Da: “Politica economica italiana 1968-2007” di Salvatore Rossi.
Riforme: lo sviluppo capitalistico va reso più equo, dicevano.
Programmazione: L’accumulazione capitalistica e lo sviluppo vanno guidati da centro, indirizzati a fini sociali, sebbene senza bloccare i meccanismi di mercato o mortificare il profitto, pensavano.
Risultato: si parlerà di riforme mancate per reazione conservatrice, tranne la nazionalizzazione dell’energia elettrica, e la programmazione resterà un libro dei sogni.
Subentrano i sessantottini e vogliono trasformare o sovvertire la società, le autorità, le istituzioni o, al contrario, conquistare potere e soldi senza fare niente per meritarlo. In ogni caso si passa al vogliamo tutto vogliamo subito.
Meno mercato e più stato: non lo stato riparatore delle fallacie del mercato, che garantisce la concorrenza, che produce efficientemente beni pubblici o meritori. Bensì lo Stato dirigista e distorsivo della concorrenza, esso stesso portatore di ostacoli alla produzione efficiente e alla competitività internazionale.
Le retribuzioni crescono anche del venti per cento annuo tra il ’68 e il ’75. In termini reali gli aumenti annui sono di oltre il cinque per cento. Inoltre vengono conquistati diritti come la settimana di 40 ore, le sassemblee, garanzie per gli apprendisti ecc. Questo laddove nei decenni passati c’era stata una costante prevaricazione a favore del padronato.
La produttività si mantiene elevata crescendo del 6% nel’68/69, poi del 4% nel ’71/’72 e quindi del 2,4%. I salari vengono ritenuti una variabile indipendente. Nel ’75 viene istituito il premio unico di contingenza. Il valore dei beni relativi dell’Italia è inferiore rispetto a quelli che importa, come l’energia, e questo scatena la svalutazione della Lira e l’inflazione. La retribuzione è agganciata all’inflazione e scatena la spirale salari-prezzi-salari. In azienda si fanno forti le pressioni di quadri e specialisti contro le spinte egalitarie dei sindacati e la contrattazione aziendale permette di avere premi ecc. Le imprese possono alzare i prezzi perché la svalutazione della Lira farà sì che il prezzo in marchi di un prodotto sia favorevole e quindi la concorrenza internazionale dal lato export non ne risente. (Vengono i tedeschi in Italia a Rimini.)
Non esistono vincoli di bilancio.
Le pensioni si fanno retributive (da “ricevi quel che hai versato” a “ricevi il tuo stipendio pari a quello dei tuoi ultimi anni di lavoro e vieni pagato da chi lavora attualmente”.) Si istituisce la pensione sociale per gli ultrasessantacinquenni, si largheggia in pensioni sociali, di invalidità, di assistenza per persone che vivono in aree depresse. Si istituiscono la cassa integrazione straordinaria, le pensioni di anzianità, la loro cumulabilità, i prepensionamenti.
Viene garantita assistenza alle imprese in difficoltà, da salvare attraverso la GEPI. Sostegni, sussidi a imprese pubbliche e private in crisi sono all’ordine del giorno, soprattutto se garantiscono voti o pace sociale. I partiti salgono al potere nelle imprese pubbliche.
Si hanno assunzioni in massa negli enti pubblici o nelle imprese pubbliche. Gli amministratori degli ospedali non devono essere dei bravi gestori perché ogni spesa viene coperta a piè di lista.
In realtà la spesa pubblica viene portata a livelli paragonabili a quelli di altri Paesi come Francia e Germania. Il problema è di qualità e composizione della spesa.
La pressione fiscale è bassa e viene tenuta tale. Quindi c’è un problema di disavanzo e quindi poi di spesa per interessi che non hanno altri Paesi. Quando ci sarà da rientrare, loro potranno farlo più agevolmente.
APPUNTI FRENETICI DI STORIA MONETARIA ITALIANA IN QUEGLI ANNI.
