there is no life b

Lo stupore delle prese elettriche

Viva la rule of law. Abbasso le regolamentazioni.

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Da “L’intelligenza del denaro” di Alberto Mingardi

IL MERCATO SREGOLATO NON ESISTE
“il mercato è una sorta di olimpiade perpetua: comprende le specialità più diverse e assegna premi e penalizzazioni. Non c’è gioco che abbia inizio senza un regolamento chiaramente definito. È possibile tirare calci a un pallone in perfetta solitudine: ma il fatto di farlo con altri, in una partita che si gioca fra squadre, non sarebbe possibile in assenza di alcune condizioni note a tutte. Dal punto di vista «macro», il mercato non inizia e non finisce, e non ha scopi suoi propri. Dal punto di vista «micro», ogni scambio avviene nel tempo e nello spazio, e chi decide d’intraprenderlo ha le sue motivazioni.

In ogni transazione si cede qualcosa per avere qualcosa. Scambiamo perché la nostra vita è immensamente migliore scambiando, di quanto lo sarebbe se non lo facessimo. L’ambizione dell’autosufficienza è tipica della povertà. Nessuno è in grado di sopperire autonomamente a tutte le proprie esigenze e a tutti i propri desideri. Le regole consentono i comportamenti «micro», che vanno a comporre il puzzle «macro». La definizione più semplice e lineare che possiamo dare del processo di mercato è che esso è un processo di scoperta che avviene in condizione di rivalità.
Gli agenti economici sono indipendenti l’uno dall’altro (liberi) e in concorrenza, in un contesto di scarsità: cercano di accaparrarsi una certa risorsa, per esempio, nella piena consapevolezza che essa non può essere ubiqua (se X ne fa uso in un certo momento, rende impossibile a Y fare lo stesso). Il fatto che beni capitali, collaboratori e consumatori siano scarsi, accende la gara competitiva. Rende necessaria quell’asta perenne che è un libero mercato. Gli attori economici hanno continuamente a che fare con l’incertezza. Le immagini nel caleidoscopio mutano di continuo. Gli attori di mercato, imprese e imprenditori in primo luogo, hanno bisogno che almeno le regole del gioco siano stabili e ferme nel tempo. Essi prendono già su di sé il peso dell’incertezza circa la bontà delle proprie scelte: possono provare ad anticipare il futuro, non prevederlo. Ma ciò è possibile se le regole del gioco consentono loro almeno di non essere incerti su alcuni fatti basilari: per esempio, che uno scambio possa, effettivamente, avvenire. Perché gli scambi avvengano è di fondamentale importanza che le persone siano ragionevolmente sicure che ciò che hanno scambiato sarà loro, a scambio concluso. La stabilità dei possessi è il cuore della vita associativa.
E’ unendo le forze, suddividendo e specializzando il lavoro, ripartendo i rischi, che troviamo uno strumento collettivo che ci consente di provare a raggiungere le nostre ambizioni individuali.
Stare insieme e scambiare ci conviene perché il mercato siamo noi.
“All’asta perenne del mercato le risorse vengano attribuite a quanti sono disponibili a pagare di più per esse, segnalando in tal modo che credono di essere in grado di farne un uso più produttivo. Una società in cui si scambia è una società mobile: i beni non passano di mano solo in società rigidamente divise in caste, dove ciascuno ha assegnato dalla nascita il loculo o il palazzo in cui dovrà rassegnarsi a vivere. Quando ciascuno dispone di poche o tante cose sue, che può mettere in gioco per scegliere quali beni o risorse acquistare, e quando ciascuno è considerato una risorsa che può farsi scegliere liberamente nei rapporti di lavoro e collaborazione che intrattiene con altri, viviamo in una società libera. Perché tutti possano godere del più ampio grado di libertà, la libertà di ciascuno deve essere egualmente limitata. Ad aiutarci a comprendere dove finisce la libertà dell’uno e dove incomincia la libertà dell’altro, è precisamente l’esistenza della proprietà. Io sono libero di distruggere un campo coltivato – se vanto su di esso un titolo di proprietà legittimo. E, simmetricamente, non sono libero di imporre il ricorso a nuove tecniche di coltivazione che migliorerebbero la resa del suo appezzamento al mio vicino di casa, anche se fosse «per il suo bene». La proprietà definisce un ambito che le donne e gli uomini possono trattare alla stregua del proprio corpo. Noi mettiamo sovente il nostro corpo a disposizione degli altri: il mezzadro presta le braccia, il pianista le mani, il fisico la materia grigia. Ma una cosa è farlo volontariamente, in un rapporto di cooperazione. Altra vederselo imporre. C’è differenza tra fare volontariato due ore a settimana e dover sottostare a un anno di servizio di leva. In un libero mercato, sono i detentori delle risorse a decidere cosa farne. Hanno accordi con il loro prossimo: non subiscono ordini.

