there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Roberto, la scrivania e la schiacciata.

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Quella mattina Roberto si incamminò verso l’ufficio con l’animo dei richiamati nell’esercito in tempo di guerra, anche se sapeva che il lavoro commissionatogli dal direttore amministrativo non gli avrebbe richiesto più di un’ora. Gli sarebbe bastato trovare un documento dentro la cartellina blu, aprire un foglio elettronico, impostare qualche formula, fare dei calcoli, predisporre e stampare un prospetto e presentarlo.
In seguito avrebbe potuto studiare il libro scaricato la sera prima da internet, scrivere il racconto dedicato agli amici maratoneti, programmare la sua vita futura ripensando a quella passata, stilare liste di cose da fare, scrivere lettere a persone che svolgono tutte le professioni che lui vorrebbe intraprendere, andare in bagno una volta all’ora restandoci un tempo compreso tra i nove e i quattordici minuti in modo da poter controllare sul telefonino gli ultimi aggiornamenti su Facebook e le nuove email ricevute.

Appena arrivato alla palazzina della casa di cura presso cui lavora e aver varcato la porta dell’ufficio, non ebbe nemmeno il tempo di assolvere ai formali saluti di rito che si bloccò. Cominciò a sudare freddo, si mise a rovistare nei cassetti, spostare gli oggetti, prelevare i contenitori, guardare sotto la scrivania, alzare ed abbassare la tastiera del computer, controllare il contenuto degli armadi, sentire la collega Barbara dirgli qualcosa, non considerarla e finalmente trovare quel foglio che cercava. Allora riprese colore, fece un sospiro ripensando ai suoi genitori che avevano l’abitudine di mettergli a posto i libri in ordine di altezza, si mise a sedere e contemplò quel disastro: la scrivania non era mai stata così deserta. Non c’era più quella struttura architettonica che avrebbe potuto vincere un premio ai concorsi per i migliori castelli di carte.
Erano scomparsi i fogli raccolti senza nessuna attinenza l’uno con l’altro, i contenitori di documenti, le cartelline, i sacchetti unti, le bottiglie d’acqua, i mazzi di chiavi, i libri, i lettori di cd, le buste di zucchero contenenti mandarini esposti all’attacco di qualsiasi batterio.
Perfino i fili del telefono e del mouse davano un’impressione di ordine anziché srotolarsi seguendo un percorso simile ad una pista di formula uno. Le penne, sia pure morsicate e senza tappo, erano allineate all’interno del porta penne insieme ad un tubetto di colla, una gomma da cancellare, un righello e alcuni post it. Il tampone per i timbri non era aperto, c’era il calendario del duemiladodici e non anche quelli dei tre anni precedenti. Inoltre la disposizione del monitor e della tastiera del computer dava un’idea di simmetria.

Vedendo la scrivania in queste condizioni, a Roberto venne in mente la frase di De André sulla pace terrificante, ma non disse niente. Introiettò tutta la rabbia per poi rivolgerla mentalmente contro i colpevoli di quello scempio, in attesa di completare l’opera nell’unico modo di cui era capace: scrivendone. Come una sorta di ricompensa per l’agitazione che aveva sofferto, decise di dedicare dieci minuti a scrivere qualche pezzo del suo racconto prima di iniziare il lavoro vero e proprio, mentre le sue colleghe stavano adempiendo al dovere quotidiano.

Era così immerso nella scrittura che non si rese conto di quando era iniziato il bombardamento.

“Hai preso la rincorsa?”, gli chiese la collega Lucia sentendolo battere sui tasti con velocità.
Le altre colleghe la seguirono a ruota.
Antonia: “Ma se fossimo noi a scrivere quello che fai?”
Barbara:“No. Piuttosto. Se noi non si facesse un cazzo come te e tu lavorassi per tutti?”
Lucia: “Che poi se lui facesse un lavorino a modo, sai quante cose potrebbe fare? Sarebbe utile. Invece è un elemento messo lì a prendere polvere. Eppure tutti quelli che sono stati per un po’ con noi hanno preso le nostre usanze. Si sono almeno convertiti al mangiare. Lui no! Bestiolina! Sembra un eremita.”
Roberto pensò che l’eremitaggio avrebbe potuto essere una buona idea e gli sfuggì un colpo di tosse.
Barbara:“Ecco! Sono due mesi che ha quella tosse. Sai cosa diceva la professoressa Sacchi? Prima o poi mi passerà…e ha preso la broncopolmonite! Perché non ti fai rivedere?”
“ E sai, non risponde! Mi urta proprio il sistema nervoso!”
“E poi: quanto vuoi tenerla quella busta gialla sotto la scrivania?” Le tirò un calcio.
“E’ vuota”, intervenne Antonia, che mentre andava a prendere un contenitore cercò di leggere cosa stesse scrivendo Roberto, ma lui fece in tempo a ridurre il file ad icona. “Non ti sopporto”, la sentì sussurrare.
“Appunto!”, ricominciò Barbara, andando ad aprire la finestra che dà sul cortile esterno. “Mi dà noia proprio per quello. Se non la levi, tu vedi lunedì che fine che fa. E non starnutire!”, urlò girandosi per guardarlo in faccia, “ché svegli il gatto, poverino!”

Una telefonata riportò tutti alla routine, ma proprio quando lui riuscì di nuovo a concentrarsi sul racconto, entrò Luciana, la collega dell’accettazione, con una teglia di schiacciata alla mortadella che aveva portato per fare uno spuntino di gruppo e che offrì a tutti..
“La vuoi?” chiese dunque a Roberto.
“No. E’ veleno!”.
“Ma via, su! Ma sei sempre a dieta? Ora ne prendi un po’. Forza!”.
Lui ne assaggiò un pezzo per evitare altre scocciature e non replicò che a parlare di dieta erano sempre loro. In ogni caso sarebbe stato fiato sprecato.
“Com’è? E’ buona, vero?”.
“mmm”, grugnì lui, alzando le spalle.
“Tu non vuoi affetto! Non ti piace, vero, che ti se ne dia? Non che io pensi che tu voglia darlo, eh, questo è impossibile. Sei una cacca, una cacchina putrida! Non mi venire mai a chiedere niente! Se un giorno vieni da me e mi dici “Luciana, dammi…”, non ti do nulla. Per me tu muori di fame! E Non mi tossire in faccia! Fai del bene alla gente e questa ti fa ammalare!”.
Robertò si limitò a sospirare, uno dei medici della struttura entrò in ufficio, accettò un pezzo di schiacciata e in breve tutti tornarono a fare i rispettivi lavori

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