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Da Noise From Amerika Protezione dell’occupazione: alcuni effetti economici e un’idea per riformare
22 febbraio 2012 • Giovanni Pica e marco leonardi
Quali sono i costi della protezione legale dell’occupazione? Chi li paga? È possibile ridurli senza intaccare il livello di protezione garantito oggi? In questo post passiamo in rassegna alcuni lavori empirici che hanno analizzato il caso italiano.
- L’importanza di guardare ai dati.
Forme di restrizioni ai licenziamenti più o meno marcate sono presenti in moltissimi paesi (si veda il ranking internazionale fornito dall’OECD). Il motivo è semplice: i vincoli ai licenziamenti hanno lo scopo di assicurare il lavoratore contro le fluttuazioni del mercato del lavoro e trasferirne il peso sul soggetto – l’impresa – che può “neutralizzarle” con maggiore facilità, in quanto dispone di un più agevole accesso al credito. Qualunque lavoratore avverso al rischio è ovviamente favorevole alla protezione del proprio impiego.
Tuttavia, la presenza di vincoli ai licenziamenti induce le imprese a modificare il proprio comportamento. Sapendo che licenziare implicherà un costo, le imprese reagiscono riducendo le variazioni della forza lavoro nel corso del ciclo economico, “appiattendone” il profilo nel tempo. Questo allo scopo di minimizzare i costi di aggiustamento. Se ciò da una parte rende effettivamente più stabili i rapporti di lavoro (perché si riducono le separazioni), rende anche più difficile l’ingresso nel mondo del lavoro da parte chi è in cerca di occupazione (perché si riducono anche le assunzioni).
Senza scendere in ulteriori dettagli, si vede che siamo in presenza di un trade-off e pertanto un certo ammontare di restrizioni ai licenziamenti può aumentare il benessere collettivo se i benefici (in termini di stabilità) superano i costi (in termini di code per ottenere lavori protetti). Tuttavia, non è chiaro quale sia l’ammontare ottimale.
Per cercare di capirlo, è necessaria una valutazione quantitativa degli effetti dei costi di licenziamento su una serie di variabili economiche allo scopo di poterne soppesare costi e benefici. Per esempio, quali effetti hanno i vincoli ai licenziamenti sui tassi di occupazione e disoccupazione? Sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita dal mondo del lavoro? Sul livello dei salari? Sulla dimensione e sul numero delle imprese operanti sul mercato? Come per altri temi, il dibattito sull’art. 18 che si riaffaccia periodicamente in Italia lascia invece regolarmente da parte gli aspetti quantitativi. E’ invece importante metterli al centro della discussione.
Prima di iniziare a farlo, e’ utile un rapido riepilogo dell’evoluzione della legislazione italiana in materia.
- L’evoluzione della legislazione italiana in materia di protezione dell’impiego
Nel 1966 viene introdotto per la prima volta nella legislazione italiana il principio per cui il datore di lavoro può licenziare un lavoratore, senza incorrere in costi aggiuntivi, solo qualora ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo (Legge 604, 1966). La prima fa riferimento a eventi che incrinino il rapporto fiduciario tra il datore di lavoro e il lavoratore. Il secondo a motivazioni di natura economica. Se il licenziamento non avviene per giusta causa o giustificato motivo, l’articolo 8 della Legge 604 prevede la Tutela Obbligatoria, obbliga cioè il datore di lavoro “a risarcire il danno versando una indennità da un minimo di cinque ad un massimo di dodici mensilità.”
L’entità del costo cui l’imprenditore incorre in caso di licenziamento non giustificato, nonché l’estensione dei soggetti coperti dalla tutela legislativa, viene modificata nel 1970 e nel 1990. L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300) del 1970 prevede, in caso di licenziamento ingiustificato, l’obbligo per il datore di lavoro di reintegrare (Tutela Reale) il lavoratore e corrispondergli una indennità a titolo di risarcimento del danno subìto. Si noti però che in alternativa al reintegro il lavoratore può scegliere di percepire un’indennità pari a quindici mensilità (che si aggiunge a quella liquidata dal giudice a titolo di risarcimento del danno). Ritorneremo su questo punto in seguito.
L’articolo 18, com’è noto, si applica solo ai datori di lavoro che occupino, nell’unità produttiva nella quale ha avuto luogo il licenziamento, più di quindici lavoratori. Lo Statuto dei Lavoratori introduce, dunque, l’obbligo di reintegro per i lavoratori appartenenti ad imprese “grandi” (così come definite dalla legge) mentre non prevede vincoli ai licenziamenti per i lavoratori appartenenti ad imprese “piccole”.