RULE OF LAW
La certezza del diritto è il singolo fattore più importante perché il processo di mercato possa avere luogo. Luigi Einaudi rese l’idea con un’immagine celeberrima: Tutti coloro che vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe avere luogo se, oltre ai banchi dei venditori, i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario e il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno in fiera17. In che cosa consiste la certezza del diritto? La stabilità dei possessi e la tutela degli scambi volontari (la libertà contrattuale) sono i due pilastri che garantiscono la libertà di scegliere e la libertà di farsi scegliere da parte delle persone. Non basta che queste due regole siano enunciate. Devono essere osservate: vuoi perché gli individui che compongono una certa società fanno mostra di comprenderle e accettarle, vuoi perché i carabinieri a bordo della piazza sembrano in grado, alla bisogna, di farsi valere.
Per venire alle prese con tali problemi, ogni tanto le persone si impegnano contrattualmente: ma, soprattutto, hanno a disposizione una storia di usi, di pratiche, di «tentativi» di far funzionare le cose già sperimentati in passato, che riesce a ridurre l’incertezza. Immaginando la sua fiera di paese (il suo «mercato»), Luigi Einaudi raccontava di una pluralità di soggetti che stanno ai margini della piazza. La certezza del diritto, che essi assicurano consentendo a mercanti e compratori di iniziare i propri traffici, è un oggetto un po’ più complicato del suo epifenomeno con cui spesso viene confusa: il fatto, cioè, che esistano codici scritti e liberamente consultabili da quanti vi sono sottoposti. Bruno Leoni suggeriva di distinguere fra una certezza del diritto a breve termine e una a lungo termine. È quest’ultima che davvero è necessaria a un ordine fondato sulla libertà. Nelle società contemporanee, «la legislazione è quasi sempre certa, cioè precisa e riconoscibile, finché è “in vigore”, ma non si può mai essere certi che la legislazione in vigore oggi sarà in vigore domani».

Questo è un problema: non basta che una norma sia scritta e pubblicata, perché vi sia certezza del diritto, se un parlamento o un’autorità amministrativa possono riscriverla a piacimento. Leoni suggeriva di tornare a un’idea di certezza del diritto che egli riconduceva ai romani, per cui «il diritto non doveva mai essere soggetto a cambiamenti improvvisi e imprevedibili. In più, il diritto non doveva mai essere subordinato alla volontà o al potere arbitrario di qualsiasi assemblea legislativa o di qualsiasi persona, compresi i senatori e gli altri magistrati. Quando il diritto viene dal passato, ed è stato «ruminato» in una pluralità di esperienze, ha un grosso pregio: perde nome e cognome. Il diritto che serve a un’economia di mercato, per guadagnare in certezza, deve essere anonimo e impersonale. Anonime e impersonali sono quelle convenzioni che hanno vinto la sfida del tempo e che sono seguite e rispettate non tanto e non necessariamente perché sono state messe nero su bianco in un regolamento scritto, ma per abitudine e convenienza.

