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Lo stupore delle prese elettriche

Più garanzie che rischi, più stato che mercato e il miracolo economico si è trasformato in declino

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Da “Austerità” di Alesina, Favaro, Giavazzi

“Il miracolo economico del primo dopoguerra, basato sul boom demografico e sul passaggio da una società rurale a una urbana e industriale, generò aspettative crescenti e l’illusione della crescita infinita. Dalla fine degli anni Sessanta, quando la spinta demografica comincia a calare e la transizione si completa, la grande illusione viene alimentata da una politica fiscale espansiva che sposta sulle generazioni future i costi di un debito crescente. Gli anni Cinquanta e Sessanta furono caratterizzati da una grande stabilità del debito pubblico, garantita da moderati deficit primari e da un costo di finanziamento del debito più basso del tasso di crescita dell’economia. In questi due decenni il rapporto debito/PIL fluttua intorno al 30%. Poi, d’improvviso, in soli tre anni – tra il 1970 e il 1973 – il rapporto debito/PIL si impenna dal 33 al 50%. In questi anni, che non furono certo una fase di contrazione economica (il tasso di crescita reale del 1973 superò il 7%), il deficit primario passò dal 4,3 all’8,3% del PIL. Il salto fu causato da tre riforme che miravano sia a soddisfare l’illusione della crescita infinita alimentata nei decenni precedenti, sia, soprattutto, a venire incontro al disagio della «classe operaia» che nel boom aveva tratto minori benefici rispetto alle classi più abbienti e aveva portato all’«autunno caldo» del 1969. Tutto partì dal sistema pensionistico. Una proposta di riforma che prevedeva di bilanciare una pensione determinata con il sistema retributivo, non inferiore al 65% del salario medio del triennio precedente al pensionamento, con l’elevamento dell’età di pensionamento a sessant’anni per le donne e il divieto del cumulo di pensione e salario, scatenò scioperi che portarono alla riforma Brodolini dell’aprile 1969.
Con questa riforma si abbandonò totalmente il sistema contributivo a favore di quello retributivo, introducendo meccanismi di indicizzazione per salvaguardare il potere di acquisto dei trattamenti pensionistici. Nel nuovo regime la pensione iniziale era determinata dal prodotto tra il 2% del reddito medio degli ultimi cinque anni di contribuzione e il numero di anni di contribuzione. Le pensioni venivano quindi rivalutate con indicizzazione completa all’inflazione.
Successivamente, nel 1975, questa indicizzazione fu riferita alla dinamica salariale anziché a quella dell’inflazione. Inoltre si introduceva una nuova pensione sociale per tutti i cittadini ultrasessantacinquenni sprovvisti di reddito, si lasciava l’età pensionabile per le donne bloccata a cinquantacinque anni e si limitava solo parzialmente il cumulo di pensioni e salari.
Nel contempo si garantiva una presenza maggioritaria dei sindacati nel consiglio di amministrazione dell’INPS. Il nuovo sistema era sostanzialmente finanziato dalla solidarietà intergenerazionale e dalle ipotesi di un tasso di crescita stabilmente intorno al 5%, con un tasso di natalità stabile al 3% e un’aspettativa di vita stabilizzata a sessantacinque anni.
Alla riforma delle pensioni si accompagnarono altre politiche di spesa; fra queste, un aumento progressivo degli addetti di aziende pubbliche o a partecipazione statale, che passarono dai 460.000 del 1971 ai 600.000 del 1980.
Nacquero anche le Regioni a statuto ordinario, una delle maggiori fonti di aumento della spesa pubblica nei decenni successivi. Fu attuata una riforma della scuola, con l’estensione a cinque anni di tutte le scuole superiori, e una della sanità, con la sostituzione delle precedenti «mutue» di categoria con il servizio sanitario nazionale gratuito per tutti.
Nel contempo, nel 1973, venne abbandonato il sistema di Bretton Woods, che prevedeva tassi di cambio sostanzialmente fissi rispetto al dollaro USA, e si passò a un regime di cambi flessibili. Con cambi flessibili, i Paesi acquistano indipendenza nella gestione della propria politica monetaria e possono scegliere tra due regimi: uno ad alta e uno a bassa inflazione. L’Italia optò per il primo. Esso consente di attingere alla «tassa da inflazione», che negli anni fra la metà dei Settanta e la metà degli Ottanta, grazie alla repressione finanziaria (cioè alla presenza di controlli sui movimenti di capitale che consentono di mantenere i tassi di interesse interni inferiori ai tassi internazionali), fece affluire nelle casse dello Stato italiano un gettito pari a circa tre punti di PIL l’anno. L’inflazione produsse anche un’altra fonte di entrate: il fiscal drag, cioè il fenomeno per cui, con aliquote di imposta progressive, l’aumento dei salari nominali sposta i lavoratori verso aliquote più elevate e aumenta il gettito fiscale. Il secondo modello mette invece al centro la stabilità dei prezzi. La Germania optò, anche per ragioni storiche legate alla memoria dell’iperinflazione degli anni Venti, per il regime di stabilità. Il primo modello venne invece adottato dai Paesi del Sud Europa: Francia, Spagna, Italia, Portogallo e Grecia. La figura 0.1 mostra l’andamento del tasso di inflazione in Italia e Germania: il differenziale è particolarmente elevato nel periodo 1973-1991. Il 1991 – anno che si concluse con la firma del trattato di Maastricht (7 febbraio 1992), che fissava al 1999 l’introduzione della moneta unica – aprì una nuova era.

