Sbobinatura
La produttività.
È la misura del valore del lavoro. Quanto prodotto il lavoro mette insieme. Non è una definizione esattissima. Dovremmo parlare di produttività di tutti i fattori di lavoro. Nell’economia moderna ci sono la natura, i dati, il lavoro e il capitale e dovremmo parlare di tutti questi fattori. Nella nostra vita la produttività del lavoro determina quanto il lavoro venga remunerato e quindi determina gli stipendi, una misura del tenore di vita.
Domandarsi dove va la produttività italiana è domandarsi dove va il lavoro italiano.
Il lavoro è una parte importante della nostra identità.
Misuriamo come è cambiata la nostra capacità di organizzare il lavoro: stanziare risorse, investire capitale, organizzare le persone attorno al capitale. La qualità dell’organizzazione del lavoro si può misurare con la produttività totale dei fattori.
Prendiamo il grafico fred della ptf a prezzi costanti per l’Italia. Rappresenta come cambia il valore (senza l’influenza dell’inflazione) dal boom economico degli anni 50 in poi. C’è una crescita fino a metà anni 70. È un indice, conta il cambiamento nel tempo. Dal 54 al 76 la capacità organizzativa del lavoro, la produzione di valore raddoppia in qualità. Poi rallenta con gli shock petroliferi e a inizio anni 80 cambia tutto. Tra il 50 e l’80 lo stipendio cresceva velocemente di anno in anno, non solo per inflazione o per lotte. La produttività cresceva comunque molto.
Negli anni 80 il paese si sveglia in crisi di modello produttivo, che capita in tutte le economie occidentali. Cambia la politica monetaria, si ha la spinta anti inflazionistica, si hanno i cambiamenti in USA, UK. Tutti i paesi vivono un dilemma sulla capacità produttiva. In Italia il processo viene gestito in maniera diversa. Creiamo un ammortizzatore, che è il debito pubblico. Spendiamo come degli assatanati. Aumentiamo la spesa pubblica. Creiamo detassazioni, buchi fiscali, cose che riducono la pressione fiscale creando deficit in doppia cifra dopo l’inflazione in doppia cifra. Un paese che nel 1980 aveva il 59% del rapporto debito pil si sveglia nel 1992 con un debito che supera il 100%. Ogni anno accumula 4 punti di debito aggiuntivo sul pil.
Si parla di ruggenti anni 80, un periodo florido.
In realtà quella situazione di euforia o apparente ricchezza era figlia di un’inerzia: un paese che aveva smesso di crescere e ha continuato a spendere senza più investire o ristrutturarsi quando il modello precedente non era più sufficiente. Ho rischiato il testacoda per correggere a fine periodo anziché cercare di adattarsi alla curva. È come se ci fossimo dopati. O se ci fossimo imbottiti di zucchero e abbiamo accumulato grasso che poi ci rallenta.
A inizio anni 90 abbiamo fatto la prima sterzata: manovre Amato e Ciampi, crisi valutaria, tangentopoli ecc. Quel sistema era insostenibile finanziariamente, economicamente, politicamente. La politica si avvantaggia se gli dai risorse. La corruzione avanzava. Nel 1994 c’è una piccola ripresa, un rimbalzo fino al 1996. L’Italia decide di avvicinarsi all’euro. La produttività rimane stabile e riduciamo il debito pubblico per un po’. Nel 2000 con l’euro la ptf torna a calare. Ma cosa succede dopo il duemila? Il paese torna nel vizio degli anni 80. Si risiede. La spesa pubblica torna ad aumentare. Alcune spese sono un patrimonio di civiltà. Altre lo sono meno. Spostiamo spesa primaria aumentandola da sotto il 40 a fino il 43% va avanti fino al 2007. La capacità produttiva del paese peggiora. Si è creato un disincentivo agli investimenti industriali. In quel periodo molte aziende che avrebbero potuto ricapitalizzarsi, investire anche sull’estero ecc.non hanno goduto dei benefici di una valuta forte che avrebbe potuto permettersi di ristrutturarsi e di crescere di dimensioni.
Creiamo istituzioni che ci proteggano. Ci apriamo all’Europa. Acquisiamo l’euro. Potremo prendere a prestito a tassi più bassi. Possiamo così attrarre investimenti perché siamo più stabili. Invece il risparmio di spesa per interessi ottenuto grazie all’euro avremmo potuto investire per riorganizzare il lavoro, cambiare la struttura produttiva, innovare. Sono anni, i primi duemila in cui matura la new economy, in cui la Germania fa le riforme strutturali e non è più il malato di Europa, altri paesi colgono la possibilità di stanziare risorse per il futuro, in Italia facciamo spesa pubblica corrente basata su trasferimenti. Quattro punti risparmiati di spesa per interessi finiscono lì. Non bisogna criminalizzarla ma se spendi quattro punti di pil e la produttività cala evidentemente c’è un problema di qualità: le risorse, anche quella spesa, sono state allocate male. Potevi spendere in scuola migliore, in università migliore ma quella roba lì è andata in pensioni aggiuntive.