Non è per la riverenza che ci ispira il codice della strada che guidiamo tenendo la destra. Anziché parlare di «certezza del diritto», gli anglosassoni sono affezionati a un’espressione rivelatrice: rule of law, regola della legge. Spesso rule of law si traduce con Stato di diritto, ma, non troppo curiosamente, della parola «Stato» nell’inglese non c’è traccia – perché la regola del diritto si riferisce a un’esperienza più vasta di quella particolare agenzia, lo Stato appunto, cui siamo soliti ricondurre l’applicazione delle norme. La più chiara e suggestiva spiegazione di che cosa sia la rule of law si deve a uno dei massimi filosofi britannici del secolo passato, Michael Oakeshott: la nostra esperienza ci ha rivelato un metodo di governo in grado di fare un uso considerevolmente parco del potere e che, di conseguenza, è particolarmente idoneo a preservare la libertà: si chiama rule of law. Se l’attività del nostro governo consistesse in intrusioni, continue o sporadiche, nella vita e nell’organizzazione della nostra società, intrusioni attuate per il tramite di arbitrarie misure correttive, non potremmo più ritenerci liberi […]. Ma un governo improntato alla rule of law (ossia, per mezzo dell’applicazione con metodi legalmente prescritti di regole consolidate che vincolino in pari misura governanti e governati), pur non risultando più debole, rappresenta il simbolo stesso di quella diffusione del potere che esso è stato costituito per favorire ed è pertanto particolarmente idoneo a una società libera.
La rule of law è parca nell’utilizzo del potere, esclude interventi discrezionali, rispetta il modo in cui la società si organizza da sé, non ammette differenze di trattamento fra chi governa e chi deve obbedire. Definisce, piuttosto, la cornice all’interno della quale avranno luogo le relazioni sociali. L’ha spiegato con chiarezza Mauro Grondona: «È alle regole estraneo uno scopo particolare; al contrario, il loro scopo è astratto, dirette come sono non a prescrivere specifiche modalità di azione agli individui, ma a permettere che questi ultimi agiscano»21. Le norme di cui ha bisogno un mercato libero sono regole del gioco: non devono essere modificabili, a piacere, dall’arbitro. Non tutti gli arbitri interventisti hanno una moglie un po’ libertina: può anche darsi che l’arbitro abbia le migliori delle intenzioni, che cerchi di dare risposta a un problema che ha visto emergere nel corso della partita. Ma che partita sarebbe, quella in cui l’arbitro può tranquillamente modificare i regolamenti mentre i giocatori sono in campo? Sarebbe una partita nella quale le squadre, piuttosto che investire denaro per contendersi gli atleti migliori, spenderebbero quattrini per disputarsi il favore dell’arbitro. L’alertness dell’imprenditore diventa la prontezza di scoprire un prezzo solo: quello di chi fa le regole.

 

REGOLE O REGOLAMENTAZIONI

Mercato o regole? Nella discussione comune, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2007-2008, l’una cosa e l’altra appaiono inevitabilmente in tensione. La libertà di mercato «è una volpe sguinzagliata nel pollaio» (Che Guevara). Il mondo sembra destinato a spaccarsi in due: da una parte, forze minoritarie, ma vocianti, che del mercato vorrebbero fare a meno del tutto.
Parole che nel secolo passato sono state potenti calamite di consenso (socialismo, comunismo) non vengono più utilizzate per pudore, ma la sostanza è la stessa. Dall’altra, quelli che passano come i sostenitori «socialmente accettabili» del mercato, i favorevoli al mercato «ma». Ma che sia un mercato ben temperato: regolamentato, normato, sorvegliato da apposite agenzie, deputate a rendere fair il gioco economico. L’economia di mercato è considerata alla stregua di un potente composto chimico, necessario per consentire la creazione di ricchezza a vantaggio di tutta la società: però instabile, perennemente a rischio di causare un’esplosione. Le regole servirebbero, pertanto, non per definire i confini del campo di gioco nel quale gli attori economici possono provare a perseguire ciascuno i propri scopi, ma a canalizzare la reazione chimica nella direzione più opportuna: a cambiare gli obiettivi che perseguono. Non si tratta più di norme che, come le regole degli scacchi, sono indispensabili perché i giocatori possano cominciare a spostare le pedine sulla scacchiera: non sono regole del gioco. Sono piuttosto norme che vanno a disciplinare, a indirizzare, attività che esistono indipendentemente da esse: e che mirano a condizionarne gli esiti. Più che di regole, in questo caso è opportuno parlare di regolamentazioni. Le regole, come abbiamo visto, sono astratte, generalmente applicabili, senza nome né cognome. Si tratta di norme che condizionano l’agire degli attori economici indipendentemente da quello che fanno. Le regolamentazioni, al contrario, sono specifiche, ritagliate addosso a un singolo settore industriale. Come farebbero, altrimenti, a influenzarne lo sviluppo efficacemente? Se osserviamo l’esito del processo di mercato con umiltà, possiamo accontentarci di regole uniformemente applicabili. Faites vos jeux. Se invece abbiamo a priori un’idea della forma che deve assumere un certo mercato, dei prodotti che le imprese che lo abitano «devono» realizzare, e se pensiamo che ci sia un esito della gara competitiva buono e altri che non lo sono, necessariamente dovremo produrre regole particolari, specifiche: «regolamentazioni». Queste norme potranno essere emanate dai parlamenti – oppure da autorità ad hoc, ciascuna delle quali tipicamente specializzata nel presidiare un certo ambito della vita economica. Quest’ultimo caso è sempre più frequente. Più le norme diventano specifiche, e maggiore è la conoscenza tecnica necessaria per scriverle e farle rispettare. È naturale, pertanto, che questo lavoro venga demandato a organismi specializzati.