La legge 108 del 1990 “rimedia” a questa mancanza occupandosi proprio delle imprese piccole. Approvata in fretta e furia per evitare un referendum il cui quesito chiedeva di estendere l’art. 18 a tutte le imprese, la legge 108 impone, in caso di licenziamento ingiustificato avvenuto in un’unità produttiva con meno di quindici lavoratori, l’obbligo di risarcimento (Tutela Obbligatoria) con un’indennità pari a minimo 2,5 e massimo 6 mensilità.
Riassumendo, dal 1970 per i lavoratori impiegati in imprese grandi licenziati senza giusta causa o giustificato motivo è previsto il reintegro più il risarcimento dei danni. Per i lavoratori delle imprese piccole, invece, prima del 1990 non esisteva alcuna restrizione ai licenziamenti. Dopo il 1990 deve essere corrisposto loro un indennizzo in caso non ricorra la giusta causa o giustificato motivo.
Quali sono gli effetti di questa impostazione legislativa? Un effetto importante e’ il seguente: praticamente tutti i licenziamenti individuali siano impugnati in sede di giudizio dal lavoratore, perché quest’ultimo non ha niente da perdere. Per questa ragione le aziende italiane non ricorrono (quasi) mai ai licenziamenti individuali quanto piuttosto a quelli collettivi per i quali esistono regole molto più certe, non si va quasi mai in giudizio ed esistono tutele per i lavoratori licenziati. Di fatto i licenziamenti avvenuti durante la crisi sono tutti collettivi.
- Effetti economici della protezione dell’impiego
Un argomento spesso usato ed abusato afferma che l’art. 18 impedisca alle imprese di crescere e che rimuoverlo aiuterebbe a risolvere il problema del nanismo delle imprese italiane. Borgarello, Garibaldi e Pacelli (2004) e Schivardi e Torrini (2008) analizzano l’effetto dell’art. 18 sulla dimensione delle imprese italiane, guardando alla propensione delle imprese a crescere intorno alla soglia critica di 15 dipendenti. Entrambi i lavori concordano sul fatto che l’effetto soglia esiste, cioè la probabilità di assumere uno o più dipendenti decresce intorno alla soglia di 15 dipendenti, ma è un effetto che si aggira intorno al 2% ed è quantitativamente troppo limitato per spiegare perché le dimensioni delle imprese italiane sia molto minore rispetto alla media europea (per maggiori dettagli si veda il post di Fabiano Schivardi su LaVoce.info).
Questi risultati potrebbero indurre a pensare che in fondo le restrizioni ai licenziamenti non alterino più di tanto il comportamento delle imprese. Non è così. Semplicemente le imprese aggiustano il loro comportamento alterando altri margini in maniera significativa. Per esempio un costo di licenziamento “piccolo”, quale quello che dal 1990 grava sulle imprese con meno di quindici dipendenti (descritto sopra), ha effetti importanti sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita dalle imprese. Dopo il 1990 sembra infatti che le assunzioni e le cessazioni di rapporti a tempo indeterminato siano calate del 13 e del 15 percento annuo, rispettivamente, nelle imprese piccole rispetto alle grandi, senza però influire sul livello medio di occupazione. La riforma ha quindi fornito maggiore stabilità agli occupati imponendo però code più lunghe per l’accesso ai posti protetti (come mostrato in questo lavoro di Kugler e Pica).
Tale maggiore stabilità tuttavia non è gratuita e, forse inaspettatamente, non la pagano solo gli outsiders attraverso tempi di attesa più lunghi. Un aspetto spesso ignorato dei costi di licenziamento consiste nella possibilità che le imprese li facciano pagare almeno in parte ai lavoratori attraverso minori salari. Un’ulteriore analisi della riforma del 1990 da noi recentemente condotta (e alla quale rimandiamo per i dettagli) mostra in effetti che i salari settimanali si riducono in media in un range che va dallo 0.4% all’1% circa dopo la riforma nelle imprese piccole rispetto alle grandi. I lavoratori già presenti in azienda non subiscono riduzioni del salario reale ma i nuovi assunti entrano con salari d’ingresso minori. Inoltre, l’effetto è più marcato per i “colletti blu” con meno di 30 anni e nelle regioni nelle quali il tasso di occupazione maschile è minore. Sembra quindi che le imprese traslino il maggior costo soprattutto sui lavoratori che, per caratteristiche individuali o di mercato, hanno un minore potere di contrattazione.
