L’autobiografia di W.C.Handy, “The father of the Blues”, mostra i musicisti ambulanti che incontrava nel suo viaggio per gli stati del Sud. Lui stesso era un compositore.
Quella musica era totalmente autoctona, originale, prodotta nei primi anni del Novecento da autori girovaghi, spesso analfabeti.
Gli autori esprimevano la nuova realtà, affrancata dallo schiavismo, ma prigioniera di una forte discriminazione razziale. Narravano la perdita delle proprie radici, delle terre di quell’Africa da cui erano stati portati in America, ma non per loro scelta. Se prima erano schiavi, adesso erano comunque operai o mezzadri, ma non meno discriminati.
Sono gli anni del Ku Klux Klan, che gode di appoggio presso la popolazione bianca, compresa quella degli operai, magari a loro volta emigrati dall’Europa, sia pure per scelta. Questi ultimi temevano che i neri rubassero loro il lavoro o comunque spingessero verso il basso i salari. I poveri bianchi, in sostanza, trovavano un capro espiatorio nei neri e anche loro avevano una musica, il dixie, attraverso cui rimpiangevano i bei tempi in Europa che in realtà non erano mai esistiti.
Per sfuggire all’oppressione, quindi, molti neri iniziano un viaggio verso il nord, spesso con la chitarra come unica compagna. Si stipavano sui vagoni bestiame, sui carri, oppure andavano a piedi. I simboli legati al viaggio, all’esodo biblico, si ritrovano nelle loro canzoni, insieme con i sentimenti legati al distacco, alla nostalgia, alle persone care, anche con riferimenti erotici.
Il blues nasce e si sviluppa nel Delta del Mississipi e si contamina con le musiche del Texas e del Tennessee: il passaggio da Memphis è una tappa obbligata del viaggio verso nord. Le sue radici si trovano nei field hollers, negli shouts, nele work songs, nei canti degli schiavi che erano tenuti isolati e quindi non avevano né un’unica lingua espressiva né potevano conservare molto del retaggio africano. Il blues è anche un figlio di incontri tra la cultura bianca e quella nera. Gradualmente si svilupparono nuovi accompagnamenti musicali, nuovi strumenti come la chitarra che sostituisce il banjo o l’armonica a bocca, fino ad arrivare al pianoforte o ad altri strumenti a fiato. Alcuni bluesmen creano nuovi strumenti, come il bottleneck. A partire dai canti religiosi, come lo spiritual o il gospel, si forma una sorta di codice.
Dalla struttura tradizionale bianca a sette note, il blues sovrappone una scala a cinque note, esercitando sulle altre due un glissato, uno spostamento che dà origine all’effetto blues. Dalle burrel house della Louisiana viene mutuato lo stile percussivo delle chitarre e l’accompagnamento dei bassi ambulanti in otto crome per battuta (il walking bass.)
I canti raccontano di viaggi, amore, bevute, carceri, ma usano anche delle metafore, come il treno, per esprimere il disagio esistenziale o diffondere messaggi erotici o sociali. Le musiche venivano cantate negli show itineranti, anche per accompagnare i venditori di medicine miracolose, ma soprattutto durante le feste, i matrimoni nonché nei luoghi di aggregazione come i bar.
Il bluesman deve avere la possibilità di improvvisare, inventare storie in base alle circostanze nelle quali si trovava. La libertà di non avere uno schema definito è una caratteristica del blues, anche se di solito nelle prime quattro battute il bluesman introduce un tema e lo ripete nelle quattro successive, in modo da avere il tempo per preparare il finale della storia con le ultime quattro battute. Col tempo il blues diventa una musica da intrattenimento, non più legata solo ai canti di lavoro o religiosi. Nell’area del Delta nascono i primi semiprofessionisti, che vengono pagati la sera, dopo il lavoro, per suonare in locali.
E i bianchi? I discendenti dei fondatori? Inizialmente si esibivano in fiere e feste cantando la nostalgia dell’Europa, il lavoro duro, le terre inospitali. Con l’emigrazione irlandese arrivarono il banjo e la musica prese molto da quella originale dell’Irlanda. Autori come Stephen Foster e brani come Buffalo Gals, Blue Tail Fly, Turkey in the Straw, contribuirono all’integrazione musicale del sud. I primi cantanti erano operai, ferrovieri, minatori, dottori, predicatori: dei cantastorie che raccontavano la vita e i sentimenti del sud rurale.
Canti e inni erano portati avanti anche da evangelizzatori come Sam Jones, che predicava usando il canto. Nasceva il country music, fondato sul concetto di vita come sofferenza da espiare nell’aldilà. Gli strumenti principali usati erano il violino e il banjo. A questi si aggiungeranno presto il mandolino (grazie agli italiani,) l’armonica a bocca e finalmente la chitarra. Si formarono così prima le string bands e quindi le hillybilly bands, che sostituirono le canzoni tradizionali. Charli Poole & The North Carolina Ramblers, Al Hopkins & The Hillibillies, The Skillet Lickers erano band che integrarono la musica tradizionale inglese con quella contemporanea e con il ragtime. Anche queste band erano formate da dopolavoristi che integravano lo stipendio suonando nei locali la sera.
MINSTRELS SHOW, VAUDEVILLE
A metà Ottocento nasce il fenomeno dei Minstrels Show, dove cantanti bianchi si dipingono la faccia di nero e imitano le persone di colore, come se fossero degli sbruffoni che cantavano e ballavano continuamente.
Dopo la Guerra Civile, quando inizia ad essere permesso che neri e bianchi possano esibirsi in comune, anche i neri formano delle compagnie che girano per gli Stati, in qualche modo ricalcando i Minstrels Show. Nascono Oh Susannah o Old Kentucky Home di Stephen Foster, oltre a Dixie di Dan Emmett, l’inno non ufficiale degli stati confederati.
James Bland scrive più di seicento canzoni sulla vita del Sud, senza esserci mai stato.
Con la rivoluzione industriale e l’urbanizzazione salgono anche i livelli di ricchezza e di tempo libero e la domanda di intrattenimento. Nascono i variety, i vaudeville: il primo fu proposto da Tony Pastor al 14thStreet di New York. Alcuni erano messi in scena da bianchi, altri da neri, anche i pubblici erano separati. Ci furono delle vere e proprie star: Al Jonson, George Burns, Sophie Tucker fino ai fratelli Marx.
Con gli anni venti del Novecento il cinema e soprattutto l’incapacità di adeguarsi ai mutati gusti del pubblico sancì la fine del vaudeville.
Un nuovo strumento si affermò: il grammofono, più diffuso inizialmente di auto e telefono. Gli artisti non erano più legati agli spettacoli dal vivo, ma potevano registrare le proprie performance sui dischi e mettere questi in vendita, affidandosi magari alle nascenti case discografiche.