QUANDO LE REGOLAMENTAZIONI SONO INEVITABILI
Ci sono casi nei quali il ricorso ad autorità di regolamentazione è inevitabile. Immaginate di vivere in un paese nel quale la rete telefonica è stata costruita da un’impresa che era proprietà dello Stato e operava in regime di monopolio. A un certo punto, e per fortuna, quell’impresa viene privatizzata e, attraverso una «liberalizzazione», si cercano di attirare nuovi concorrenti: per avere più imprese che provano a fornire servizi di telefonia, con un’offerta diversificata, innovazione imprenditoriale e, auspicabilmente, facendosi concorrenza anche sul prezzo. La rete telefonica rappresenta un’infrastruttura fondamentale per chiunque voglia fornire quel genere di servizi. È difficile costruire una rete concorrente, non solo perché la spesa sarebbe ingente, ma soprattutto perché i fili del telefono raggiungono le famiglie sulla porta di casa, sono stati inseriti in appositi alloggiamenti quando venivano progettati i condomini, la scarsità più seria è quella degli spazi. Chiunque volesse costruire una rete alternativa, dovrebbe negoziare con ogni proprietario di un qualsiasi stabile il diritto a devastarlo per far ripassare i suoi cavi – pena il non poter servire i consumatori potenziali. In una situazione simile, è ragionevole che, chi ha costruito la rete e ora vende l’impresa che ne è proprietaria, lo Stato, tenga per sé il diritto di indirizzare l’accesso alla medesima. Provate a pensare all’ipotesi opposta: apertura alla concorrenza sì, ma solo «su gentile concessione» del proprietario dell’infrastruttura. Se ci sono due aziende ferroviarie in un paese, e i binari appartengono a una di queste, che li ha costruiti coi denari del contribuente, l’altra viene di fatto lasciata in balia delle sue bizze. Il ricorso a norme specifiche pensate per «stimolare» la competizione è pressoché inevitabile in tutte le transizioni, da un monopolio statale a un contesto competitivo. È inevitabile, in questi casi, che la competizione venga stimolata artificialmente, «in serra».
Liberalizzare dopo aver nazionalizzato è una decisione politica, e costringe al mai facile tentativo di immaginare un mercato dove non c’è.