Così nel 2008 arriva la grande recessione. Da lì la produttività è ferma. Il paese è fermo. Lo spazio fiscale è limitato. Ho più debito. La qualità di spesa non funziona. Siamo fermi. È mancato anche un difetto di comunicazione al paese. Dovevamo investire e cambiare. Invece abbiamo fatto spesa corrente. Poi è arrivata la crisi, sulle nostre debolezze strutturali.
Come facciamo a ritirare su la curva?
Adesso peraltro abbiamo una difficoltà in più.
Abbiamo salari privati stagnanti, un costo del lavoro elevato (nella fascia alta della media europea), un problema di cuneo fiscale (costo alto per le aziende rispetto al salario netto e dentro ci sono i contributi sanitari e pensionistici. Le pensioni sono sostenute anche dalla fiscalità generale. La pressione tributaria è elevata. Si è creato un nodo). Come sciogliere il nodo?
Il passaggio produttività cuneo fiscale come si potrebbe affrontare?
La risposta facile sono le riforme strutturali come efficientare la pa, rendere più efficace il diritto amministrativo, migliorare l’istruzione ecc. Potremmo farlo, abbiamo le menti per farle.
Però ci sono anche delle cose più vicine.
Abbiamo permesso che la spesa pubblica andasse a favore delle persone più anziane. Abbiamo permesso che la spesa per le pensioni crescesse. Ti tasso tanto quando lavori però vai in pensione prima. Questo ha creato un equilibrio politico. Sì, mi tassi, ma vado in pensione presto e magari arrotondo. Abbiamo fatto dei passi avanti con la riforma Fornero ma comunque abbiamo la spada di damocle adesso di quota 100. Se vogliamo utilizzare risorse almeno per affrontare oggi il cuneo fiscale e ridurre la tassazione sul lavoro dobbiamo eliminare quota 100. Non è banale fare quella correzione. Quando cambi le regole crei dei diritti acquisiti e acquisendi. Certo non è che la puoi ritirare così. Non dovresti creare dei nuovi esodati. Ci sono tante detrazioni assurde. Però se è una legge dello stato la utilizzo. Chi usa quota 100 anche se la trova assurda non è che non esiste. Devi tener conto delle persone. Le risorse ci sono. La soluzione è possibile e l’abolizione di quota 100 può essere graduale e fatta a modo.
L’Italia ha generato un sistema fiscale che invece di generare efficienza e semplicità si sono create delle singole agevolazioni che si sono accumulate invece di sistemare a regime il sistema. Poi l’eventuale recupero delle somme va destinato al cuneo fiscale o alla fiscalità generale? C’è spazio da recuperare sulle inefficienze.
Ci sono delle cose surreali. C’è un sussidio su un trattamento sul sale, una tax expenditure mirata forse per tre imprese che fanno un trattamento chimico sul sale e quella roba vale poco e è entrata chissà quando in una legge di bilancio. Sarebbe da levare perché dà razionalizzazione pur non dando tanto risparmio.
Una spesa importante è la detassazione del diesel per trattori. Ora chi usa il diesel per i trattori può avere una detrazione. Ma vediamo la spesa fiscale divisa per il numero di trattori. Un miliardo e mezzo. Dato il parco trattori vuol dire che c’erano imprese che avevano usato il diesel per usare un trattore per altri scopi a spese dei contribuenti. Basterebbe fissare la detrazione sul numero dei trattori. Stessa cosa sulle agevolazioni per il diesel marino. Abbiamo patologie, abusi, evasioni. Abbiamo tollerato prima e poi vogliamo sanzioni eccessive. Il problema è anche intervenire prima e non dopo.
Non aspettiamoci dalla razionalizzazione del tax expenditure grandi risparmi. Saranno dieci miliardi, ma sarà lo 0,5 del pil annuo. Però più che il risparmio è razionalizzazione. È una cosa di giustizia. E è un segnale.
Sono i comportamenti virtuosi che cambiano un paese.
Dobbiamo riequilibrare lo squilibrio che c’è tra macchina fiscale e contribuente. Lo statuto dei diritti del contribuente è messo sotto i piedi dal sistema fiscale. L’incentivo porta a colpire il piccolo anziché il grande evasore.
Ci vorrebbe un’autorità che possa dare una garanzia di equità nelle interpretazioni. Abbiamo un eccesso di interpretazioni pro cassa oggi negli interpelli o negli accertamenti. Togli dei pezzi all’agenzia delle entrate e li metti in questa agenzia.
