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Lo stupore delle prese elettriche

Perotti sulle pensioni

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Da “Status quo” di Roberto Perotti

L’Italia spende in pensioni 260 miliardi, quasi il 16 per cento del Pil, più di qualsiasi altro paese dell’Ocse. Si dice spesso che, dopo le varie riforme degli ultimi tre decenni, e soprattutto dopo la riforma Fornero, l’Italia ha il sistema pensionistico più solido e più sostenibile, perché a regime sarà totalmente contributivo. Un sistema contributivo puro è all’incirca equivalente a una pensione privata: i contributi versati dal singolo lavoratore sono investiti al tasso di interesse corrente, e la pensione viene finanziata dal montante risultante alla fine della vita lavorativa. Un sistema contributivo puro è dunque per definizione sostenibile. Tuttavia, nel sistema italiano i contributi sono rivalutati usando non il tasso di interesse, ma il tasso di crescita del Pil: se il Pil sale ma la natalità netta scende o diventa negativa, oppure la percentuale di lavoratori scende, il peso delle tasse sui lavoratori per finanziare le pensioni può crescere molto. Per rendere il sistema sostenibile senza ridurre troppo le pensioni, ma anche per ridurre il disavanzo dello stato nell’immediato, la legge Fornero ha aumentato l’età pensionabile.

Supponiamo che Mario paghi contributi di 5 euro all’anno, e arrivi all’età di 66 anni nel 2019 con un montante di 200 euro. Se la sua vita attesa è di 86 anni, con il montante deve pagare 20 anni di pensione. Assumendo per semplicità che il tasso di interesse sia 0, potrà avere una pensione di 10 euro all’anno. Se Mario decide di andare in pensione nel 2016 a 63 anni, il suo montante sarà di 185 euro, con il quale deve ora pagarsi 23 anni di pensione: quindi, 8 euro all’anno, una decurtazione del 7 per cento per ogni anno di anticipo della pensione. Questa è quella che si chiama la riduzione “attuarialmente equa”. Cosa succede alle casse dello stato? Lo stato incassa 5 euro in meno di contributi da Mario, e deve pagargli una pensione in più di 8 euro; ma Mario viene sostituito da un lavoratore giovane, che paga contributi per 5 euro. Quindi tra il 2016 e il 2019 il disavanzo aumenta di 8 euro. Dal 2019, lo stato pagherà 8 euro di pensione invece di 10, quindi il disavanzo scenderà. Dunque il pensionamento anticipato aumenta il disavanzo dello stato nei primi tre anni, ma lo riduce in seguito (in termini più tecnici, il debito pensionistico netto non cambia, ma aumenta il disavanzo di bilancio oggi, compensato da un minore disavanzo in futuro).

Se dunque si vuole finanziare anche la flessibilità in uscita per facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e ringiovanire l’amministrazione pubblica, ci sono due strade: chiedere il permesso a Bruxelles di aumentare il disavanzo, oppure trovare risorse per finanziare l’operazione. Un modo è il seguente:

se Mario sceglie di smettere di lavorare nel 2016 a 63 anni, andrà in pensione a 66 anni con un montante di 185 euro, quindi con una pensione annuale di 185/20 = 9,25 euro. Tra i 63 e i 66 anni, le banche gli prestano 9,25 euro per tre anni, che Mario inizierà a restituire nel 2019 per i prossimi venti anni. La pensione netta che Mario percepirà sarà quindi leggermente inferiore a 8 euro. Inoltre, le banche devono assicurarsi contro il rischio che Mario muoia prima di aver ripagato il prestito. Questo fattore e le commissioni bancarie ridurranno ulteriormente la pensione netta di Mario sotto il livello “attuarialmente equo”. Dunque per Mario sarebbe stata leggermente più vantaggiosa la soluzione “attuarialmente equa”, perché non deve pagare commissioni e assicurazione: ma se non è fattibile perché aumenta il disavanzo, la soluzione del prestito bancario è una buona alternativa.