LE REGOLAMENTAZIONI LIMITANO LE LIBERTA’
Concentriamoci adesso sul caso delle regolamentazioni che vengono calate su un mercato che esiste già, con l’obiettivo di correggere scambi che già avvengono.
I sostenitori della regolamentazione hanno sempre motivi nobili: il più frequente è la necessità di «tutelare i consumatori». L’argomento di base è più o meno questo. Per un consumatore, l’acquisto di un singolo bene è un atto come tanti. Corrisponde a un suo desiderio o a un suo bisogno, ma la signora che deve comprare un set di coltelli da cucina raramente affronterà uno studio della forma e delle modalità di affilatura prima di procedere all’acquisto, molto probabilmente non ha una conoscenza granché approfondita delle colle utilizzate per fissare la lama nel manico, non è detto che abbia opinioni definitive su quali materiali rendano più salda l’impugnatura. Al contrario, chi sta sul lato dell’offerta si è posto tutti questi problemi, ma le risposte che si è dato, se servono a ordinare i fattori della produzione con l’obiettivo di «massimizzare i suoi profitti», non è detto vadano anche nell’interesse del consumatore. Il quale, ignorante com’è, sarebbe facile preda di produttori con pochi scrupoli. Di qui la necessità di proteggerlo: costringendo il produttore a sciorinare tutte le informazioni a sua disposizione, oppure obbligandolo a utilizzare alcuni materiali piuttosto che altri e alcune procedure di produzione piuttosto che altre. Ragionare così significa presumere: – che il consumatore non sia in grado di «leggere» il mercato attraverso il sistema dei prezzi; – che il regolatore sia in grado di definire quali sono le informazioni salienti, oltre al prezzo, di cui il consumatore ha bisogno per fare una scelta informata (ma che curiosamente, a quanto pare, quest’ultimo non pretende di suo); – che il modo sicuro e corretto per realizzare un certo prodotto o servizio sia definibile a tavolino, sulla base delle informazioni disponibili, da parte di un ente che pure non è direttamente interessato alla sua produzione. È evidente che tutti coloro che comprano e vendono un qualsiasi bene non hanno a disposizione esattamente le medesime informazioni. Ma la «magia» del libero mercato è che non è per nulla necessario che sia così. Tanto più un mercato è ramificato e complesso, e tanto più ciascuno di noi può servirsi delle competenze sviluppate da altri. Per sottoscrivere un contratto con una compagnia elettrica non dobbiamo esserci laureati in ingegneria elettrica. Per utilizzare un iPhone non dobbiamo studiare informatica. Per mangiare della carne non c’è bisogno di avere un’idea precisissima dell’anatomia del vitello. Sono proprio queste asimmetrie che ci portano a scambiare. I nostri scambi sono orientati dal sistema dei prezzi, perché i prezzi ci consegnano, sinteticamente, le informazioni di cui abbiamo bisogno. Il mercato ci consente di fare economia della conoscenza. Non devo aver già assaggiato tutti i vini che sono nella carta di un ristorante per nutrire aspettative diverse su una bottiglia che costa quindici euro rispetto a una che ne costa quarantacinque. Quando si pone in essere una determinata regolamentazione, si assume che ci siano dettagli che al consumatore sfuggono e che non vengono correttamente rappresentati dal prezzo. In un caso del genere, si fa sostanzialmente un atto di fede nel regolatore. Perché, non appena certi dettagli diventassero rilevanti per il consumatore, essi verrebbero riflessi nei prezzi. Quando qualcosa diventa rilevante per il consumatore (l’aria condizionata di serie), si sviluppa una disponibilità a pagare. Non è così pacifico che il regolatore faccia bene a ritenere determinate cose importanti, e invece la signora Maria sbagli a trascurarle. Magari, nelle circostanze concrete in cui la signora Maria deve utilizzare il suo set di coltelli da cucina, importanti non lo sono affatto. E quasi certamente non lo diventeranno, se il consumatore assume che stia ad altri farci attenzione. Orientando in un modo piuttosto che in un altro i processi produttivi, proibendo o consentendo l’uso di determinati materiali, la regolamentazione sottrae al consumatore l’onere di farsi un’idea, e di modificare di conseguenza le sue aspettative. Parrebbe un’operazione innocua, ma diminuisce l’incentivo del consumatore a essere attento rispetto al bene o al servizio che sta acquistando.
È ragionevole che qualcuno si proponga per livellare l’asimmetria d’informazione fra le due parti coinvolte in uno scambio. Quando facciamo un’offerta su eBay, la prima cosa che guardiamo sono i feedback incassati da un venditore. In questo modo, la casa d’aste ci presenta sinteticamente la sua storia, dandoci un’idea del grado di soddisfazione dei suoi acquirenti precedenti. Lo stesso avviene quando, passeggiando per il centro della città, vediamo un ristorante pieno e un altro vuoto. Il colpo d’occhio non ci rivela immediatamente perché i consumatori preferiscano l’uno piuttosto che l’altro, ma ci dice quale dei due ottiene il maggior gradimento.
Esistono molti ambiti nei quali non ci bastano le informazioni veicolate dai prezzi. Prima di comprare un’auto nuova andiamo a leggere riviste e siti di settore. Se le decisioni di acquisto sono percepite come importanti, il compratore non si accontenta della prima impressione. Questo crea una domanda per servizi che offrono il punto di vista degli esperti («Quattroruote») o che consentono alle persone di condividere direttamente le loro esperienze (TripAdvisor).
Sono tante le situazioni in cui cerchiamo il conforto della parola di un esperto – e anche per gli esperti c’è mercato. I più abili esprimono le loro valutazioni in forma di voto, o con un punteggio percentuale: perché siamo abituati a cercare e leggere indicatori sintetici, per l’appunto a cominciare dai prezzi. Gli economisti temono il monopolio, perché il monopolista tende a limitare artificialmente la produzione per esigere prezzi più alti. Il proprietario dell’unico pozzo nel deserto, se l’immaginiamo spietatamente calcolatore, centellinerà l’acqua ai viandanti assetati, e si farà pagare cifre sproporzionate per ogni bicchiere. Perché allora dovremmo riconoscere il monopolio della conoscenza, a cuor leggero, al regolatore di un certo settore? In un mercato libero non solo la conoscenza è dispersa, ma viene continuamente prodotta attraverso gli scambi. L’imprenditore prova ad anticipare le aspettative dei consumatori, ma non è sicuro di aver avuto ragione finché non si sottopone al loro giudizio. I suoi avversari, nella gara competitiva, interpretano a modo loro la situazione di mercato, offrendo qualcosa di diverso. Nuovi concorrenti si fanno avanti, se immaginano ci sia una domanda inespressa. Regolamentare significa, inevitabilmente, frenare questo processo, perché si riducono gli spazi lasciati allo scambio, gli spazi cioè in cui si potrebbe produrre nuova conoscenza. Se è un regolatore ad arrogarsi il monopolio della certificazione, della bollinatura di ciò che è buono e ciò che non lo è, chi vorrebbe offrire quel servizio non ha più spazi.

