Da Cottarelli e De Nicola: “Dieci comandamenti per l’economia italiana”
Si parla di spesa delle amministrazioni pubbliche (amministrazione centrale, enti previdenziali, regioni, province, comuni, enti pubblici). Non si comprendono le imprse pubbliche, dalle ferrovie alle municipalizzate. Si tratta di spesa al netto degli interessi.
Nel 2017 la spesa pubblica è stata pari a 828 miliardi, il 48% del pil. 762 miliardi erano la spesa primaria.
Fino al 2009 la spesa è cresciuta sia in euro a prezzi correnti che in euro al netto dell’inflazione.
Il governo aumentò la spesa primaria, inclusi aumenti elevati nella spesa per retribuzioni dei dipendenti pubblici, nel periodo tra il 2001 e il 2006. Nel biennio successivo influì il calo del pil e durante i periodi di recessione è opportuno non tagliare la spesa. In tutto il periodo il calo dei tassi di interesse garantì la riduzione della spesa per interessi.
Nel periodo tra il 2010 e il 2012 si rende necessario aggiustare la spesa pubblica perché la caduta del pil non si sarebbe recuperata rapidamente e quindi bisognava adeguare la spesa alle minori risorse disponibili, perché il nuovo calo del pil nel 2011 riduceva le entrate, perché l’aumento dello spread sui titoli rendeva più difficile prendere a prestito.
A partire dal 2010 la spesa primaria si stabilizza in termini di euro, si riduce in termini reali, scende rispetto al pil.
Dopo il 2012 la spesa aumenta a un tasso inferiore all’1% in termini nominali e accelera dopo il 2017.
La spesa dgli enti previdenziali cresce sempre per l’indicizzazione del reddito pensionistico ai prezzi e perché il numero dei pensionati non si è ridotto, mentre quello dei lavoratori sì.
Il resto della spesa primaria, sanità esclusa, è sceso del 14,7% tra il 2010 e il 2017 per poi risalire.
La spesa per investimenti fissi lordi è scesa, al netto dell’inflazione, del 42% circa, tra il 2010 e il 2017.
La riduzione della spesa non è derivata da riforme strutturali (tranne forse la centralizzazione degli acquisti di beni e servizi, che sta procedendo lentamente, ma è derivata da interventi a hoc, decisi prima di leggi di bilancio, secondo la logica di tagli lineari che colpiscono in modo uguale comparti efficienti e inefficienti della pa.
Dopo il 2017 si prevedono aumenti di spesa corrente.
In percentuale del pil la spesa primaria nel 2017 era del 44,2% contro il 54,6 della Francia, il 42,9 della Germania, il 41,5 dei Paesi Bassi, il 38,4 della Spagna, il 38,2 del Regno Unito, il 37,4 del Canada, il 37,1 del Giappone, il 34,2 degli Stati Uniti.
La spesa per interessi nel 2017 era del 3,8% più elevata del resto dell’area euro (1,7%). Questo lascia meno spazio per altre spese.
L’avanzo primario necessario per ridurre rapidamente il rapporto debito/pil, secondo la Banca d’Italia, è del 3,5 4%.
A parità di tassazione, abbiamo meno spazio per la spesa rispetto ad altri paesi.
Inoltre se il livello appropriato di spesa dipende dal reddito e il nostro reddito procapite è calato del 20% rispetto al resto dell’area uero in venti anni il livello appropriato di spesa si sarebbe dovuto ridurre.
Nel ventennio degli anni 70 e 80 la spesa pubblica fu usata per ridurre le tensioni sociali.
In ultima analisi la spesa pubblica è fatta solo di tre cose: acquisti dei beni e servizi (compresi investimenti pubblici), stipendi per i dipendenti pubblici e trasferimenti che lo Stato fa a famiglie e imprese (o all’estero). Per i trasferimenti non esiste una questione di efficientamento: se si taglia la spesa per definizione il servizio fornito si riduce. Ma per le altre forme di spesa è possibile fornire gli stessi servizi riducendo il costo per il contribuente. L’ostacolo principale, in questo caso, deriva però dalle spese per il personale. Riforme di efficientamento (per esempio una digitalizzazione della pubblica amministrazione) portano a risparmiare non solo sugli acquisti di beni e servizi, la cui riduzione solitamente è meno sottoposta a pressioni politiche e sociali (tranne che, naturalmente, da parte dei potenziali fornitori della pubblica amministrazione e delle loro lobby), ma riducono anche il fabbisogno di personale.
