Roberto rimise i piedi fuori dall’ufficio ed estrasse le sue armi. Dalla tasca destra tirò fuori l’iphone e da quella sinistra il kindle. Muoveva gli occhi come se stesse facendo rimbalzare una pallina tra due racchette da ping pong, continuando così fino alla fermata dell’autobus.
Salito sul 14, scorse la lista dei libri. Ripensò che una volta ne portava anche dieci in uno zaino e, almeno ad evitare questa fatica, il kindle era servito. Maupassant no perché avrebbe letto solo lui. Cechov no perché lo aveva letto la mattina. Benni no perché non aveva voglia di ridere. Il libro di macroeconomia no perché voleva anche prendere appunti. Mentre era intento a non scegliere e l’autobus aveva superato l’ingorgo tipico di Viale Morgagni, uno di quegli incolonnamenti che un giorno remoto verranno studiati dagli scienziati per comprendere il comportamento degli uomini del XXI secolo, iniziò il coro delle telefoniste. Sentì parlare in slavo e in una qualche lingua sudamericana. Come al solito c’era chi aveva scambiato il bus per una cabina telefonica. Rinunciò a leggere e si disse che imparare altre lingue poteva essere utile per capire di cosa parlavano quelle persone e costruirci delle storie. Come quando aveva ascoltato la conversazione tra quel ragazzo e quella ragazza in cui lui le spiegava le ricette, lei diceva che doveva farsi perdonare dal suo ragazzo e probabilmente c’era un feeling tra loro due, o almeno per uno dei due. Oppure come quando osservava le persone, ascoltandole, descrivendo cosa succedeva e annotando le cose sull’iphone in modo, poi, da poterne riscrivere. Cosa che non faceva mai, in realtà, ma saltiamo questo dettaglio. Aveva duemiladodici note sull’iphone e inoltre aveva riportato dieci anni di appunti nel computer.
Arrivato alla stazione si alzò per scendere e passare alla Feltrinelli, ma un attimo prima di uscire ci ripensò e tornò indietro. Con questa mossa abile aveva conquistato un posto nella giostra di Quattordiciland: lui sospeso a mezz’aria tra le trattenute e le spinte delle altre persone fino alla fermata di Varlungo, in cui si scaraventò da solo fuori e, per farlo, stabilì il record stagionale di persone abbattute dentro un pullman.
Entrò in casa e bastò aprire la porta. “Roberto?”
Corrada, la proprietaria della casa presso cui lui era in affitto lo chiamò per salutarlo. “Hai chiuso l’ascensore? Fai vedere, ché quelli di sotto se no protestano”.
“Sì, è chiuso”.
“No, no. Fai vedere. Bene. Sai, se no qua come fanno?”.
La voce di lei, le sue domande, le sue espressioni erano come uno di quei suoni che si ripetono quotidianamente e a cui, quindi, ti abitui finché vai da un’altra parte o succede qualcosa per cui loro spariscono e sembra che sia scomparso qualcosa di te.
Era come il treno che sentiva passare da camera sua, come il canto degli uccelli nella sua casa in Casentino.
Andò in bagno. Lesse la scritta che gli ricordava di non stringere con troppa forza i rubinetti e notò che era stata sostituita la frase :”li cambio a anno novo”, con quella:”li cambio quando l’idraulico è disponibile”. Roberto sorrise. Intanto guardava le ultime notizie su facebook.
Pensava che la proprietaria si fosse appostata come un avvoltoio tra la porta del bagno e quella della camera. Invece non c’era, per quanto la sentisse parlare, e quindi riuscì a nascondersi in camera, con un balzo verso destra.
Non poteva durare.
“Roberto? Dicevo una cosa.”
“Possibile che non possa rientrare in casa e sdraiarmi sul letto in santa pace a riflettere un po’?” pensò dopo essere entrato in camera.
“Perché tieni la porta chiusa? Hai paura? Non devi avere paura delle donne. Che fai? Ti levi le lenti? Le levi o le metti?”
“Le levo”. Secondo te? Sto spalancando l’occhio e tirando la pelle dal lato esterno: è improbabile che la stia mettendo.
“Come fai?”. Guarda. Lui si mette gli occhiali e si siede sul letto.
“Non ti danno noia?”
