Da “Perché il sud è rimasto indietro” di Emanuele Felice.
Quando nasce il mondo moderno? Con le investiture? Con la riforma protestante? Con la rivoluzione scientifica del Seicento? Con l’Illuminismo? Con la Rivoluzione Industriale? Con la Rivoluzione Francese? Fatto sta che dopo ognuno di questi passi si hanno più diritti e più libertà: libertà di scegliere il proprio lavoro, di scegliere cosa consumare grazie al reddito più elevato, diritto a istruzione, sanità, voto, emancipazione. Questo è il risultato del processo di modernizzazione.
Le sue conseguenze si misurano con i parametri dell’economia (innanzitutto il Pil per abitante), ma anche con quelli degli indicatori sociali (alfabetizzazione o anni di istruzione pro capite, speranza di vita, per limitarci ai più noti) e delle libertà politiche e civili . Va da sé, comunque, che questi molteplici aspetti sono tutti fra loro collegati. L’aspetto più strettamente economico si misura naturalmente con il Pil per abitante, che ci serve per approssimare il reddito medio: l’aumento del Pil che la modernizzazione genera è dovuto soprattutto al progresso tecnologico, ovvero all’introduzione delle macchine che innalzano la produttività; la meccanizzazione storicamente si è accompagnata al cambiamento strutturale, cioè allo spostamento della forza lavoro dall’agricoltura verso l’industria e i servizi. In pratica, il procedere dell’industrializzazione, e con essa l’espansione dei servizi, costituiscono il motore principale della crescita del Pil.
Nell’ottica dello «sviluppo umano», tre componenti della modernizzazione vengono chiamate rispettivamente risorse , conoscenza e longevità. Esse comprendono la scolarizzazione e l’innalzamento della speranza di vita. La prima ha determinato la quasi totale estinzione dell’analfabetismo, dotando sempre più cittadini delle conoscenze di base per poter decidere del proprio destino; il secondo, dovuto principalmente ai progressi della scienza e alla loro applicazione, in un secolo e mezzo ha portato gli italiani a condurre esistenze molto più lunghe, due o tre volte quelle dei loro avi. Con la modernizzazione sono cresciuti anche i diritti di welfare per ridurre le disuguaglianze (utilità decrescente dei redditi) , le libertà civili e le libertà politiche.
La distinzione fra modernizzazione «attiva» e «passiva» sorge nel momento in cui ci chiediamo come si pone una società − un impero multietnico o uno stato-nazione, ma anche una regione o perfino un villaggio − di fronte a questo processo, che prima o poi la coinvolge. Non siamo a un pranzo di gala, direbbe qualcuno, la modernità non bussa alla porta chiedendo permesso. Ma entra come un ciclone, minaccia di ribaltare assetti millenari: si pone insomma come una sfida. Ed è una sfida per la sopravvivenza. La modernità si presenta anzitutto come «forza», che una società dimostra di avere rispetto ad altre con le quali viene in contatto: forza «economica e militare» (ripensiamo alla conquista del Regno delle Due Sicilie da parte del Piemonte), ma di lì anche «culturale e politica».
Una società può scegliere di raccogliere il guanto, accettando la competizione e ponendosi, o cercando di porsi, allo stesso livello dei suoi sfidanti. Siamo allora sul terreno della modernizzazione attiva. Sta sulla scena in questo caso un attore politico e sociale − la borghesia, in genere, le classi dirigenti nelle istituzioni che questa esprime − il quale assume la sfida e articola la «risposta», si colloca cioè esplicitamente alla testa del processo in atto. Abbiamo quello che Gramsci definisce «blocco storico»: un blocco fatto di comando politico, di potere economico-sociale, ma anche di egemonia culturale e ideologica. La cornice statuale è l’ambito naturale in cui questo tipo di risposta prende corpo, proprio perché è lo stato l’organismo dotato dei maggiori strumenti per elaborare e attuare una coerente strategia di modernizzazione.
Vale la pena osservare come, da questo punto di vista, la modernizzazione «attiva» si possa considerare un complemento − o meglio, una precondizione − dei due principali paradigmi interpretativi con cui oggi si guarda alla convergenza dei paesi «ritardatari» sui leader: ovvero l’«imitazione con varianti» di Alexander Gerschenkron e il «modello standard di sviluppo» di Robert Allen. Secondo Gerschenkron, il paese che si industrializza in ritardo, il latecomer , al fine di convogliare i capitali necessari al decollo industriale mette in campo uno o più «fattori sostitutivi» (le banche miste, l’intervento pubblico) degli originali prerequisiti inglesi: l’obiettivo è supplire alla mancanza delle identiche condizioni di partenza del leader, ma raggiungere in breve tempo gli stessi risultati . Secondo Allen, il modello standard di sviluppo con cui nella seconda metà dell’Ottocento i paesi latecomers cercano di porsi allo stesso livello dell’Inghilterra si articola in quattro mosse strategiche: la costruzione della rete ferroviaria per creare un mercato nazionale, l’organizzazione di una struttura creditizia per finanziare le nuove imprese, le politiche di scolarizzazione per velocizzare l’adozione e la diffusione delle nuove tecnologie, l’imposizione di tariffe per proteggere le industrie nascenti . È evidente come la presenza di un blocco storico proteso alla modernizzazione costituisca, in entrambi questi paradigmi interpretativi, condizione imprescindibile, che rende possibile l’assunzione delle conseguenti decisioni politiche. Con riferimento all’industrializzazione e alla crescita del Pil, il ruolo di élite e istituzioni locali è stato ampiamente riconosciuto da storici ed economisti, per quel che concerne ad esempio l’ascesa dell’industria leggera nelle regioni del Nord-Est e del Centro, la cosiddetta Terza Italia, durante la seconda metà del Novecento . In altri aspetti della modernizzazione le istituzioni locali erano invece importanti già nella seconda metà dell’Ottocento, ad esempio nell’istruzione primaria.