Il regime di alta inflazione è caratterizzato da sindacati forti, governi deboli e banche centrali non indipendenti. In questo mondo i sindacati esercitano pressioni sulle aziende pubbliche e private, con richieste di forti incrementi salariali accompagnate Il problema è che non era un regime sostenibile, perché basato su tasse occulte. Cioè tasse non direttamente deliberate dal Parlamento, come quella da inflazione – resa possibile dalla repressione finanziaria – e il fiscal drag. Queste tasse occulte consentirono di spostare in là nel tempo il costo fiscale delle riforme introdotte all’inizio degli anni Settanta. La figura 0.3 paragona l’andamento del rapporto tra spesa pubblica e PIL e tra entrate fiscali e PIL per l’Italia e per la media dei Paesi europei facenti parte dell’OCSE. Si distinguono due periodi. Fino al 1993 la pressione fiscale in Italia è stata di molto inferiore a quella degli altri paesi europei mentre la spesa pubblica cresceva come altrove in Europa. A partire dal 93 spesa e gettito fiscale si sono allineati con quelli delle altre nazioni, ma nel frattempo il debito aveva superato la media europea.

Dopo un ventennio di sostanziale stabilità (quello degli anni Cinquanta e Sessanta), tale rapporto sale rapidamente fra il 1969 e il 1973-1974, dal 40 al 60%. Sono gli anni delle riforme che sono sostanzialmente finanziate a debito. Dopo il 1973-1974, però, nonostante la spesa continui a crescere più rapidamente del gettito fiscale, l’aumento del rapporto debito/PIL si arresta fino al 1981, appunto per l’effetto fiscale dell’inflazione. Lo si vede anche osservando, sempre nella figura 0.4, la differenza fra tasso di crescita reale dell’economia (le barre scure) e costo medio di finanziamento del debito sempre in termini reali (le barre chiare): il costo medio di finanziamento diventa negativo all’inizio degli anni Settanta, mentre l’economia – tranne nel 1974, anno successivo al primo shock petrolifero – continua a crescere. Tassi di interesse reali negativi sono l’effetto dell’inflazione e della repressione finanziaria che non consente agli italiani di sottrarsi alla tassa da inflazione spostando i loro risparmi all’estero. La combinazione di un costo reale del debito negativo e di una crescita positiva stabilizza il rapporto debito/PIL nonostante il disavanzo primario si mantenga intorno al 5% del PIL.
La differenza fra tasso di interesse reale e tasso di crescita si inverte nel 1981, un po’ per il «divorzio» fra ministero del Tesoro e Banca d’Italia – con la fine dell’obbligo per la banca centrale di finanziare il deficit dello Stato – un po’ per l’aumento dei tassi di interesse internazionali seguiti al cambio di politica monetaria negli Stati Uniti, con l’arrivo di Paul Volcker alla presidenza della Federal Reserve. Tali aumenti, infatti, si trasferiscono in parte anche al mercato finanziario italiano, nonostante il permanere dei controlli sui movimenti di capitale. Tuttavia, la politica fiscale impiega un decennio ad adeguarsi al cambiamento del rapporto fra tasso di crescita (che rimane positivo in tutti gli anni Ottanta) e il tasso di interesse reale. Il risultato è che il rapporto debito/PIL raddoppia in un decennio. Non per l’aumento del disavanzo primario, che al contrario comincia a scendere dalla metà degli anni Ottanta, ma perché il costo delle riforme dei primi anni Settanta, nascosto dall’inflazione per un decennio, ora non è più rimandabile. E la riduzione del disavanzo primario non è sufficiente, almeno fino al 1993, quando iniziano gli anni di surplus primari che fermano la crescita del rapporto debito/PIL, senza però più riuscire a ridurlo. In altre parole la tassa occulta e ingiusta dell’inflazione, sparita, si trasforma in aumento di debito.

