Per effetto del calo demografico e di una serie di squilibri finanziari, nel lungo periodo l’Inps non sarà più in grado di far fronte al pagamento delle pensioni. Troppi pochi giovani lavorano, e con contratti sempre più precari, troppi anziani percepiscono assegni calcolati con il sistema retributivo o misto e con il passare del tempo, la situazione peggiorerà perché quando arriveremo a un rapporto 1:1 non ci sarà più possibilità di pagare questi assegni, dunque servono migranti regolari per aumentare gli introiti contributivi.
La pensione è un diritto finché è coperta dai contributi e l’odiata riforma Fornero ha cercato di riequilibrare una sperequazione che i governi della Prima Repubblica hanno creato andando a elargire regalie che hanno pagato le generazioni successive. Negli anni 70 e 80 si sono mangiati il Paese, hanno regalato soldi indebitamente e hanno scaricato il debito sulle spalle dei trentenni e dei quarantenni, bruciando letteralmente il futuro di due generazioni che ora si trovano a dover far fronte a debiti mai contratti volontariamente.
Attualmente, sono 471.545 le persone che percepiscono la pensione da oltre 37 anni, il che vuole dire che quasi mezzo milione di pensionati riscuote molto più di quanto ha versato, altro che diritto frutto di anni di lavoro. L’età alla decorrenza delle pensioni liquidate prima del 1980 è di 49,9 anni per la vecchiaia e di 46,4 per l’anzianità, per i pensionati del settore privato l’età è un po’ più alta, con 54,7 anni. L’importo medio degli assegni liquidati ai lavoratori del settore privato in pensione prima del 1980 è pari a 807 euro mensili, per le pensioni dei pubblici l’importo medio supera i 1.660 euro al mese nel caso della vecchiaia, i 1.465 per l’anzianità.
A gennaio 2017 risultavano in essere 18.029.590 trattamenti pensionistici erogati mensilmente, il 63,1% delle quali di importo inferiore a 750 euro. I percettori dei trattamenti pensionistici sono circa 12 milioni, in quanto ogni pensionato può percepire più assegni mensili (pensione di vecchiaia e reversibilità ecc…). Il dato però non include i trattamenti pensionistici ex Inpdap ed ex Enpals, accorpati all’Inps dalla fine del 2011, che ammontano rispettivamente a 2.843.256 e 57.008 per il 2017. Delle 18.029.590 pensioni, 14.114.464 sono di natura previdenziale, derivanti da una copertura contributiva, mentre la differenza è costituita dalle prestazioni assistenziali (invalidità civile, pensioni sociali e assegni sociali, non integralmente coperte da versamenti). Nel 2016, dunque, escluse ex Inpdap ed ex Enpals, l’Inps ha speso 197,4 miliardi di euro, di cui 176,8 miliardi di euro derivanti da coperture contributive.
A fronte di 18 milioni di trattamenti pensionistici da erogare, la platea di lavoratori attivi che materialmente versa i contributi per far fronte al fabbisogno è composta da 22 milioni e 700 persone, platea che nel corso degli anni andrà sempre più assottigliandosi a causa dell’inesorabile invecchiamento della popolazione causato dal declino demografico. Dal 1993 a oggi è sensibile l’aumento dell’età media dei lavoratori attivi: da 38,2 a 43,6 anni. Allo stesso modo, nel corso dell’ultimo quarto di secolo si sono persi 3,6 milioni di lavoratori nel segmento 25 – 35 anni e sono invece cresciuti di 4,2 milioni quelli del segmento over 45, con un raddoppio del numero di lavoratori attivi tra i 55 e i 64 anni rispetto all’inizio degli anni ’90.
I numeri non mentono, che l’Inps sia in equilibrio precario lo sappiamo almeno dall’inizio degli anni ’90, nonostante questo chi cerca di acquisire consenso di pancia evita di spiegare la reale situazione ai propri elettori e promette cose irrealizzabili, a meno di non mandare il Paese in default. Continuando a credere a queste promesse, ruberete solamente il futuro ai vostri figli e nipoti.