Quanta parte del costo di licenziamento viene traslata sul lavoratore? Secondo le nostre stime dallo 0,4% all’1% del salario settimanale medio (quest’ultimo e’ pari a 313 euro – prezzi costanti 1995 – nei nostri dati). Anche cumulato nel tempo questo effetto sembra piccolo, ma va confrontato con il valore atteso (scontato) del costo di licenziamento sopportato dall’imprenditore, che deve tener conto della probabilità di licenziare e della probabilità di perdere in giudizio (grossomodo pari al 50% secondo questo studio di Galdón-Sánchez e Güell). Nella tabella sottostante illustriamo vari scenari assumendo una riduzione del salario dell’1% a settimana per diverse probabilità di licenziamento dal 7% al 15%. La traslazione è decrescente nella probabilità di licenziamento perché è pari alla riduzione del salario del lavoratore (che non varia al variare della probabilità di licenziamento) diviso il costo atteso di licenziamento che è invece ovviamente crescente nella probabilità di licenziamento. La tabella mostra che il trasferimento dei costi di licenziamento dalle imprese ai minori salari dei lavoratori varia in un range compreso tra il 46% e il 98% a seconda delle ipotesi sulla probabilità di licenziamento, un ammontare sostanziale.
Probabilità di licenziamento: | ||
7% | 10% | 15% |
Traslazione del costo di licenziamento: | ||
98% | 69% | 46% |
Riassumendo, fin qui sembrerebbe che i costi di licenziamento offrano stabilità ai lavoratori – che la pagano attraverso minori salari e code più lunghe per ottenere un posto protetto – senza però danneggiare il livello di attività dell’economia nel suo complesso, visto che lo stock di occupati non sembra variare. Una conclusione del genere presuppone però che la produttività degli occupati sia costante. È invece plausibile pensare che la produttività delle imprese sia influenzata dai costi di licenziamento perché questi alterano gli incentivi ad investire in capitale, sia fisico che umano. Su questo tema non esistono studi empirici specifici per l’Italia. Uno studio basato su un campione di imprese europee (Cingano et al., 2010) suggerisce però che le restrizioni ai licenziamenti abbiano un effetto negativo sull’investimento per unità di lavoro, lo stock di capitale per unità di lavoro e la produttività del lavoro. Le stime indicano che una riduzione dei costi di licenziamento dal livello della Grecia (90esimo percentile del livello di protezione) a quello della Danimarca (10mo percentile) produrrebbe un incremento dell’11,2%, dell’11,4% e del 7% di investimenti, stock di capitale e produttività del lavoro, rispettivamente. L’effetto si attenua però al crescere della dimensione e delle risorse finanziarie delle imprese; si attenua cioè per le imprese che dispongono (presumibilmente) di un migliore accesso al credito.
Questo spinge a pensare che le imprese che hanno scarso accesso al credito, a fronte di maggiori costi di licenziamento, non riescono a sostituire il fattore diventato relativamente più caro (il lavoro) con il fattore diventato relativamente meno caro (il capitale) e che sono invece costrette a tagliare gli investimenti e a ridurre il rapporto capitale/lavoro con una ricaduta negativa sulla produttività. Corollario di questo risultato è che un mercato del credito efficiente può ridurre (e magari annullare) l’effetto negativo dei costi di licenziamento sulla produttività facilitando l’accumulazione di capitale e l’adozione di nuove tecnologie.
Ci sembra di poter concludere che le restrizioni ai licenziamenti, i cui benefici in termini di stabilità sono chiari, hanno anche dei costi. In nessuna delle dimensioni analizzate (dimensioni d’impresa, flussi di occupazione, salari, produttività e investimenti) i costi sono tali da poter dire che, presi uno per uno, siano davvero insopportabili. Ma come si suole dire, è la somma che fa il totale.
- Che fare?