LA REGOLAMENTAZIONE E’ LA PROSECUZIONE DELLA POLITICA INDUSTRIALE CON ALTRI MEZZI
Le authority hanno una missione che è stata determinata dall’iniziativa politica: tutelare i consumatori, ripulire l’aria delle città dalle polveri sottili, sorvegliare la trasparenza negli appalti pubblici o la sicurezza dei farmaci eccetera. Le scelte delle autorità di regolazione non hanno per esito diretto, come possono avere le decisioni di spesa dei parlamenti, tasse più alte per i cittadini. Piuttosto, interferendo con il sistema di mercato, «inquinano» il sistema dei prezzi: possono far lievitare i costi di un certo servizio o di un certo prodotto, possono diminuire le opportunità d’impiego per i detentori di una certa risorsa, possono perfino indurre gli operatori di mercato a sbagliare di più di quanto avverrebbe se i prezzi fossero «puliti», liberi da interferenze. Ma raramente il cittadino comune, che paga le tasse e va a votare, sarà in grado di ricondurre chiaramente un certo problema alle attività dei regolatori. Queste attività restano nella penombra, misteri iniziatici penetrabili da pochi, note soltanto a chi le esegue, a chi le subisce, e agli avvocati di chi le subisce. Avere a che fare con una controparte strutturata, che gode del potere legale di emendare l’esito della gara competitiva, è per le aziende regolamentate un’opportunità. Se le squadre sanno che l’arbitro può cambiare le regole del gioco, investiranno un po’ meno dei propri soldi in un nuovo centravanti e ne spenderanno invece per «parlare» con l’arbitro. Ciò che più conta, per un’impresa regolata, è tenere aperto un canale con chi decide le regole con le quali giocherà: far sentire i propri argomenti, presentare il proprio punto di vista. A un certo punto, sull’introdurre o meno una certa norma o sul modo in cui essa deve essere applicata, piuttosto che sulla modalità in cui deve essere tarata una sanzione, le posizioni del regolatore finiscono per collimare con quelle di una certa azienda. Questo è inevitabile, perché la regolamentazione è una reazione al fatto che il mercato non ha uno scopo, non ha un principio ordinatore. Chi regolamenta impone al gioco economico un fine altro, un obiettivo sociale a esso esterno e, a suo modo di vedere, superiore. Maggiori sono i poteri del regolatore e maggiori saranno gli sforzi delle imprese regolamentate per portarlo dalla propria, per il principio per cui è meglio dar da mangiare a un coccodrillo che farsi sbranare.