Ripartiamo da capo per la centesima volta: il costo pensionistico italiano nel 2017 ha sommato il 15,2% del PIL, il 32,5% dell’intera spesa di stato. E’ follia assoluta che non potrebbero permettersi le nazioni più ricche al mondo, altro che l’italietta con le pezze sul sedere. Quello che si potrebbe (dovrebbe) fare da domani mattina è tagliare un importo dall’erogato annuo tra 50 e i 100 miliardi/anno.
50-100 miliardi di tagli alle erogazioni pensionistiche vorrebbe dire mitigare un pochino il clamoroso furto intergenerazionale in corso in Italia (mostruoso: papà e nonni stanno derubando senza pietà e senza vergogna i soldi dei loro figli, nipoti e pronipoti). Vorrebbe dire poter calare la mostruosa aliquota previdenziale che grava sul lavoro e quindi aiutare la ripresa dell’economia e dell’occupazione.
Circa l’immigrazione a tutto il 2016 il versato dei lavoratori immigrati (opportunamente capitalizzato) sommava oltre 241 miliardi, apporto senza il quale ben difficilmente l’INPS avrebbe potuto erogare le pensioni che ha erogato. Stupide le polemiche accessorie: “ma quelli sono i regolari”. Si, ma la gran parte di loro sono entrati irregolarmente, e quindi?
Visto l’andamento demografico del Paese se non arriveranno più immigrati (come non ne stanno praticamente arrivando quasi più dall’agosto 2017) tra qualche anno le pensioni in Italia saranno solo misere elemosine. Perché? Perché il sistema pensionistico italiano non è ad “accumulo” bensì a “ripartizione”. Vale a dire che l’INPS in cassa non ha un solo euro, che l’introito dei versamenti contributivi dell’anno viene “ripartito” tra gli aventi diritto a una pensione. Se calano gli introiti perché sono sempre meno quelli che lavorano e sempre di più sono i pensionati (per via dello strepitoso allungamento della vita media degli ultimi decenni) le pensioni ai livelli attuali ce le sogniamo (già oggi l’INPS necessita di consistenti miliardari trasferimenti dallo stato per poterle pagare).
E quelli che predicano l’abolizione della fornero, quota 100 e lo stop agli immigrati? Sono dei disgraziati, per il mio sentire autentici criminali, che stanno tentando di finire di distruggere il Paese.
Da un post di Thomas Manfredi su Facebook:
Allora, ho calcolato gli importi di reddito dei giovani da paragonare agli scaglioni delle pensioni erogate, per mostrare il peso relativo di queste ultime rispetto al reddito di chi le pensioni le paga ogni giorno lavorando. I dati delle pensioni li trovate in questo post di Miro Siccardi (https://www.facebook.com/mboldrin/posts/10214200229975626). Questi sono i miei conti, basati su EU-SILC. Classi di reddito mensili lordi per gruppi di età. I giovani sono schiacciati da un peso insostenibile. A fronte di un numero di pensionati pari al 12.2% del totale che si cucca oltre 2.5k euro lordi di pensione, la proporzione di giovani che guadagna oltre quella soglia è solo del 6.7%. A fronte del 37.5% dei pensionati che guadagno sotto i 1000 euro i giovani che guadagnano sotto quella soglia sono il 43%.
A quelli che “il sistema pensionistico non va riformato per non danneggiare le pensioni più basse” vorrei far notare: per quale accidente di motivo una rivisitazione degli importi dovrebbe insistere sul 15% dell’erogato quando il grosso del problema si annida nel restante 85%? Casomai nell’ambito di una riforma potrebbero essere rivisitati al rialzo proprio gli importi più bassi. Siate meno ipocriti, dite chiaramente che la vostra contrarietà dipende dal non voler mettere in discussioni le vostre laute e succose pensioni (o ambite tali se non ancora in età pensionabile).
Sempre a questo proposito ecco un post di Massimo fontana:
Di cosa parliamo oggi?
Ma ovviamente del grande dibattito sulle pensioni degli ultimi giorni, con la diatriba tra Boeri e Salvini sul fatto se gli immigrati siano utili al nostro sistema pensionistico.
Chi ha ragione?
L’economista o il politico?
Diamo subito la risposta per poi esaminarla con calma: ovviamente ha ragione e di tanto, l’economista.
Per capire il perchè dobbiamo partire da due dati di fatto:
1) il sistema pensionistico italiano, sebbene negli ultimi 20 anni abbia introdotto elementi a contribuzione, rimane essenzialmente un sistema a ripartizione.