Sulla base dell’evidenza empirica descritta cerchiamo infine di capire se c’è lo spazio per pensare ad una riforma che – a parità di protezione del lavoratore – possa ridurre i costi della protezione stessa, e quindi ridurre le inefficienze di cui sopra. Il punto di partenza del nostro ragionamento è il dato secondo il quale a fronte di una decisione di reintegro del giudice, solo in rarissimi casi il lavoratore sceglie di rientrare nel posto di lavoro optando invece per l’indennità alternativa di quindici mensilità. Di conseguenza, ci sembra che una riforma articolata come segue possa offrire un livello di protezione analogo a quello offerto dalla legislazione attuale, con costi minori per le imprese:
- ciascun lavoratore riceve per legge dall’impresa una sostanziosa indennità monetaria – crescente con l’anzianità – al momento del licenziamento;
- il lavoratore che rifiuta l’indennità può agire in giudizio (per esempio in caso di discriminazione). In questo modo perderà l’indennità monetaria prevista ex lege ed affronterà il rischio del giudizio, al termine del quale il giudice potrebbe ovviamente dargli (come già oggi, del resto) torto o ragione. In quest’ultimo caso, il lavoratore (come previsto dalla legislazione attuale) verrebbe reintegrato o riceverebbe – a sua scelta – un’indennità ancora maggiore (oggi fissata in 15 mensilità).
Si noti che si tratta di una riforma che garantisce almeno lo stesso livello di protezione esistente oggi. Si introduce infatti, a parità di possibilità di agire in giudizio per ottenere il reintegro, la possibilità per il lavoratore di percepire (a sua scelta) un’indennità monetaria automatica al momento del licenziamento (indennità oggi pari a zero). Se il lavoratore sceglie invece di ricorrere in giudizio perde il diritto all’indennità monetaria automatica, ma può ottenere il reintegro dal giudice.
Il guadagno di efficienza deriva dal fatto che la presenza dell’indennità monetaria automatica dovrebbe far sì che il numero dei ricorsi in giudizio (e i costi ad esso legati) si riducano. Con questo sistema, infatti, i lavoratori faranno un calcolo costi-benefici: meglio un’indennità ex lege oggi o un eventuale reintegro nel futuro (un futuro che può essere molto distante nel tempo data la lentezza della giustizia civile in Italia)? Non tutti i licenziamenti economici verrebbero presumibilmente impugnati davanti al giudice come invece avviene oggi. Il costo per le imprese sarebbe quindi minore perché verrebbe eliminato (almeno in parte) l’inutile costo dell’incertezza del giudizio con ricadute positive sulle dinamiche del mercato del lavoro, sui salari e sulla produttività.
Come ulteriore corollario i contratti a tempo indeterminato diventerebbero più convenienti rispetto alle varie tipologie di contratto a tempo determinato e ai molti modi che oggi esistono di mascherare dei lavoratori dipendenti come finti autonomi. Questa a noi pare l’unica via per ridurre davvero la dualità del mercato del lavoro.
DUE
http://noisefromamerika.org/articolo/protezione-occupazione-cosa-sappiamo-cosa-no-parte-1-teoria
Protezione dell’occupazione: cosa sappiamo e cosa no. Parte 1: teoria
27 febbraio 2012 • alberto bisin e giulio zanella
Seconda puntata della serie inaugurata dal post di Pica e Leonardi. La battaglia a quattro tra governo, parlamento, sindacati dei lavoratori e sindacati degli imprenditori è già incandescente e in parte ideologizzata. È utile quindi riassumere quello che sappiamo dalla teoria economica e dall’evidenza empirica circa gli effetti della legislazione sulla protezione dell’occupazione. Si tratta di un’area di ricerca molto attiva e molto affollata, per cui ci limiteremo a degli highlights a beneficio dei non specialisti. In questo primo post iniziamo con la teoria. Seguirà nei prossimi giorni il post con l’evidenza.
- Premessa, definizioni e un chiarimento.
Il governo Monti ha promesso che quella del mercato del lavoro sarà la prossima grande riforma per tentare di rianimare il paese, e che sarà pronta entro marzo (in questo post facciamo finta di crederci nonostante quello che sta succedendo in questi giorni con la riforma precedente, quella che avrebbero dovuto essere delle liberalizzazioni). Si tratterebbe del più importante tentativo di trasformazione dell’intero mercato del lavoro italiano degli ultimi 40 anni, da quando cioè fu introdotto lo statuto dei lavoratori. La trasformazione di 15 anni fa (correva l’anno 1997 e il primo governo Prodi varò il pacchetto Treu segnando l’inizio della propria fine un anno più tardi) operò una riforma parziale. Se è vero che la riforma Treu (e il suo proseguimento, la “legge Biagi”) aumentò la flessibilità del mercato del lavoro, lo fece al costo di accentuare quel sistema duale le cui nefaste conseguenze sono oggi parte del problema cui occurre porre rimedio. Questo, ovviamente, per non intaccare gli insiders.