Parliamo invece di modernizzazione passiva quando una società intraprende una qualche sorta di modernizzazione senza che un «blocco storico» vi eserciti il ruolo guida. Senza cioè che possa essere implementata una strategia competitiva e coerente, ma piuttosto come risultato di un approccio adattativo, subottimale in quanto a risultati. Non a caso la modernizzazione che ne deriva si presenta spesso incompleta, priva dei settori strategici che sono decisivi nella visione di Gerschenkron, o assimilabile solo in parte allo schema di Allen: si pensi al Regno delle Due Sicilie, che praticava una politica protezionistica trascurando però del tutto gli altri tre tasselli strategici del modello standard di sviluppo (credito, istruzione e sì, anche le ferrovie).
La scelta della modernizzazione passiva, cioè di un comportamento adattativo, appare infatti conseguenza della presenza di istituzioni politiche ed economiche di tipo «estrattivo», come le definiscono Daron Acemoglu e James Robinson: istituzioni politiche che concentrano il potere (anche arbitrario) nelle mani dell’élite, ponendo vincoli formali e informali all’effettiva partecipazione dei cittadini; istituzioni economiche concepite per estrarre reddito e ricchezza da una parte larga della società, a beneficio di una frazione privilegiata . Con istituzioni estrattive, le élite hanno interesse a incamminarsi sulla strada della modernizzazione, ma solo fino al punto in cui le utilità che ne derivano rimangono loro appannaggio e non ricadono anche sul resto della popolazione, la grande maggioranza; e questo perché, se anche le classi subalterne se ne avvantaggiassero, da ciò potrebbero ricavarne forza per mettere in discussione il potere delle oligarchie. È un punto importante, questo, che consente di congiungere le modalità osservate nel percorso di convergenza del Mezzogiorno ai temi centrali delle istituzioni e della distribuzione del reddito; oltre che alle più aggiornate teorizzazioni in campo internazionale, aspetto finora trascurato dalla pur vasta letteratura sul Mezzogiorno. Istituzioni politiche ed economiche di tipo «inclusivo», à la Acemoglu e Robinson, sono invece quelle che tendono a favorire la partecipazione dei cittadini, comprese le classi subalterne: le istituzioni economiche inclusive tutelano i diritti di proprietà, si fondano su un sistema di legalità efficiente e uguale per tutti, consentono l’accesso di competitori nell’arena economica, garantiscono servizi pubblici essenziali che ambiscono a porre tutti i cittadini su uno stesso livello di partenza; le istituzioni politiche inclusive sono istituzioni centralizzate, così da permettere l’effettivo esercizio del potere, e al tempo stesso pluralistiche, affinché tale potere sia davvero contendibile.
Un importante discrimine fra modernizzazione attiva e passiva è proprio il fatto che, mentre nel primo caso l’ideale della modernità viene assunto nell’orizzonte culturale dell’intera collettività, o di una sua larga maggioranza, nel secondo la modernizzazione promana dall’esterno, come un qualche cosa di estraneo alla società locale, e tale tende a rimanere.
Nel sud si hanno molti esempi di modernizzazione passiva a partire dalla scomparsa del feudalesimo, dalla rivoluzione di Napoli portata dalle truppe napoleoniche per arrivare all’Unità d’Italia calata dall’alto. Al processo di unificazione sostanzialmente le classi dirigenti meridionali non parteciparono; né tanto meno vi parteciparono quelle subalterne, le quali anzi furono in parte duramente represse con la guerra al brigantaggio.
Dal 1871 al 2009 il Pil per abitante si è moltiplicato (a prezzi costanti) di ben 12 volte e mezza. Ma va notato che in questo periodo l’evoluzione del reddito non è stata lineare: se dal 1871 al 1951 risulta appena raddoppiato, dal 1951 al 2009 si moltiplica di oltre cinque volte. Dopo la seconda guerra mondiale si registra quindi una spettacolare impennata, che rende gli italiani mediamente ricchi e dura fino agli anni novanta. Rispetto a questo dato, significativo è il fatto che il grosso dei divari regionali si sia prodotto nel periodo precedente; mentre durante il miracolo economico, quando l’Italia cresceva di più, il Mezzogiorno è addirittura riuscito a convergere verso il Centro-Nord (che pure faceva registrare tassi di incremento del Pil mai visti prima). Nella metrica dei valori assoluti risalta pertanto il successo meridionale durante gli anni del miracolo. Ma per lo stesso motivo si segnala il fallimento degli ultimi decenni: anche quando l’Italia nel suo insieme rimane al palo, con una performance economica che durante la seconda repubblica è la peggiore di tutti i paesi avanzati, il Sud non riesce ad avvicinarsi al Centro-Nord (pure in grave affanno). È un’evidenza –anche questa –che rafforza la tesi della modernizzazione passiva