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Lo stupore delle prese elettriche

Quelli che il debito pubblico non è un problema vs quelli che il debito pubblico è un problema

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Da Roberto Perotti, “Status Quo”, primi due capitoli.

Variazione del debito pubblico = spesa pubblica esclusi interessi sul debito + interessi sul debito − tasse dove il termine a destra del segno uguale (cioè “spesa pubblica esclusi interessi sul debito + interessi sul debito − tasse”) è il disavanzo di bilancio. Questa formula è chiamata il vincolo di bilancio del governo.

Formalmente, è un’identità contabile, non le si può sfuggire: ma sarà affascinante osservare la fantasia apparentemente inesauribile di chi crede di poterla aggirare.

Si noti la differenza fondamentale tra debito e disavanzo: il primo è una consistenza, il secondo è un flusso annuale; il primo è l’accumulo (con gli interessi composti) del secondo. Per una famiglia, l’analogo del primo è un mutuo per la casa; l’analogo del secondo è la differenza tra le spese e i guadagni annuali del nucleo.

Il debito pubblico è attualmente di oltre 2200 miliardi di euro, il 133 per cento del Pil;

il disavanzo è di circa 40 miliardi, il 2,3 per cento del Pil.

La formula sopra ci dice che quando c’è un disavanzo di bilancio, il debito aumenta: quando c’è un avanzo, il debito diminuisce.

In altre parole, essa ci dice che, per ridurre il debito pubblico, lo stato deve spendere meno di quanto incassa: se parte da una situazione di disavanzo, deve ridurre le spese, o aumentare le tasse.

Normalmente però non siamo interessati al valore del debito pubblico in euro, ma al rapporto tra debito pubblico e Pil. Per ridurre questo rapporto c’è anche un’altra via: un forte aumento del Pil. In questo caso, anche se il debito pubblico in euro aumenta, il rapporto debito pubblico/Pil può scendere, se il Pil aumenta percentualmente più del debito pubblico.

PERCHE’ IL DEBITO ITALIANO DOVREBBE PREOCCUPARE

1) Ce lo impone l’Europa. Come è noto, le regole dell’Unione europea prevedono un limite del 60 per cento al rapporto debito/Pil, e un cammino di rientro abbastanza veloce nel caso in cui il rapporto ecceda questo limite. Tali regole dovrebbero essere l’ultima delle preoccupazioni: nessun paese le rispetta e, a parte qualche richiamo, non c’è praticamente niente di sostanziale che l’Europa possa farci se non le rispettiamo.

2) Stiamo ipotecando il futuro dei nostri figli. Sì e no. Si dice spesso che, quando lo stato si indebita eccessivamente, stiamo facendo pagare alle generazioni future un tenore di vita che non possiamo permetterci. Questo sarebbe corretto se lo stato prendesse a prestito dall’estero. Ma la stragrande maggioranza del debito pubblico italiano è detenuta da italiani, e un padre non può prendere a prestito da un figlio che ancora non lavora.

Supponiamo che l’Italia abbia due abitanti, Carlo e Paolo; anche la Germania ne ha due, Karl e Paul. Carlo produce due mele, Paolo nessuna perché non lavora: il Pil italiano è dunque di due mele. Lo stato italiano vuole dare una pensione di una mela a Paolo. Può prendere a prestito una mela da Karl, e girarla a Paolo come pensione. In questo caso l’Italia nel suo complesso consuma tre mele (due Carlo e una Paolo), quindi vive al di sopra delle proprie possibilità, nel senso che consuma una mela in più di quante ne produce; per questo si è indebitata per una mela con Paul.

Se lo stato italiano promette di restituire la mela a Paul (assumendo un tasso di interesse pari a zero per semplicità) fra cinquant’anni, quando sia Carlo sia Paolo saranno morti, sta effettivamente ipotecando il futuro dei figli di Carlo e Paolo, perché saranno loro che dovranno rinunciare a una mela per restituirla a Paul o ai suoi eredi.

Ma se lo stato non prende a prestito la mela da Karl o Paul, cosa può fare per dare una pensione di una mela a Paolo? Può prenderla solo da Carlo. Può farlo tassando Carlo di una mela; oppure prendendo a prestito una mela da Carlo, cioè emettendo debito pubblico che Carlo acquista pagando con una mela. In entrambi i casi, Carlo oggi consuma una mela invece di due; Paolo una mela invece di zero. L’Italia nel suo complesso continua a consumare due mele, esattamente quante ne produce: la generazione di Carlo e Paolo nel suo complesso non sta vivendo al di sopra delle proprie possibilità.