Protezione del’occupazione. Cominciamo con le definizioni. La protezione legale dell’occupazione consiste di norme che restringono o rendono costosa la possibilità di licenziare un lavoratore. Secondo la classificazione dell’OCSE esse consistono in: notifica del licenziamento con x settimane di anticipo, pagamento di un indennizzo al lavoratore licenziato pari a y settimane di stipendio, compensazione o reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa, limitazioni temporali al periodo di prova o alla durata e all’utilizzo dei contratti a tempo determinato, regolamentazione delle agenzie di lavoro temporaneo, procedure per i licenziamenti collettivi. Tutti i paesi avanzati utilizzano una combinazione di queste norme, come riassunto nel documento OCSE appena citato. Nel post di Pica e Leonardi è ricostruita e commentata l’evoluzione delle norme in materia di licenziamenti in Italia.
In Italia, l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori non è l’unica forma di protezione dell’occupazione, ma è la principale per aziende con più di 15 lavoratori. In sostanza, esso sancisce l’obbligo di risarcimento e reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore che sia stato licenziato senza “giusta causa.” Il giudice, in linea di principio, sancisce l’assenza della giusta causa ogni volta che il lavoratore licenziato non abbia commesso qualcosa che comprometta il rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro. In realtà però il vincolo della giusta causa è necessariamente ambiguo e lasciato all’interpretazione discrezionale del giudice. Di conseguenza, al datore di lavoro che voglia licenziare un lavoratore è imposto anche un costo – il reintegro in caso il giudice ritenga assente la “giusta causa”. Il costo è aleatorio (chissà cosa decide il giudice) e dipendente dal funzionamento del sistema giudiziario – più inefficiente il sistema (ad esempio, più lunga è la causa) più alto è il costo atteso. Questo è inefficiente, perché il costo pesa sulle imprese ma senza realmente beneficiare il lavoratore, che anzi è anch’egli sottoposto all’alea dovuta all’arbitrarietà e alla discrezionalità del giudice.
Abbiamo parlato (e parleremo sotto) di protezione dell’occupazione, intendendo protezione del posto di lavoro. Questa cosa è molto diversa dalla protezione del lavoratore, una distinzione che è tanto importante quanto intorbidita nel dibattito sulla riforma dell’articolo 18. Quest’ultimo, laddove si applichi, protegge il posto di lavoro (vedi sopra) ma non il lavoratore licenziato con giusta causa o per licenziamento collettivo, che in Italia è lasciato in balia di un sistema di ammortizzatori sociali del tutto inadeguato. La riforma prospettata dal governo Monti trasformerebbe la protezione di cui godono oggi alcuni posti di lavoro in protezione (parziale) per tutti i lavoratori. Torneremo su questa distinzione alla fine del post. Per il momento il lettore deve tenere bene a mente che stiamo parlando degli effetti di proteggere il posto di lavoro. Iniziamo subito.
- Cosa sappiamo dalla teoria
Da un punto di vista teorico il funzionamento di qualunque meccanismo di protezione legale dell’occupazione è, in prima battuta, semplice da caratterizzare.
Un primo modello. Iniziamo da una economia in cui le imprese competono in un mercato perfettamente concorrenziale per i propri prodotti. Il salario è invece determinato dalla contrattazione collettiva – che non discutiamo né caratterizziamo se non per dire che sarà più alto del salario concorrenziale.
In questo caso:
- Dato un numero di occupati oggi, una maggiore protezione dell’occupazione riduce il numero di lavoratori che perdono il lavoro domani. O direttamente perché è vietato licenziare o indirettamente perché l’impresa licenzierà meno se è più costoso farlo.
- In entrambi i casi, a parità di salario il costo di assumere un lavoratore oggi sarà più alto per le imprese, perché esse si accollano il rischio di dover occupare domani lavoratori che ex post potrebbero non voler occupare e/o perché sostengono i maggiori costi attesi di licenziare domani questi lavoratori.
- La domanda di lavoro da parte delle imprese domani si riduce se la protezione dell’occupazione si traduce effettivamente in un maggiore costo del lavoro; cioè se i salari non sono ridotti in proporzione.