Dalla metà degli anni Ottanta comincia anche a rallentare la crescita dell’economia. Uno dei motivi è che quella italiana era un’economia rallentata dalla scarsa concorrenza nei mercati e dalla ingombrante presenza di uno Stato inefficace, e ciò aggravava quindi il rapporto debito/PIL, data la frenata del denominatore. Con gli anni l’ampiezza della presenza pubblica nell’economia aveva contagiato anche gli imprenditori privati. In un’intervista al «Corriere della Sera» pubblicata il 20 febbraio 1996, alla domanda: «Anche il capitalismo privato nella Prima Repubblica non ha funzionato?», Giovanni Agnelli, allora presidente e maggiore azionista della FIAT, rispondeva: «Certamente. Diciamo che gli anticorpi non hanno funzionato. Ma dovevamo scendere a patti con i partiti politici e con l’impresa pubblica. Se in Italia, dopo cinquant’anni, la FIAT non è finita all’IRI [l’ente che controllava gran parte dell’industria pubblica] è già un miracolo».
Ricordando la figura di Alberto Beneduce, tra i fondatori dell’IRI nel 1933, l’economista Marcello de Cecco scriveva: Circondando le banche e i grandi gruppi industriali che da esse dipendevano di un cordone sanitario rappresentato dagli istituti di credito speciale, riuscì a Beneduce di spegnere le fiamme del grande incendio dei primi anni Trenta operando una riforma delle nostre strutture finanziarie che ha dominato la vita economica per i sessanta anni successivi.
Si creò così un sistema assai più simile a quello dei Paesi del socialismo reale che a quello dei vari capitalismi nazionali. Alla finanza basata sul rischio si sostituì quella basata sulla garanzia statale. Il modello funzionò bene negli anni dell’autarchia, e anche nel primo dopoguerra, finché quella italiana rimase un’economia relativamente chiusa. Ma negli anni Sessanta, con l’ingresso nel mercato comune europeo, anziché evolvere verso il mercato, il modello degenerò; e non solo perché il castello costruito da Beneduce era caduto nelle mani della politica. Si saldò, tra lo Stato e i grandi gruppi industriali privati – i pochi rimasti dopo la nazionalizzazione delle aziende elettriche – un contratto implicito: i privati avrebbero delegato allo Stato la realizzazione di grandi progetti di investimento, dall’acciaio alle autostrade. Fu così che il peso delle aziende pubbliche nell’economia raddoppiò, dal 12% nel 1963 al 20% nel 1979. In cambio, lo Stato garantiva ai privati ampie protezioni dalla concorrenza internazionale. Non ci si può allora meravigliare se il capitalismo italiano è apparso incerto, incapace di rinnovarsi, poco preparato a confrontarsi con un mercato che diventava via via più difficile proteggere. Forse non è un caso che alcune delle nostre aziende di maggior successo siano quelle nate e cresciute al di fuori del circuito pubblico, come Luxottica; imprese che hanno sempre venduto più all’estero che in Italia, e comunque mai allo Stato, e che si sono quotate in borsa a New York prima che a Milano. Negli anni Novanta, con il processo di avvicinamento all’unione monetaria, arriva dall’Europa una forte spinta riformatrice.
Le politiche di stabilizzazione del debito e di riduzione dell’inflazione vengono precedute – su spinta delle istituzioni europee, evidentemente preoccupate di avere nell’unione monetaria un’Italia debole – dalla creazione nel 1989 dell’autorità garante della concorrenza e del mercato. Durante il governo Amato (1992-1993) viene smantellata l’industria di Stato, trasformando gli enti pubblici in società per azioni, e si avvia un ampio programma di privatizzazioni. Nella seconda parte degli anni Novanta il valore delle imprese trasferite dallo Stato al mercato supera quello delle privatizzazioni attuate nel Regno Unito durante il decennio della Thatcher. L’intervento pubblico nell’economia viene ulteriormente ridotto con la chiusura, nel 1993, della Cassa per il Mezzogiorno.