Diamo per scontato l’extra deficit per il covid e diamo per scontato che alcune cose saranno fatte bene e altre no.
Avremo maggior deficit e maggior debito. Andrà tenuto controllato ma partendo da dati diversi.
Si aprono due questioni: il rapporto con l’Europa come accordo tra i singoli Stati e il patto di stabilità. Post pandemia avremo molti debiti pubblici più grandi. C’è spazio per avere dei parametri rimodulati allineati coi tempi?
Il patto di stabilità rimarrà tale. Verrà modificato nella sua gestione. Il fiscal compact aveva criteri discrezionali e sarà probabilmente aggiornato.
Attenti alla trappola degli europeisti tesa dagli euroscettici. Il livello di debito italiano sarà molto gravoso. Pensare di gestire una fase di ripresa con quel livello di debito e spazio fiscale limitato sarà difficile per l’Italia. L’Italia è responsabile dei 135 punti di debito su pil. Quanto sarà di più non dipende da noi. Lì bisogna che l’Europa capisca che c’è bisogno che i paesi possano operare chiaramente affinché il mercato europeo resista. A livello europeo va chiesta una risposta fiscale coordinata.
Anche il recovery fund non è uno stimolo fiscale. È debito, possibilità di estrarre risorse ad altro debito. Alcuni paesi hanno bisogno che spazio fiscale in più venga supplito dall’Europa nell’interesse dell’Europa.
È opportuno prendere il mes, con cui prendiamo soldi a tassi più bassi.
Non bisogna volere la mancetta per rendere soldi.
La luna è questo problema: di fronte allo shock gli Stati Uniti hanno messo giù 2300 miliardi di dollari come stimolo fiscale, poco più del 10% del pil. Non sappiamo se hanno ragione o se sia efficace. La risposta nazionale vale il 3% in media. I tedeschi hanno più spazio fiscale. Abbiamo progetti. 2% di pil dal Mes. Quindi vai al 5. Poi garanzie della bei ecc, facciamo il 7%. Se investiamo tanto meno denaro rispetto agli americani la ripresa sarà tenue. In Usa il budget va a tutto il paese. In Europa la risposta si concentra nelle economie più forti. Chiediamo all’Europa una risposta che sia in linea con le altre economie del globo.
Ciò richiederebbe extradeficit con contribuzione europea con Europa che dovrebbe emettere debito perpetuo ad hoc?
Attualmente il pil eurozona è 13mila miliardi di euro circa. Il recovery fund 1,5 miliardi. Quindi circa il 10% del pil. Come si finanzia? Trasferimenti dai paesi? No. Vorrebbe dire che ogni paese dovrebbe conferire il 10% del proprio pil. Allora si sottintende emissioni di debito (cioè che il bilancio comunitario venga innalzato a 2 punti di pil e quella cosa serva da garanzia del debito europeo per poi distribuirlo secondo necessità anziché secondo quanto hanno contribuito, non varrebbe la capital key, come già accade per i fondi strutturali, la Polonia prende più di quanto contribuisce). Torniamo fedeli al mandato originario. Sosteniamo chi è più debole per preservare il mandato comune.
Il rischio è che quei 1.5 miliardi siano pluriennali e a quel punto è gioco delle tre carte. Sosteniamo l’economia con fantamiliardi spalmati in cento anni?
È la fine della globalizzazione? O è l’inizio di un secondo tempo di una globalizzazion più coordinata? Il rischio di autarchi c’è ma la capacità di produrre è enormemente integrata a livello internazionale. I processi produttivi avanzati sono tutti non contenuti in un solo paese. Da new economy a software ad auto. Disintegrare le catene del valore internazionale è difficile. Però la globalizzazione sarà più regolata e vi si infileranno i vari protezionisti del mondo. Il nostro modo di produrre è cambiato: produrre insieme è anche un modo di stabilizzare il mondo. Il nostro modo di vivere è cambiato: viaggiamo di più, viaggiare o andare all’estero negli anni 80 erano vero lusso o comunque un’eccezione (al limite per fricchetonismo). Oggi il viaggio all’estero
è un bene di consumo generalizzato, massificato. Disintegrare quel mercato quando l’emergenza sanitaria finirà (non è che oggi ci preoccupiamo della Spagnola). Sarà una nuova globalizzazione, più complessa.
Oggi diventa impensabile riposizionare in Italia tutta la filiera produttiva. Genera un problema di costi, investimenti, ottenimento del prodotto finale. Esiste un problema di risk management di filiera produttiva concentrata in un solo posto. Come è avvenuto nel mobile, con le produzioni spostate in medio oriente. Ci sarà allora forse una diversificazione delle filiere produttive e in parte riprendendo anche parti di produzione interna. Funziona comunque se non vincono le barriere protezionistiche.