C’è sempre il debito pubblico emesso dallo stato, del valore di una mela, acquistato da Carlo. Prima o poi lo stato dovrà restituirlo. Supponiamo che la scadenza sia tra tantissimi anni, quando sia Carlo sia Paolo saranno morti. Adesso ci sono i figli, Carletto e Paolino, che producono ciascuno tre mele (il progresso tecnico…). Carlo ha lasciato in eredità il titolo di debito pubblico a Carletto; alla scadenza del titolo, lo stato deve procurarsi una mela per rimborsare Carletto. Lo può fare tassando Carletto stesso di una mela, o Paolino di una mela, o entrambi di mezza mela. In tutti questi casi, quante mele consumeranno complessivamente Paolino e Carletto? Sei, esattamente quante ne producono: non stanno vivendo al di sotto delle proprie possibilità.

Dunque, se non diventa debito verso l’estero, il debito pubblico non è un prestito dalle generazioni future a quelle attuali. Il debito pubblico iniziale per pagare una mela di pensione a Paolo non ha pregiudicato il tenore di vita complessivo della generazione di Carletto e Paolino: lo stato semplicemente prende in totale una mela da Carletto e/o Paolino, e la gira a Carletto.

Quest’ultimo ragionamento suggerisce un motivo più sottile per cui il debito pubblico oggi potrebbe essere un peso sul tenore di vita delle generazioni future. Sapendo che uno o entrambi dovranno essere tassati per ripagare il debito pubblico, Paolino e Carletto potrebbero pensare: “Chi me lo fa fare di lavorare così tanto, per poi dover dare gran parte delle mele che produco allo stato?”; invece di produrre tre mele ognuno, ne producono solo due.

Il loro consumo complessivo diventa quindi di quattro mele invece di sei. Si tratta del cosiddetto “effetto distorsivo” delle tasse: più alta è l’aliquota, minore è l’incentivo a lavorare e a investire in nuove imprese, e minore il Pil. Questo effetto è sempre presente (anche se nessuno sa quanto forte sia effettivamente), ma un alto debito pubblico lo acuisce perché l’effetto distorsivo è tanto più forte quanto più alte sono le aliquote delle tasse.

3) Preoccupa i mercati. Questa è una motivazione più seria. A torto o a ragione, in una recessione i mercati possono temere che il peso del debito sia così forte che un paese non sia in grado di ripagare il debito in scadenza o gli interessi. Abbiamo visto un esempio nell’autunno del 2011, quando il debito italiano era considerato così rischioso che il famoso spread con il tasso tedesco raggiunse il 5,74 per cento (al momento in cui scrivo, nel giugno 2016, è dell’1,35 per cento). Si potrebbe rispondere: se i mercati sono così sciocchi da pensare che l’Italia non sia in grado di restituire il debito o pagare gli interessi, affari loro. Non proprio. Una crisi del debito si riflette sulle banche, sulle imprese e sulle famiglie stesse. Le banche italiane sono piene di titoli del debito pubblico italiano: se questi ultimi perdono di valore, le banche vedono il loro capitale assottigliarsi, fanno meno prestiti, le imprese producono e assumono di meno, e le famiglie stesse, anch’esse detentrici di titoli del debito pubblico, consumano di meno.