Si accelerò anche la stabilizzazione del debito, facendo salire l’avanzo primario: per la prima volta, nel 1991, l’Italia aveva registrato un piccolo avanzo nei conti pubblici al netto della spesa per interesse. Nel 1996 l’avanzo primario raggiunse il 6% del PIL, un livello che consentì all’Italia di essere ammessa nell’unione monetaria. Fu introdotta un’imposta sugli immobili, ridotta la spesa sanitaria, bloccata la crescita degli stipendi dei dipendenti pubblici e varata, nel 1992, una riforma pensionistica che per la prima volta innalzava l’età minima della pensione, aumentava il numero di anni contributivi richiesti, calcolava la pensione in base al prodotto tra il 2% del reddito medio lungo tutta la vita contributiva e il numero degli anni di contribuzione, e sopprimeva l’indicizzazione delle pensioni ai salari. Una correzione ancora più radicale del sistema pensionistico fu varata con il governo Dini, che nel 1996 introdusse, pur molto gradualmente, il sistema contributivo per tutti. E tuttavia, nonostante un decennio di grandi riforme, quando l’euro partì, nel 1999, il processo di convergenza dell’economia italiana non era ancora completato. Persistevano – e ancora persistono – forti divergenze nei conti pubblici rispetto agli altri Paesi aderenti all’unione monetaria. Nei primi anni dell’euro queste divergenze furono oscurate dall’entusiasmo che accompagnò l’introduzione della moneta unica e dall’aspettativa che essa fosse irreversibile. Il tutto in un clima internazionale favorevole: bassi tassi di interesse, bassa volatilità dell’inflazione e della crescita mondiali («The great moderation», come è stata chiamata la parte iniziale del primo decennio del nuovo millennio), crollo dei rendimenti dei titoli di Stato nei Paesi alla periferia dell’Europa.
I bassi tassi di interesse stimolarono la domanda; purtroppo, però, a questo incremento della domanda non si accompagnò un aumento della produttività La crisi finanziaria del 2007-2009 e la successiva crisi del debito europeo invertono in maniera radicale l’andamento dei tassi di interesse a lungo termine. I dubbi sulla sopravvivenza dell’euro aumentano il premio per il rischio e si registra una violenta inversione di tendenza degli spread; le economie periferiche rallentano mentre la Germania beneficia di un flusso di capitale verso il suo porto sicuro che non è accompagnato da un apprezzamento del cambio, fisso.
Si arriva al limite del collasso, che viene evitato grazie all’intervento della BCE e a politiche fiscali restrittive da parte dei Paesi periferici. In Italia, l’austerità fiscale introdotta dal governo Monti si accompagna a un’accelerazione dell’entrata in vigore della riforma pensionistica varata dal governo Dini, e completata con nuove norme introdotte dal ministro Elsa Fornero. Questi successivi interventi introducono modifiche di importanza cruciale per la stabilizzazione del sistema: in particolare, l’indicizzazione dell’età di pensionamento alla lunghezza dell’aspettativa di vita al momento del pensionamento. Il risultato di queste politiche e di quelle attuate successivamente fino al 2018 è stata la stabilizzazione del rapporto debito/PIL attorno al 130%. Un livello che tuttavia mantiene l’Italia particolarmente esposta a shock politici e finanziari. È quanto accaduto nell’estate del 2018, ma questa è un’altra storia.

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