In realtà l’operazione non sarà completamente neutra neanche per le casse dello stato, perché alcune categorie di lavoratori, come quelli impegnati in lavori usuranti e i disoccupati over-cinquantacinque senza speranze di trovare un reimpiego, dovranno restituire meno del prestito ricevuto: la differenza la pagherà implicitamente lo stato. Questa è una decisione saggia: nell’economia moderna, chi perde il lavoro a cinquantacinque o a sessant’anni molto difficilmente lo ritrova; d’altra parte, l’Italia non ha un sistema adeguato di protezione di ultima istanza contro il rischio di povertà per questa categoria di persone (che infatti è stata tra le più colpite durante la grande recessione).

Ci sono ancora parecchi problemi da risolvere. A causa dei mutamenti dell’economia, per molti individui entrati nel mercato del lavoro di recente sarà difficile costruirsi una pensione dignitosa sulla base dei soli contributi versati. Ci sono ancora i lavoratori esodati da sistemare. È necessario trovare risorse per finanziare la riforma dei programmi contro la povertà e la disoccupazione: le pensioni non sono un buon surrogato dei programmi contro la povertà, perché ovviamente hanno difficoltà a raggiungere le famiglie giovani con figli, dove si concentra la povertà peggiore.

Una diversa riforma delle pensioni è l’unico modo per affrontare il problema dei vitalizi ai politici, perché la Corte costituzionale ha già fatto sapere che riterrebbe discriminatoria una riduzione dei soli vitalizi. L’unica possibilità è di ridurre tutte le pensioni elevate, inclusi quindi i vitalizi. Ma anche questo, come sappiamo, non sarebbe accettato dalla Corte costituzionale (anche perché, dicono le malelingue, sarebbero incluse le pensioni dei giudici costituzionali stessi…). Per uno dei suoi strani ragionamenti, tuttavia, la Corte sarebbe disponibile ad avallare un ricalcolo contributivo delle pensioni elevate, a patto che i risparmi siano utilizzati all’interno del sistema previdenziale e assistenziale. Che cosa è il ricalcolo contributivo? Come dice il nome, esso consiste nel ricalcolare la pensione cui ciascun pensionato avrebbe diritto se i contributi versati durante la sua carriera lavorativa fossero stati accumulati secondo il criterio contributivo che si applica ai nuovi lavoratori. Nel giugno 2015 l’Inps fece una proposta in tal senso; ma, contrariamente a quanto si crede, la proposta non consiste nel pagare le pensioni cui si avrebbe diritto con il ricalcolo contributivo, ma in qualcosa di molto meno radicale. Se un pensionato riceve meno di 3500 euro lordi mensili in reddito pensionistico (potrebbe percepire più di una pensione), non cambia niente. Se riceve tra i 3500 e i 5000 euro mensili, vengono fermati gli adeguamenti all’inflazione delle sue pensioni finché, tra qualche anno, esse non saranno diventate uguali alle pensioni cui avrebbe diritto se si applicasse il ricalcolo contributivo descritto sopra. Se riceve più di 7000 euro al mese, le sue pensioni vengono ridotte per renderle uguali alle pensioni ricalcolate con il metodo contributivo. Gli stessi criteri potrebbero essere applicati ai vitalizi dei politici, senza incorrere in profili di incostituzionalità. I pensionati coinvolti da questa proposta sarebbero circa 250.000, con 325.000 pensioni. Di queste, 200.000 verrebbero lasciate praticamente inalterate il primo anno, con una riduzione di solo lo 0,2 per cento; le altre verrebbero ridotte di circa il 10 per cento. Il risparmio da questa operazione sarebbe di circa 2 miliardi, che, insieme ad altri risparmi dettagliati nella proposta, potrebbero venire utilizzati per fornire un reddito di ultima istanza ai disoccupati over-cinquantacinque senza pensione, e per riformare l’assistenza ai meno abbienti. Nell’ipotesi di gran lunga più pessimistica la riforma potrebbe far perdere 220.000 voti. Ma ne farebbe guadagnare un’enormità. Tutti coloro che possono andare in pensione prima; gli over-cinquantacinque disoccupati e senza pensione; i giovani che possono entrare nel mercato del lavoro; i meno abbienti che ricevono un reddito più sostanzioso. Naturalmente, anche in questo caso c’è una componente corporativa: politici e sindacalisti non possono accettare che una proposta sulle pensioni venga fatta senza passare attraverso il rito italico delle consultazioni monstre. Quindi bocciano certe proposte perché perderebbero i loro privilegi.

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