L’effetto sull’occupazione domani, quindi, non è determinato. A parità di salario le imprese licenziano meno ma anche assumono meno. Idem per disoccupazione e salari. Se nulla possiamo dire riguardo a quello che succede domani all’occupazione e alla disoccupazione possiamo però proiettare l’analisi ad un’economia stazionaria, una specie di lungo periodo in cui le imprese abbiano operato tutti i riaggiustamenti di capitale e lavoro resi necessari dall’ipotetico aumento dei livelli di protezione del lavoro. In questo stato stazionario, ogni lavoratore che va in pensione è sostituito da un nuovo assunto. Un’astrazione, naturalmente, che ci serve a valutare gli effetti nel medio periodo dell’introduzione di nuove forme di protezione dei lavoratori. Questa è l’economia che è bene avere in mente quando si confrontano paesi caratterizzati, tradizionalmente, da diversi livelli di protezione dei lavoratori – Italia e Grecia vs. Stati Uniti e Regno Unito, ad esempio.
In un’economia stazionaria maggiori protezioni a salari invariati sono quindi associate a minore occupazione. In questa economia, infatti, l’occupazione è determinata esclusivamente da quanto le imprese assumono a dati livelli di protezione. In altre parole, gli effetti dell’aumento dei livelli di protezione si esauriscono nel corso del processo di aggiustamento, quando l’ultimo lavoratore che l’impresa non vuole sostituire con un nuovo assunto sia andato in pensione.
Riassumendo con parole diverse, un aumento della protezione del lavoro aumenta i costi dell’impresa a parità di salario e quindi, in stato stazionario, dopo i necessari riaggiustamenti: o i salari scendono per compensare il costo della protezione o scende la domanda di lavoro da parte dell’impresa (e quindi l’occupazione – tutti vogliono lavorare nella nostra semplice economia, nessuno che esca dalla forza lavoro per il momento). Tipicamente, scenderanno i salari, ma non abbastanza da compensare il costo (a cosa servono sennò i sindacati?) e quindi scenderà anche l’occupazione. Oppure, se volete una storia senza sindacati, lo slittamento verso il basso della curva di domanda di lavoro da parte delle imprese farà sì che il nuovo punto di incontro con la curva di offerta di lavoro (che ha pendenza positiva) sia a un punto in cui sia il salario sia l’occupazione sono più bassi. È anche importante notare che i costi per le imprese di un aumento della protezione del lavoro tenderanno a essere maggiori dei vantaggi per i lavoratori perché una parte dei vantaggi va alla burocrazia che garantisce la protezione, inclusi sindacalisti, giudici, avvocati.
In questa economia stazionaria, quindi, più alta è la protezione, minore la domanda di lavoro da parte dell’impresa e, ceteris paribus, minore l’occupazione e minore il salario.
Eterogeneità. Questa prima analisi teorica degli effetti dei meccanismi di protezione dei lavoratori è valida, appunto, solo in prima battuta. Per capire bene quale sia l’effetto teorico di queste norme è necessario riconoscere che il mercato del lavoro non è un mercato concorrenziale qualunque, come quelli in cui si scambiano mandarini e mele. Le mele e i mandarini (di un dato tipo, per esempio renette del trentino), infatti, sono beni omogenei la cui qualità è facilmente verificabile. I servizi forniti da un lavoratore e i posti di lavoro offerti dalle imprese, al contrario, sono eterogenei (ogni lavoratore è diverso da un altro per caratteristiche ed abilità e ogni posto di lavoro è diverso da un altro per condizioni di lavoro e mansioni).
Con imprese e lavoratori eterogenei c’è un’altra ragione perché un aumento della protezione del lavoratore generi inefficienze. Supponiamo (l’ipotesi è ragionevole) che le decisioni di assunzione e di licenziamento siano dovute a un calcolo di produttività. Le imprese assumono un lavoratore sulla base della sua produttività attesa, date cioè le sue caratteristiche osservabili (livello di istruzione, conoscenza delle lingue, ecc.). Nel corso del rapporto di lavoro alcune delle caratteristiche del lavoratore che non sono facilmente osservabili ex ante ma che hanno un effetto potenzialmente importante sulla sua produttività (ad esempio serietà, disponibilità al lavoro straordinario, propensioni e attitudini psicologiche varie, ecc.) vengono rivelate. Alcune di queste caratteristiche non osservabili sono di particolare importanza per alcune imprese e non altre (ad esempio, in alcune imprese è importante essere socievoli, perché il lavoro è lavoro di gruppo; in altre meno). Le imprese vincolate dalla legislazione a protezione dell’occupazione, in generale, potrebbero voler licenziare per due ragioni: i) per chiudere o ridurre la produzione perché sono inefficienti, ii) per sostituire il lavoratore la cui produttività è ora rivelata con uno che ci si aspetta essere più produttivo, viste le caratteristiche di quello assunto in precedenza e le caratteristiche osservabili dei lavoratori disponibili sul mercato del lavoro. Questo significa che l’impossibilità di licenziare riduce la produttività media del lavoro nell’economia, perché i) i lavoratori protetti non hanno interesse ad essere efficienti ex post; ii) i lavoratori non sono in generale assegnati alle imprese la cui produttività più dipende dalle loro caratteristiche; iii) le imprese inefficienti non sono sostituite da altre potenzialmente più efficienti. In altre parole, la produttività del lavoro è più bassa in un’economia ad alte protezioni. Questo è importante perché, contrattazione collettiva o meno, sindacati o non sindacati, in uno stato stazionario, se le imprese sono competitive e a parità di altre condizioni, il salario tende a essere uguale alla produttività. Se i mercati in cui operano le imprese non sono concorrenziali allora l’effetto sul salario diventa incerto: conta non solo la produttività ma anche il potere contrattuale dei lavoratori nella contrattazione collettiva, che è maggiore quando l’occupazione è protetta.