4) Bisogna tenersi un cuscinetto per i tempi di vacche magre. Questa è l’argomentazione più fondata. Si fa notare spesso che durante la crisi finanziaria il rapporto debito pubblico/Pil italiano è aumentato molto meno di quello di tanti altri paesi, come Regno Unito, Irlanda, Usa, che l’hanno usato prevalentemente per finanziare il salvataggio delle banche. Nel 2007 il rapporto debito/Pil in Italia era già molto alto, al 102 per cento; negli altri paesi era bassissimo, addirittura solo il 23 per cento in Irlanda, il 42 per cento in Gran Bretagna, e il 64 per cento negli Usa. Nei quattro anni successivi, nel pieno della crisi, il rapporto debito/Pil in Italia è aumentato di 13 punti percentuali; in Irlanda, Gran Bretagna e Usa è aumentato di ben 63, 34 e 38 punti percentuali, rispettivamente. Che cosa è successo? Questi paesi partivano da un debito pubblico molto basso, e hanno potuto permettersi di aumentare il disavanzo di bilancio (in Irlanda è arrivato a toccare il 35 per cento!) per combattere la recessione più grave del dopoguerra. L’hanno fatto in gran parte per salvare dal fallimento il sistema bancario, e si può discutere all’infinito sulla saggezza di una tale operazione, ma questi sono i numeri. A quell’epoca, l’Italia riteneva di non aver bisogno di salvare le banche, che apparivano in condizioni migliori di quelle inglesi e irlandesi.3 Tuttavia, in una recessione così profonda ci avrebbe forse fatto comodo poter aumentare, per esempio, la spesa per i disoccupati e, in generale, per il sostegno al reddito, oppure ridurre le tasse; ma partendo da un debito pubblico così alto, non avevamo margini di manovra. Di conseguenza, durante la recessione le fasce più deboli della popolazione hanno sofferto più che in altri paesi, e si è potuto fare molto poco per loro.

QUELLI CHE IL DEBITO PUBBLICO NON DEVE PREOCCUPARE

1. L’Italia ha un avanzo primario alto e superiore da venti anni a quello tedesco. Se parti da un debito più alto e hai una crescita più bassa, che tu abbia un avanzo primario superiore è inevitabile se non vuoi che il rapporto debito/pil esploda. I mercati non ti premiano perché resti a rischio. Inoltre strozzi leconomia a causa delle tasse e il tuo pil fatica. Ricordiamo che il pil è il reddito e la somma degli attivi è la ricchezza.

2. Bisogna confrontare il debito con la ricchezza privata e lItalia avrebbe una quota superiore di ricchezza privata perché possiede più case. Se gli altri paesi hanno assicurazioni immobiliari, significa che le loro famiglie hanno ricchezza. Oltre alla difficoltà di misurarla bisogna dire che aumentare le tasse sulla ricchezza è difficilmente proponibile perché: la pressione fiscale è già elevatissima; esiste una componente elevata di economia sommersa che quindi non contribuisce al gettito fiscale; tassare la ricchezza significa tassare le case e lItalia è refrattaria a questo.

3. Gli italiani non amano le tasse, malgrado soprattutto la sinistra insista che sono una cosa bellissima.

4. Se aumenti la spesa pubblica aumenta il pil e quindi le tasse. Affinché questo avvenga ci vorrebbe un moltiplicatore molto alto e si sarebbe trovato il moto perpetuo. Sull’ipotesi che laumento del disavanzo sarebbe stato ripagato dalla crescita futura sono andati avanti movimenti populisti in Sudamerica e anche i politici italiani degli anni 80. Facciamo quellautostrada inutile che poi ripagheremo il debito con la crescita. Non ha mai funzionato.

5. Se riduci le tasse aumenta il pil e quindi ripaghi il debito perché la crescita porta maggiore gettito fiscale che compensa la riduzione. Anche in questo caso il moltiplicatore deve essere alto per avere una crescita sostenuta. Si parla di vodoo economics.

6. In ambedue i casi 4 e 5 resta il fatto che bisogna che qualcuno dica come coprire le riduzioni delle tasse o gli aumenti di spesa. Molti assicurano che la spesa pubblica verrà ridotta in futuro, ma poi non lo fa nessuno anche perché le elezioni incombono sempre. Qualcuno dice che le spese si ridurranno nelle fasi espansive, ma non lo fa nessuno. Per una riduzione della pressione fiscale del tre per cento del pil, quindi pari a 50 miliardi in meno di tasse, occorre una riduzione di qualche decina di miliardi della spesa pubblica: lunico che è uscito con numeri del genere, Cottarelli, è stato fatto fuori. Si parla di time inconsistency: la discrepanza tra l’annuncio e la realtà, una discrepanza che più si protrae nel tempo più rende il paese non credibile. Ridurre subito e stabilmente la spesa pubblica sarebbe il segnale al mondo di un cambiamento epocale e quindi renderebbe più credibile il paese e quindi meno a rischio il suo debito. In ogni caso il vincolo di bilancio non può essere aggirato: se si spende di più di quanto si incassa, il debito aumenta.

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