La regolamentazione è la prosecuzione della politica industriale con altri mezzi. Lo Stato imprenditore sostituisce alla prontezza imprenditoriale la mentalità burocratica e per lucrare profitti «a prescindere» dalla sua capacità di avere successo si garantisce il diritto di agire in monopolio. Così facevano la televisione di Stato, la compagnia telefonica di Stato, la compagnia elettrica di Stato. Lo Stato regolatore chiude alla prontezza imprenditoriale tutta una serie di porte, per costringerla a un catalogo di comportamenti predeterminato. Così facendo limita il raggio dell’innovazione. L’innovazione non riguarda solo l’invenzione di nuovi prodotti o servizi, ma anche la scoperta di modi nuovi per realizzare, reclamizzare, migliorare prodotti o servizi già esistenti. La regolamentazione si sostituisce al mercato nel passare al vaglio le innovazioni, apre la porta ad alcune, la chiude ad altre. Ciò crea incertezza. Proprio il fatto che le norme possano cambiare di continuo, che l’arbitro possa entrare in campo, contribuisce a deteriorare la certezza del diritto e limita l’impulso degli innovatori: non sia mai che un certo cambiamento non sia gradito al regolatore.

Il premio Nobel George Stigler, grande studioso di questi temi, ipotizzò che «ogni comparto produttivo o ogni professione che abbia sufficiente potere politico per utilizzare lo Stato cercherà di controllare l’entrata [dei concorrenti nel mercato]. […] molto spesso la regolamentazione verrà architettata in modo tale da ritardare le possibilità di crescita delle nuove imprese». In altre parole, la regolamentazione è fatta e pensata per chi c’è già: per le imprese che già operano in un certo mercato in un certo momento. Non può, in tutta evidenza, immaginare il modo e le ragioni per cui altri operatori vi entreranno, le intuizioni sulla base delle quali si muoveranno, i cambiamenti che porranno in essere. È ritagliata sugli insider, per i quali – siano punitive o protettive le intenzioni di chi regolamenta – è stata scritta. Questo ovviamente può accadere sia nel caso in cui una particolare norma sia il prodotto di un’autorità di regolazione, sia nel caso essa sortisca da un’iniziativa parlamentare. In Italia, nell’estate 2011 il parlamento ha votato una legge che regolamenta gli sconti massimi praticabili al compratore da librerie ed editori che fanno vendite dirette. In quel caso, la scelta politica era chiara: proteggere «chi c’era», le piccole librerie, dalla cannibalizzazione di internet e, in particolare, di un outsider con nome e cognome, Amazon, che, essendo appena arrivato sul mercato italiano, cercava di conquistare consumatori con sconti roboanti.
Amazon, però, garantisce al consumatore di poter comprare virtualmente qualsiasi volume in commercio, con tempi di recapito certi e sconti consistenti. Amazon, paradossalmente, ha fatto la fortuna dei piccoli librai. Questo colosso, infatti, per essere sicuro di soddisfare le domande più diverse, ha aperto le porte alle librerie che vogliono usare i suoi circuiti di vendita – andando ad avvicinare la domanda dei consumatori con una gigantesca rete di negozi di libri usati. Sono cambiate le condizioni esterne, e imprese che parevano destinate a passare la mano solo una decina di anni fa oggi si scoprono «adatte» al nuovo contesto competitivo. Questa scoperta non si deve a un attento regolatore, ma alle innovazioni prodottesi nel processo di mercato. È prassi comune, nel dibattito pubblico, invocare interventi esterni per «emendare» gli esiti di un certo mercato. Le situazioni cambiano e così le aziende attrezzate per sopravvivere e prosperare: questo è un mercato libero. Una regolamentazione che fissi arbitrariamente un tetto massimo agli sconti non può migliorare il processo di mercato: può rendere più agevole o più difficile la vita di alcuni singoli operatori, in un determinato contesto. Può stroncarne o sorreggerne alcuni: quelli che, nell’opinione di chi costruisce le norme, «meritano» il successo o una punizione.
Un mercato è un ecosistema «robusto» nel momento in cui riesce a imparare dallo spreco e dall’errore: perché ciò possa avvenire, chi ne fa parte deve poter provare, sbagliare, eventualmente fallire. È l’ambiente che determina quali saranno le mutazioni di successo. Se le mutazioni sono indotte, non siamo più in un ecosistema: siamo in una serra. Dove basta un errore del giardiniere per sterminare un’intera generazione di piante.

 

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