capitalizzare i contributi previdenziali assicurando più elevate pensioni correnti e future – è molto rilevante, anche se poco compreso. E si può andare oltre, sostenendo che, se questo tasso risultasse sempre superiore al tasso di interesse finanziario, l’introduzione di un sistema previdenziale a ripartizione rappresenterebbe un guadagno netto per tutti. Senza arrivare a questo risultato piuttosto irrealistico (il tasso di crescita del PIL non può essere sempre superiore al tasso di interesse e si è anzi dimostrato tendenzialmente inferiore, anche se meno variabile), l’incertezza che grava su entrambi i rendimenti fornisce, come vedremo, buone ragioni per differenziare le fonti di finanziamento e quindi per realizzare un sistema misto o, come usa dire, multipilastro. Quale che sia la differenza fra tasso di interesse di mercato e tasso di crescita del PIL c’è sempre qualcuno che con l’introduzione (o l’estensione) del sistema a ripartizione riceve un beneficio netto. Si tratta della cosiddetta «prima generazione». Quando si introduce (o si amplia) un sistema previdenziale a ripartizione, si stabilisce – per la natura stessa della ripartizione – che il diritto alle prestazioni (o al loro incremento) sia riconosciuto non soltanto ai nuovi entranti, che avrebbero il tempo di finanziarsi le prestazioni versando i contributi previsti dal nuovo regime, ma anche a coloro che, per essere già in età pensionabile o prossimi a essa, non hanno avuto modo di contribuire (o di contribuire pienamente) al sistema. In questo, come ben evidenziato da Onorato Castellino, sta il «fascino politico» della ripartizione: nel fatto che la politica può attribuire diritti senza (piena) contropartita. L’ampliamento dei benefici implica perciò un regalo e i regali fatti con i soldi pubblici o corrispondono a solidarietà (se vanno nella direzione giusta, cioè dai più ricchi ai più poveri) e sono pienamente legittimi oppure creano privilegi e allora sono socialmente inaccettabili. Per di più, poiché in economia le risorse non piovono dal cielo, al regalo fatto a qualcuno corrisponde un onere a carico di qualcun altro, che magari si trova in situazione peggiore. Da qui nasce come già detto, l’attrattività politica del sistema a ripartizione: la possibilità di essere generosi senza che, almeno in apparenza, alcuno ne paghi il prezzo.
La pressione sui politici si fa più forte con l’invecchiamento della popolazione. Quando il sistema pensionistico è finanziato a ripartizione il rischio finanziario è limitato agli effetti indiretti di problemi finanziari sull’economia reale ma ci sono altri tre rischi che assumono rilevanza: il rischio demografico, il rischio economico, il rischio politico.
Nei sistemi a ripartizione, la continuità del contratto tra generazioni è formalmente garantita dallo Stato, che ha il potere di prendere impegni in nome e per conto delle generazioni giovani e future. Sul piano pratico, però, la garanzia non può non essere fornita dalle nuove generazioni, che devono essere sufficientemente numerose e in grado di produrre un reddito tale da rendere sostenibile il pagamento delle pensioni. L’equilibrio del sistema richiede che l’ammontare totale dei contributi di ogni periodo (dato dal numero di lavoratori moltiplicato per il loro reddito medio da lavoro, e ancora moltiplicato per l’aliquota contributiva media) sia pari all’ammontare totale delle pensioni erogate nello stesso periodo (numero di pensionati moltiplicato per l’importo medio delle pensioni in pagamento). In caso contrario, si forma un disavanzo – più raramente, un avanzo – da colmare con tassazione, prestiti o con riserve precauzionalmente accantonate. Più in generale, un sistema a ripartizione prospera in un’economia in crescita. Tale crescita può derivare dalla demografia (aumento del numero di lavoratori in attività) o dall’economia (aumento della produttività del lavoro) o, meglio, da entrambe. Con la crescita della popolazione, i lavoratori che contribuiscono risultano progressivamente più numerosi dei pensionati. L’invecchiamento della popolazione produce l’effetto opposto, ossia aumenta l’incidenza degli anziani sulla popolazione attiva o, come si dice tecnicamente, il tasso di dipendenza degli anziani.
L’Europa ha avuto un notevole allungamento della vita dal dopoguerra. Il nel 2005 il tasso medio di dipendenza degli anziani era tra il 25 e il 30%. Nel 2050 si prevede che Italia, Spagna e Portogallo supereranno il 60%. La Germania si porterà al 51%. La Francia al 45%. I paesi nordici al 40%.
Nel 1971 l’Italia aveva tanti giovani e pochi anziani. Nel 2050 accadrò il contrario. La popolazione sarà concentrata nelle classi di età dai sessanta anni in su.
Il rischio derivante da queste tendenze demografiche è di avere una base di popolazione attiva troppo «gracile» per sostenere la crescente popolazione anziana. Pertanto, o il sistema si dota di correttivi automatici (come l’adeguamento dell’età di pensionamento all’aspettativa di vita) oppure è necessario ricorrere ad aggiustamenti periodici (anche detti riforme parametriche perché si limitano a cambiare alcuni parametri del sistema, non il disegno complessivo), che però comportano un costo politico e finiscono spesso per creare forti tensioni sociali.
Per mantenere il sistema in equilibrio, sono possibili varie linee d’azione o, più verosimilmente, una loro combinazione che costituisca una politica coerente: ridurre la pensione media, in modo da contenere la spesa previdenziale per l’aumento dei pensionati; aumentare l’aliquota di contribuzione degli attivi così che, a parità di generosità del sistema, ci siano maggiori risorse per pagare le pensioni; aumentare l’età del pensionamento, in modo da compensare l’aumento nel numero degli anziani con un aumento dell’età di ingresso nel pensionamento; aumentare il carico fiscale, finanziando parte della spesa non più con contributi, ma con imposte e perciò rinunciando all’equilibrio finanziario tra contributi e prestazioni; ridurre la spesa pubblica diversa dalle pensioni; ricorrere al debito, ossia rinviare al domani le maggiori imposte che sarebbero necessarie per coprire il disavanzo. In pratica, quando l’aliquota contributiva è già relativamente alta e la pensione media relativamente bassa, l’onere dell’aggiustamento non può non riversarsi prevalentemente sull’età di pensionamento, tanto più se si considerano la maggior durata della vita e il miglior stato di salute della popolazione. Parlando di rischio demografico non si può però dimenticare un panorama più generale degli squilibri demografici: quello tra paesi e i continenti. Mentre l’Europa invecchia e perde popolazione – e l’Italia più rapidamente della media – nei paesi della riva Sud del Mediterraneo una popolazione giovane, in forte aumento e con livelli di reddito nettamente inferiori a quelli della riva Nord, determina inevitabilmente consistenti flussi migratori dal Sud al Nord. Anche se l’immigrazione non può, di per sé, rappresentare la soluzione per un sistema previdenziale strutturalmente squilibrato, entrate programmate di immigrati integrabili nel sistema produttivo potranno compensare la probabile futura scarsità di manodopera e contribuire a riequilibrare nel medio-lungo termine i conti previdenziali.
Gli immigrati sono più giovani dei nativi, hanno un più lungo periodo di contribuzione prima di arrivare alla pensione.
In un sistema contributivo ciò che si riceve è ciò che si versa più un interesse che la demografia contribuisce a determinare. Neppure la diminuzione della popolazione è permanente e un’immigrazione ben gestita può compensare gli effetti negativi della transizione demografica.