Infatti le pensioni interamente contributive riguardano solo chi ha iniziato a lavorare dal 1996 in poi. E ovviamente di simili pensionati non ne abbiamo ancora nessuno.
Questo vuol dire che il grosso delle pensioni che vengono erogate non sono frutto di contributi accantonati negli anni, ma bensì sono frutto del lavoro di chi oggi sta lavorando.
2) l’Italia è entrata da qualche anno in un processo di decrescita demografica.
Come possiamo leggere dai dati Istat, qui un sunto http://www.repubblica.it/cronaca/2018/02/08/news/istat_italia_sempre_piu_vecchia_popolazione_in_calo_e_nascite_al_minimo_storico-188327448/ , nel 2017 abbiamo avuto 464.000 nascite e 647.000 decessi.
Il saldo è negativo quindi di 183.000 abitanti.
Ora, come si inseriscono questi due punti nel contesto pensionistico e migratorio?
Il punto di raccordo tra i due concetti è il numero di lavoratori totali.
Il numero di persone che in ogni momento lavorano è ciò che rende possibile il flusso di contributi che il sistema pensionistico ripartirà poi tra i vari pensionati.
E questo numero di lavoratori dipende ovviamente dalla popolazione totale.
E’ semplice: un paese con 10 milioni di abitanti avrà mediamente 5 milioni di lavoratori, mentre un paese di 100 milioni di abitanti avrà mediamente 50 milioni di lavoratori.
E questi lavoratori totali devono essere in equilibrio con il numero di pensioni erogate.
Oggi in Italia siamo circa 3 a 2, ovvero per due pensioni erogate abbiamo tre lavoratori che pagano i contributi.
A questo punto abbiamo tutti gli elementi per costruire un modello semplificato col quale illustrare ogni problematica.
Un modello semplificato quindi, che non rappresenta l’Italia attuale, ma serve per l’appunto a capire i concetti.
Ipotizziamo che il paese X abbia 200 abitanti.
Di questi 100 lavorano e 100 sono in pensione.
I 100 che lavorano pagano i contributi che sono usati per pagare la pensione di chi è a riposo.
A questo punto interviene la demografia diminuendo gli abitanti totali.
Cambia qualcosa?
Si e no.
No se la decrescita è dovuta ad un aumento dei decessi tra gli anziani.
In questo caso abbiamo sempre 100 persone che lavorano, poniamo 95 in pensione, con popolazione totale scesa a 195.
In questo specifico caso la decrescita anzi aiuta il sistema pensionistico.
L’Italia è in questo contesto?
Assolutamente e fortunatamente no.
L’Italia vive una situazione completamente opposta.
A diminuire sono le nascite, come abbiamo visto sopra.
Se diminuiscono le nascite, dopo 18 anni abbiamo che a scendere da 100 a 95 è la prima parte dell’equazione, ovvero quella dei lavoratori che pagano i contributi.
A quel punto il sistema diventa 95 che lavorano, 100 in pensione, totale popolazione 195.
Risultato: il numero di pensionati eccede il numero di chi paga contributi, portando in tensione il sistema pensionistico.
Di solito in questo momento interviene sempre la solita obiezione: in Italia c’è un altissimo numero di italiani disoccupati.
Questo è vero.
Nell’esempio di cui sopra è come se 100 fossero i lavoratori potenziali massimi, ma 90 quelli effettivamente occupati.
E sicuramente occupando questi lavoratori il sistema pensionistico ne avrà dei vantaggi.
Ma il problema viene solo rimandato nel tempo.
Infatti occupando i disoccupati porto i lavoratori da 90 a 100, ma non riesco ad andare oltre 100 e col passare degli anni e con la decrescita demografica i 100 diventeranno progressivamente 99, 98, 97, mentre i pensionati rimarranno sempre 100, 100, 100.
Come ovviare a questo problema?
Innanzitutto come detto, visto l’alto numero di lavoratori disoccupati, l’Italia può mettere in atto politiche economiche che espandano l’occupazione e possibilmente anche la platea totale di lavoratori.
Stiamo andando verso simile percorso?
Sebbene il governo abbia fatto di tale politica la sua bandiera, le misure che sta per ora prendendo vanno in segno contrario.