Un sistema duale. Fin qui abbiamo assunto che la protezione dell’occupazione si applicasse a tutti i lavoratori. In realtà sappiamo che in molti mercati del lavoro (tra cui quello italiano) si è introdotta flessibilità creando un sistema duale in cui un gruppo di lavoratori è protetto dal licenziamento e un altro no. Questo secondo gruppo è noto come “i precari”. In questo caso, partendo da un regime di protezione per tutti, segue dall’analisi sopra che le imprese assumeranno più lavoratori attraverso il canale precario, e che questi saranno i primi ad essere licenziati a fronte di shock negativi, anche se fossero più produttivi dei protetti. In altre parole, i lavoratori precari vengono utilizzati per creare un margine di flessibilità in un sistema altrimenti rigido. Inoltre, man mano che i protetti si ritirano dalla forza lavoro le imprese tenderanno a sostituirli con precari. Anche qui è utile ragionare in termini di economia stazionaria: finiti gli aggiustamenti in un’economia osserveremo tutti lavoratori precari? È possibile. Ma è possibile (probabile, diremmo) anche che almeno ad alcuni lavoratori siano offerte protezioni, cioè che si abbiano un mix di precari e protetti in stato stazionario.
Concentriamoci sul secondo caso: qui l’eterogeneità di cui parlavamo sopra è cruciale: se tutti i lavoratori fossero uguali non osserveremmo un mix di precari e protetti, ma avremmo davvero tutti precari. Ma il punto da non dimenticare, a questo proposito, è che le imprese per alcuni tipi di lavoro e con alcuni lavoratori possono avere interesse ad investire nel capitale umano specifico all’impresa dei lavoratori stessi. Queste sono un misto di cognizioni tecnologiche e sociali (come funziona quella particolare macchina, quali sono i pregi e i difetti nascosti del prodotto dell’impresa, come parlare a quel particolare dirigente, o quel particolare cliente, chi chiamare quando si rompe un computer…). In questo caso, contratti precari non sono appropriati, perché soggetti a restrizioni varie nella durata e nel rinnovo. E quindi, per quanto la protezione del lavoratori costi, le imprese possono preferire questa a un contratto precario per un numero limitato di posti di lavoro. Ma è chiaro che questo tipo di posti “non-precari” saranno minori in stato stazionario maggiore siano le protezioni; cioè le imprese cercheranno di strutturare le proprie operazioni produttive ed amministrative il più possibile attorno a lavori che possano essere offerti a precari. A chi poi offriranno i (relativamente pochi) posti non precari, le imprese, dipende da condizioni varie ed eterogenee, ma è naturale teorizzare che tenderanno a farlo con lavoratori maturi (di esperienza, che abbiano lavorato già magari in forma precaria nell’impresa e che abbiano quindi già rivelato la propria produttività non-osservabile nell’impresa stessa), maggiormente istruiti, e soprattutto a lavoratori che abbiano relativamente poca mobilità tra imprese e dentro e fuori dal mercato del lavoro (e qui cascano le donne). Insomma, la teoria suggersice, tagliando con l’accetta, che siano giovani e donne a fare i precari, anche in stato stazionario.