La politica monetaria fu arrendevole anche per la parte che non spettava al Tesoro.
Anni sessanta. La banca d’Italia cerca di tenere un tasso di interesse sui titoli che consenta ai risparmiatori di guadagnare (quindi sufficientemente alto) e alle imprese di investire prendendo a prestito o emettendo titoli propri (quindi sufficentemente basso). Questa guida viene meno quando i tassi di interesse internazionali crescono di per sé e i tassi di cambio diventano flessibili.
’69: politica monetaria restrittiva per squilibrio nei conti con l’estero, conflitto dei contratti.
’71-’72: politica espansiva perché gli investimenti si contraggono, ma…la liquidità va a finire all’estero. Le imprese e gli investitori temono conflitti, c’è incertezza sui costi futuri del lavoro e sulla tenuta del quadro sociale e politico: le imprese non investono in Italia, anche a caula di tassi d’interesse bassi. Il disavanzo pubblico crescente pone il problema di come coprirlo. L’Italia subisce deflussi di capitali e ribassi sulla Lira. Anziché cambiare politica monetaria, l’Italia decide di aumentare il controllo sui movimenti di capitale e impone dei vincoli di portafoglio alle banche. La lira si svaluta comunque, scoppia la crisi energetica, si alzano i prezzi delle materie prime importate, c’è di nuovo squilibrio nei conti con l’estero. Lettera d’intenti e prestito dal FMI.
Si pongono restrizioni quantitative (quanto credito concedere) al credito. Sembra che la restrizione sia eccessiva perché l’economia è fiaccata. Si riparte con le concessioni di credti nel 1975, si ricreano squilibri nella bilancia dei pagamenti e si arriva alla crisi della Lira del ’76.
SI APRE LA VORAGINE DEL DEBITO PUBBLICO
La politica economica degli anni settanta perde la capacità di guida del sistema e apre i varchi del bilancio pubblico alle grida del vogliamo tutto che si sentivano nelle strade.
Carli ’74: “rifiutare l’acquisto di titoli sarebbe percepito come un atto sedizioso da parte della banca d’Italia. Non avrei esistato a fornire allo Stato, per le esigenze vitali del Paese, liquidità e quindi a restringere il credito al settore privato.”
“Nell’accendere il motore che spingerà il debito pubblico alle altezze vertiginose dei giorni nostri, i governi ricevono un sostegno da parte della banca d’Italia attraverso tre strumenti: le forme di finanziamento monetario contro acquisto di titoli dei disavanzi, la ripartizione del credito tra settore privato e pubblico, l’imposta da inflazione (perdita di potere di acquisto dei titoli pubblici meno interessi percepiti: il 5% nel’75). Il tasso d’interesse reale è negativo: i creditori dello Stato non ricevono interessi sui prestiti concessi ma subiscono un tributo occulto. Becchi e bastonati da dei ladri che dichiarano di restituire loro i soldi prestati…ma che hanno un valore inferiore. Questa imposta bilancia il disavanzo tra spesa ed entrate esplicite. I capitali poi non possono spostarsi all’estero per vincoli amministrativi. Il mercato finanziario è così isolato da quelli esteri, i tassi sono più bassi di quelli esteri, i deflussi di capitale regolatori sono bloccati.
Anni sessanta: il 30% del credito va al settore pubblico. Anni settanta: la quota passa al 60%, partecipate pubbliche comprese.
Il disavanzo pubblico non viene percepito, le politiche economiche continuano come negli anni sessanta, il mondo cambia e l’Italia no. La politica è quella di non scegliere, per esempio in termini di spesa pubblica e della sua qualità. Non fare scelte che scontentino qualcuno. Per di più vengono istituite le Regioni e vengono creati i Tar. Ambedue gli strumenti diventano centri di spesa o di autorizzazione alle spese. I dipendenti delle regioni avrebbero dovuto essere quelli impiegati in precedenza nello Stato, secondo la legge che le istituiva, ma non andò così.