Il grosso della disoccupazione italiana infatti risiede al sud, ed è strutturale e di lunghissimo periodo.
Tale disoccupazione la rende anche all’interno del framework keynesiano una disoccupazione puramente offertista, che si risolve solo o aumentando fortemente la produttività lasciando i salari reali inalterati fino alla scomparsa della disoccupazione (quello che ha fatto la Germania nei primi anni 2000), o diminuendo i salari reali sic et simpliciter (quello che ha fatto l’Uk dal 2010 ad oggi).
Alternativa non esiste.
Per ora non ci pare il governo stia facendo qualcosa in proposito.
Un’altra via è ridurre la consistenza delle pensioni.
Meno pensioni vuol dire meno contributi e quindi meno lavoratori necessari.
Anche qui non mi pare il governo abbia intenzione di seguire questa via.
Un’altra possibilità è aumentare l’età per andare in pensione.
In questo caso si prendono i classici due piccioni con una fava.
Allungando l’età pensionistica infatti diminuisco contemporaneamente il numero di persone che vanno in pensione e aumento il numero di persone che lavorano.
Ma anche per questa opzione mi pare che il governo voglia andare in senso contrario, vedere alla voce riforma Fornero da eliminare negli intenti di Salvini.
Alla fine cosa rimane?
In prospettiva solo una cosa: ribaltare la demografia.
E anche qui abbiamo due vie: o gli italiani riprendono a fare figli, aspetto che però anche avvenisse richiederebbe almeno 20 anni per incidere positivamente nei conti pensionistici, o semplicemente si aprono le frontiere all’immigrazione.
Bingo.
Siamo arrivati esattamente dove siamo partiti.
L’immigrazione.
Che serve a tenere in ordine i conti pensionistici.
Come volevasi dimostrare.
Ma anche qui bisogna fare una piccola, grande, precisazione.
Sopra abbiamo parlato di salari reali che devono scendere.
Se l’immigrazione serve a tenere in ordine i conti pensionistici deve per forza di cose essere occupata legalmente ed essere per l’appunto …….occupata.
Come può esserlo e contribuire al sistema pensionistico se nel mentre ci sono tre milioni di disoccupati italiani?
L’unica possibile spiegazione logica è che i lavoratori immigrati siano mediamente gli unici che vadano a coprire i posti di lavoro a salario reale e legale ridotto.
Abbiamo evidenza di ciò?
Si.
Come possiamo leggere in questo rapporto http://www.lastampa.it/2017/07/05/economia/lavori-umili-e-retribuzioni-basse-per-tre-immigrati-su-quattro-UAUelDHinDHnGn5deHbx1O/pagina.html il salario medio degli immigrati è attualmente il 30% inferiore a quello medio dei lavoratori italiani.
Non solo: anche a parità di lavoro, gli immigrati vengono pagati di meno.
Il punto da capire di queste statistiche è però un’altro ed è decisivo: se questi posti di lavoro venissero liberati dagli immigrati e dati ad italiani, perchè continuino ad esistere a parità di produttività, devono mantenere inalterato il livello salariale.
La domanda quindi diventa: i lavoratori italiani sono disposti ad accettare salari reali del 30% inferiori a quelli che normalmente accettano?
Se la risposta è si, cadiamo comunque nel caso del temporaneo sollievo del sistema pensionistico.
Ricordiamo infatti che la demografia è avversa e lotta contro di noi.
Se la risposta è no, quei posti di lavoro oggi occupati dagli immigrati, a salari reali più alti, semplicemente spariranno, piaccia o non piaccia, creando così in buco contributivo.
Quindi riassumendo: a meno che il numero di nascite italiane non aumenti improvvisamente di centinaia di migliaia di unità, a meno che il governo non tagli le pensioni o l’età di pensionamento, a meno che il governo non aumenti consistentemente la produttività delle imprese italiane o diminuisca i salari reali dei lavoratori soprattutto del sud Italia, ecco, a meno che non avvenga tutto ciò, Tito Boeri ha perfettamente ragione.
Gli immigrati servono a tenere in piedi il sistema previdenziale italiano.
E punto focale: con la decrescita demografica in atto serviranno ogni anno sempre più immigrati, anche se riusciamo a portare il paese alla piena occupazione.