“No.”
“Sono quelle usa e getta?”
“No.”
“Perché?”
“…” Roberto la guarda sconcertato e abbozza una risposta plausibile alle orecchie di lei:”Mi sono dovuto mettere quelle rigide all’età di dieci anni perché avrebbero potuto fermare la miopia”. Non poté dire più di “Mi sono.”
“Quanto vanno tenute?”
“Un po’.”
“La notte non le porti?”
“No”.
“Perché?”
Per i movimenti REM, pensò. Intanto Roberto aveva acceso il computer e aperto un file.
“Perché danno noia”
“Eh. Vanno levate, vero? Lo so”
“Cosa fai al computer? Fammi vedere. Guardi donne nude?” I suoi occhiali da presbite, enormi per la sua faccia stretta e aguzza, in linea con la sua stazza magra e alta (gli fa venire in mente una delle borghesi altezzose di Dickens) diventarono enormi. Nella mente di Roberto era come se la faccia di Patrizia fosse diventata una immensa lente da occhiale che si sarebbe gonfiata sempre più, come una gigantesca gomma da masticare, fino a riempire la sua camera e a schiacciarlo contro la parete, posizione cui era abituato in ufficio. Poi si riprese.
“Scrivo”.
“Cosa scrivi? Perché non fai il giornalista? Perché non fai lo scrittore? Io lo so cosa devi fare. Devi trovare una casa editrice. No?”. I suoi non erano dei semplici no, avevano la vocale molto allungata e molto aperta. Non poneva una domanda: faceva una prova di canto lirico mentre lo diceva.
“Perché non pubblichi un libro?”. Fece per uscire quando si voltò indietro: “Dicevo. Stamani non hai chiuso il rubinetto dell’acqua quando sei uscito. Ricordatene, eh. Poi vai a prendere i vestiti sul terrazzo, che se no si freddano.”
“Sì, ora vado.”
“No, vacci!”. Roberto notò l’incoerenza e comunque uscì sulla terrazza. Lei andò in cucina.
Lui prese i vestiti da corsa, che aveva messo ad asciugare la mattina e, con quelli in braccio si mise a contemplare il panorame e a osservare le case di fronte, immaginando cosa stessero facendo i loro abitanti.”
Non si accorse che la proprietaria era arrivata lì e, quando lo colpì alle spalle, si spaventò.
“Hai avuto paura? Non devi avere paura”. Avrebbe potuto chiederle quali erano i monti che si vedevano in lontananza puntando lo sguardo verso est. Gli piaceva anche vedere le macchine passare lungo via del Gignoro e i fari che illuminavano lo stadio di Coverciano.
“Quelli davanti ora non potrebbero costruire quella casa col tetto più alto del nostro” Robertò annuiva costantemente, tanto da sembrare uno di quei cagnolini giocattolo che muovono la testa su e giù una volta che si preme un pulsante. Pensò che avrebbe potuto contare il numero di volte in cui aveva sentito quei discorsi, come faceva quando era in stanza con la collega Luciana e faceva la statistica giornaliera di quante volte lei ripeteva espressioni come “vaffanculo”, “che palle”, “lo dico al direttore”. Avrebbe potuto scriverne come se si trattasse di una partita di basket. Vaffanculo ha iniziato la gara in netto vantaggio, ma il pomeriggio ha visto la grande rimonta di “che palle”, tallonato da “non ne posso più”.
Tossì e la mano di lei passò dall’appoggio alla pacca sulla spalla.
“Hai ancora la tosse? Vieni dentro! Non hai preso il msxcflin!. Ora te lo do io. Poi non ti copri. Ti sei messo il cappello? E la sciarpa? Dovevi metterli anche per venire qua fuori..”
Rientrarono in casa, proprio nella parte del corridoio che dà sulla porta d’ingresso e alla cui destra sta la cucina. Lui portò i vestiti in camera, li appoggiò sulla sedia di fronte al letto, spense il computer e si vestì per uscire.
“Roberto! Dicevo una cosa! Vieni qua. Non hai tirato bene giù l’avvolgibile”.
“No?”, Roberto era stupito.
“Guarda. Se no entra freddo. Poi devi tirare su la maniglia Devi avere più senso pratico. Io sono una tipa pratica. Tu pensi troppo ”Adesso lei aveva assunto un tono da mamma premurosa e affettuosa.