Per fare una adeguata spending review i programmi di spesa devono essere definiti in mod adeguato. Vanno tenuti presenti i confronti internazionali e si può definire un benchmark esterno tenendo conto di fatti come il diverso numero di pensionati.
Bisogna vedere l’andamento storico della spesa nel tempo.
“Un approccio di fondamentale importanza, è quello dei cosiddetti “costi standard” e su questo vale la pena di avere qualche riflessione più dettagliata. L’idea alla base dell’approccio dei costi standard è quella di identificare margini di risparmio attraverso il confronto tra diverse unità di spesa dello stesso tipo, per esempio diversi ospedali, diversi comuni, diverse prefetture. Tale confronto dovrebbe consentire di identificare quelle unità di spesa che risultano anomale, cioè che hanno spese al di sopra della media. Una analisi di questo tipo è difficile ma di fondamentale importanza, soprattutto in Paesi in cui non si possa dare per scontato che la pubblica amministrazione sia ugualmente efficiente in ogni suo comparto, incluso a livello territoriale. Questa analisi può naturalmente essere condotta per il totale della spesa o per certi tipi di spesa, per esempio l’acquisto di beni e servizi. La difficoltà tecnica nell’operare questi confronti è, come nei confronti internazionali, quella di capire se certe deviazioni di spesa dalla media sono giustificate da fattori particolari o, in altri termini, quello di definire benchmark di comportamento che tengano conto delle condizioni in cui opera una certa unità di spesa. Prendiamo un ente locale, per esempio un comune. Il livello appropriato della sua spesa dipenderà prima di tutto dalla numerosità della popolazione, ma confronti su livelli di spesa basati solo sulla spesa pro capite sarebbero inadeguati. Occorre tener conto anche di molti altri fattori, anche per valutare l’adeguatezza della composizione della spesa, per esempio la struttura demografica della popolazione (quanti anziani o quanti giovani ci sono), l’estensione territoriale del comune, la sua orografia e così via. Questo tipo di analisi viene ora portato avanti per i comuni italiani, per i quali una parte dei trasferimenti ricevuti avviene non più sulla base della spesa storica, ma sulla base dei cosiddetti fabbisogni standard (e della capacità di tassazione standard). L’analisi è molto complessa, basandosi su questionari che includono migliaia di domande volte a identificare in modo preciso le caratteristiche dei vari comuni, ed è in continua fase di revisione e miglioramento. Dal punto di vista concettuale si tratta però di uno strumento di allocazione delle risorse molto avanzato anche rispetto all’esperienza degli altri Paesi. Purtroppo però il principio dei costi o fabbisogni standard non ha sinora trovato applicazione pratica in modo sistematico ad altre parti della pubblica amministrazione e dovrebbe essere certamente esteso. Per la spesa sanitaria vengono identificate ogni anno tre regioni benchmark, ma la spesa di queste regioni di fatto non svolge nessun ruolo effettivo né nella determinazione della spesa sanitaria complessiva (decisa a livello centrale sulla base delle esigenze di finanza pubblica), né nella allocazione di tale spesa nazionale tra diverse regioni (che avviene essenzialmente in base alla numerosità della popolazione aggiustata per fattori demografici). Naturalmente l’uso del principio dei costi standard come guida per le decisioni di come allocare risparmi di spesa richiede la volontà politica di operare tagli selettivi, ossia diversi per centri di spesa dello stesso tipo. Questo richiede non solo una condivisione di metodi per la definizione dei costi standard che non può essere improvvisata (e che in effetti ha richiesto anni di discussione nel caso dei comuni), ma anche la capacità politica di resistere a pressioni lobbistiche che comunque inevitabilmente si manifestano a protezione di certi interessi spesso di natura locale. Senza questa capacità e sotto la pressione degli eventi e delle scadenze capita invece tipicamente che i tagli di spesa siano allocati in modo lineare, con uguali riduzioni di spesa per amministrazioni efficienti e amministrazioni inefficienti, con conseguenze negative sulla fornitura di servizi alla popolazione. È questa però la pratica seguita nel corso degli ultimi anni in Italia nella maggior parte dei casi. È la pratica più facile da seguire a livello politico, anche se alla lunga impedisce di effettuare tagli di spesa mirati a colpire i centri di spesa meno efficienti”.
Il focus delle riforme non dovrebbe essre di breve termine.
Le riforme dovrebbero essere spiegate all’opinione pubblica in modo trasparente.