Tratto in parte da:
http://amsacta.unibo.it/5031/1/280.pdf , “Uno sguardo Retrospettivo alla politica economica italiana negli anni Settanta” di Basevi e Onofri
Ecco la cronistoria dell’evoluzione dei sistemi e dei trattamenti pensionistici in Italia. La cronistoria di un furto intergenerazionale, di chi è nato prima nei confronti di chi è nato dopo. Un furto protrattasi per lungo tempo e che continua ancora.
1919. Il regime di previdenza sociale diventa obbligatorio.
1919-1945. Sistema a capitalizzazione.
1946-1965. Sistema a ripartizione fondato sul principio contributivo.
1966-1995 (ma con prolungamenti fino a 17 anni.) Sistema a ripartizione fondato sul principio retributivo.
Negli anni Sessanta l’ampia platea di lavoratori rispetto al numero degli anziani consente di
affrontare il tema con una relativa negligenza circa le valutazioni sulla sua sostenibilità nel lungo
periodo. Non va dimenticato che il tasso di natalità aveva appena raggiunto il suo massimo storico
nel 1965, per cui le considerazioni prevalenti di redistribuzione del reddito, di ampliamento del
consenso sociale e di sostegno alla domanda interna, che da più parti si considerava stagnante,
risultarono indubbiamente prevalenti.
Nel luglio 1965 una prima legge delega infrange il sistema contributivo, ma la delega non
trova attuazione nei due anni previsti. Più rapida è invece la attuazione della seconda delega, la cui
legge porta la data del 18 marzo 1968 e il decreto delegato del 27 aprile 1968.
Pur in vista
dell’obiettivo di una pensione pari all’80% del salario degli ultimi tre o cinque anni di lavoro, per
chi ha un’anzianità contributiva di quarant’anni, la proporzione viene fissata temporaneamente al
65% e vengono abolite le pensioni di anzianità, istituite tre anni prima per chi aveva una
contribuzione di almeno 35 anni. Un anno dopo, tale proporzione viene portata al 74% nel periodo
1969-75 e all’80% successivamente; si aumentano del 10% tutte le pensioni, si introduce la loro
indicizzazione automatica, viene istituita la pensione sociale per gli ultra-sessantacinquenni privi di
altri redditi e vengono ripristinate le pensioni di anzianità. Nota a margine: conoscete tutti qualcuno che negli ultimi anni di lavoro faceva straordinari su straordinari per avere un importo pensionistico più alto, no?
Le pensioni di anzianità esistevano già dal 1956 per i dipendenti pubblici che avessero una anzianità
di servizio di 25 anni (20 per le donne coniugate); requisito che viene ridotto a 20 e 15
rispettivamente nel 1973. La indennità integrativa speciale viene comunque erogata nella misura
fissa dell’80% fino al 1982.
Tra i privilegi del sistema pensionistico dei dipendenti pubblici, non va
dimenticato il fatto che la pensione sia stata, fino alla riforma Dini, commisurata all’ultima
retribuzione percepita, che i coefficienti di calcolo della pensione sono generalmente superiori a
quelli utilizzati per i dipendenti privati e, infine, che nei primi anni settanta furono previsti
abbuoni fino a sette anni di contribuzione per accelerare il ricambio all’interno della
Amministrazione Pubblica, la quale, però, non subì particolari trasformazioni organizzative.
Ma non è tutto sulle pensioni. Nel 1966 si istituisce la gestione speciale per le pensioni dei
commercianti (quelle dei lavoratori autonomi dell’agricoltura e degli artigiani erano del 1957 e
1959, rispettivamente). In tutti questi casi si adotta il criterio di pagare la pensione al minimo, anche
a chi raggiunge i limiti di età per la pensione di vecchiaia dopo un solo anno di contribuzione.
Da ultimo, nel 1975, le pensioni vengono indicizzate automaticamente all’andamento dei
salari reali; indicizzazione abolita nel 1992 con la riforma Amato.
Nei dodici anni dal 1965 al 1977 il numero delle pensioni di invalidità è cresciuto a ritmi
superiori a quello del numero complessivo, mentre le tre gestioni speciali (agricoltura, artigianato ecommercio) hanno visto un’espansione proporzionale del numero delle pensioni maggiore di quella
dei lavoratori dipendenti.
In questo periodo si ha soprattutto l’aumento del numero delle pensioni, mentre in termini di
valori unitari esse crescono lentamente e rimangono, quindi, a livelli molto contenuti.
E’ nella
seconda metà degli anni settanta, che, una volta acquisto il diritto alla pensione, si sviluppa la
pressione all’aumento del loro importo unitario.
Considerando i dati di contabilità nazionale relativi al Conto della Protezione Sociale, la
spesa per le pensioni accelera la propria crescita in termini di Pil nel 1965; fa ulteriori passi verso
l’alto nel 1972, nel 1975 e infine nel 1980-’81. Anche se nel complesso la spesa per le pensioni, nel
corso di tutti i trentacinque anni, mostra una crescita relativamente regolare,
ancorché a ritmi sostenuti in termini di Pil, non si deve dimenticare che negli anni sessanta e
settanta il tasso di espansione del Pil è decisamente più elevato e la stessa popolazione complessiva
era ancora crescente.
I problemi, già noti nel 1975 e abbondantemente non considerati per motivi clientelari e di ricerca del consenso elettorale, nascono quando la demografia comincia a giocare contro, cioè almeno a partire dagli anni Novanta:
se in precedenza c’erano tre lavoratori per un pensionato, adesso il rapporto si rovescia;
l’età media si allunga;
si allunga il periodo in cui una persona nata negli anni antecedenti il 1970 sta in pensione, anche a prescindere da baby pensionati o falsi invalidi o beneficiari di vitalizi o assurdità varie (ferrovieri, piloti ecc.);
si alza l’età in cui i giovani entrano a lavoro, sia per motivi legati al mercato del lavoro stesso, alla sua precarizzazione (legata a costi che dipendono anche dagli squilibri del sistema pensionistico), sia alla durata più lunga del periodo dedicato allo studio.
Nel 1994 Pagliarini della Lega Nord aveva proposto un sistema alla cilena, completamente privato: ognuno si fa la sua assicurazione e va in pensione quando vuole, prendendo una cifra basata su quanto ha versato. Nei casi di dissesto interviene lo Stato. Tale riforma non viene presa in considerazione da nessuno, tantomeno dai falsi liberali che fanno capo al socialista craxiano Berlusconi.
1995. La riforma del governo Dini, che dovrebbe sancire il passaggio dal sistema retributivo a quello realmente contributivo, viene realmente applicata solo dopo diciassette anni, con la riforma Fornero, l’unica che ha cercato di mettere una pezza al sistema.