Ancora la tosse.
“Ora mi fai arrabbiare. Prendi l’aspirina.”
“L’ho presa”, mentì lui.
“M”. Lei non era convinta. Andò in camera sua, che si trova all’estremità opposta rispetto a quella di Roberto e accese la televisione.
“Ieri mi sono vista Criminal Mind. A me mi piacciono i gialli. Io potevo fare la criminologa. Sai. Anche te potresti. Tu sei un cervellone, lo so. Ho visto il tuo certificato di laurea.”. Lui pensò “Dio mi salvi dagli estroversi” e si chiese perché avesse messo le mani nella cartellina. Se la immaginò a indagare, forse sospettosa, e a scartabellare tra i fogli. Pensò che era così di natura e lasciò perdere.
Lui cercò rifugio in cucina, ma si accorse che c’era una tazza con una tisana, probabilmente la cena di lei per quella sera. Infatti la signora sbucò subito dalla porta, ricordandogli gli attivisti di Greenpeace France che avevano issato il cartello “Coucou” una volta entrati in una centrale nucleare che avrebbe dovuto essere blindata. Si emozionò a quel pensiero e gli venne voglia di telefonare a qualcuno dei suoi amici grinpisini, come li chiamava lui.
“Vai a cena fuori stasera?”,
“Sì, con quelli della corsa”
“Ah. Cosa mangiate? La pizza?”
“No”.
“Perché? Non vi piace?”
“…”
“Io invece mi faccio una tisana, che devo restare in forma.Dicevo. A correre non vai più? Quando c’è corri la vita?”
“A settembre”
“Ah. L’hai fatta?”
“Sì”.
“Anch’io sono sportiva. Cammino tutti i giorni. Tu invece corri solo la domenica e poi ti fai male”. Infatti aveva corso quella mattina, altrimenti perché aveva lasciato i panni fuori?
“Ho cor…”
“No. Anche il tuo istruttore lo dice di sicuro. Io lo so come si deve fare.”
“Ho corso stamani”.
“Non ti conveniva correre stasera? Non era freddo? Sai che ho un’amica che ha corso il passatore? Lei va a correre tutti i giorni”. Roberto pensò che avrebbe potuto rispondere :”Ma io non faccio le ultramaratone, ci sono allenamenti specifici per obiettivi diversi e sono qualitativamente differenti in base alla soglia anaerobica. Inoltre sto correndo quattro volte a settimana e seguo perfettamente la tabella dell’istruttore. Perchè voi gente comune parlate di cose che non sapete? È impossibile per voi stare in silenzio?”. Trattenne la rabbia, anche perché parlare equivaleva a sprecare il fiato.
Lei cambiò tono, mentre lui mangiava un mandarino, visto che all’ora della cena mancavano buone buone due ore, se non di più.
“Dicevo una cosa. In ufficio come va?”
“Bene.”
“Ci sono colleghe?”
“Sì”
“Anche donne?”
“Sì.”
“Ti piace qualcuna?”
“No.”
“Chi è il primario?”
“Ponzi”, Roberto disse un nome a caso. In realtà non c’era un primario, ma vari reparti e ciascuno aveva un responsabile. Lavorava in una casa di cura, non in un ospedale.
“E’ longilineo?”
“No.”
“E’ robusto?”
“Sì.”
Robertò appoggiò una bottiglia di olio sul tavolo della cucina, mentre la signora iniziò a bere la tisana.
“L’ olio sul tavolo non si mette. Lo sai che sono superstiziosa? Noi pesci siamo così. Dicevo: dov’è la cena?”
“A Settignano. Prendo il venti e…”
“Passi dal sottopassaggio? Stai attento: girare di notte è pericoloso.” Stare sempre chiusi in casa alimenta le paure, pensò Roberto, che poi si disse che per certe persone anche girare il mondo non serviva ad aprire la mente.
“ Senti che tosse!”, fu l’ultima frase sentita dall’uomo, prima di compiere un balzo degno di un quarterback per uscire dalla cucina, dirigersi verso la porta, ritrovarsi nel corridoio esterno e tuffarsi nell’ascensore dove emise un ennesimo colpo di tosse.