Nel sistema duale con mix protetti/precari in equilibrio, quindi, l’occupazione è maggiore ma anche più volatile, e selettivamente tale: è il cuscinetto di precari a contrarsi ed espandersi. Per quanto riguarda l’accumulazione di capitale umano specifico all’impresa, ciò implica che per i lavoratori precari questo capitale viene continuamente distrutto e quindi viene meno l’incentivo ad accumularlo in primo luogo, come dicevamo. Questo, a sua volta, esercita una pressione verso il basso sul salario dei precari, perché questo è il “rendimento” del capitale umano. Ma cosa succede ai salari, in generale, in questo sistema duale? Difficile dirlo, perché ci sono più forze che spingono in direzioni diverse. Per esempio, l’occupazione flessibile è meno costosa per l’impresa (nel senso discusso sopra) e questo spinge nella direzione di far diminuire il rapporto tra salario protetto e salario precario. Prendiamo due lavoratori identici, uno protetto e uno precario (senza chiederci perché se sono identici sono protetto uno e precario l’altro): il salario del secondo deve essere maggiore perché per l’impresa il costo di licenziarlo in futuro è più basso. Se poi i due lavoratori sono avversi al rischio c’è un altro motivo per cui il salario del precario deve essere maggiore: questo si assume maggiore rischio accettando l’occupazione precaria. Tuttavia, lavoratori protetti e precari non sono identici: nell’economia stazionaria con mix protetti/precari i secondi hanno probabilmente più bassa produttività e/o piu’ basso capitale umano specifico all’impresa, e questo spinge in alto il rapporto tra salario protetto e salario precario. Inoltre, se i salari si determinano mediante contrattazione (ossia, le imprese operano in mercati dei prodotti non concorrenziali per cui esiste un surplus di profitti da oligopolio/monopolio da spartire tra capitale e lavoro), i lavoratori protetti hanno maggiore potere contrattuale di quelli precari, e anche questo spinge il rapporto in alto. Tutti sappiamo che in Italia i precari hanno salari più bassi dei protetti: ciò suggerisce che queste due forze prevalgono sulle prime due.
Non occupati né disoccupati. Nelle statistiche sul mercato del lavoro i disoccupati sono coloro che non hanno lavoro ma “lo cercano” (evitiamo di entrare nella definizione di “lo cercano”). Esiste quindi in principio tutto un gruppo di persone che pur in età di lavoro, non lavorano né lo cercano. Per capire questo fenomeno, bisogna buttare a mare l’ipotesi che abbiamo mantenuto sino ad ora che chiunque nella nostra economia vuole lavorare. Alcuni preferiscono non farlo. La teoria implica quindi che questi siano maggiormente rappresentati tra i) coloro cui il mercato del lavoro offre cattive condizioni (cioè lavori precari a basso salario) e ii) che allo stesso tempo possano guadagnarsi (o procurarsi) da vivere altrimenti. Indovina indovinello, chi sono questi? Ancora una volta, giovani e donne, sopratutto quelli con basso livello di istruzione, che restano o si ritirano “in famiglia”.
Frizioni. Fin qui abbiamo assunto che posti di lavoro eterogenei e lavoratori eterogenei si incontrassero senza alcuna difficoltà sul mercato del lavoro. La dimensione temporale era quindi irrilevante. In realtà è necessario che potenziali lavoratori e potenziali datori di lavoro si cerchino (a lungo, talvolta) prima di trovarsi. Questo introduce un elemento non competitivo nell’equilibrio del mercato del lavoro.
Per capire questa variante dobbiamo pensare al mercato del lavoro come a un insieme di flussi di lavoratori e imprese tra diversi stati. Più in particolare, semplificando parecchio, il lavoratore può essere in uno di due stati: occupato o non-occupato. Le imprese anche esse sono in uno di due stati, o hanno posti di lavoro vacanti o non ne hanno. La coesistenza di lavoratori disoccupati e posti di lavoro vacanti (un fatto empirico) sta lì a dimostrare che nel mercato del lavoro le frizioni sono importanti: ci vuole tempo perché il lavoratore giusto e l’impresa giusta si trovino a vicenda.
Nuove persone entrano continuamente nel mercato del lavoro come disoccupati (i più fortunati direttamente come occupati) e iniziano a cercare un lavoro. Quando lo trovano transitano dal gruppo dei disoccupati a quello degli occupati, e il posto di lavoro vacante diventa occupato. Altri lavoratori fanno il percorso inverso quando il loro posto di lavoro scompare o quando lo lasciano per cercarne un altro (nel qual caso quel posto di lavoro torna nel gruppo dei posti vacanti se l’impresa che lo aveva creato cerca un sostituto). Infine, nuovi posti di lavoro vengono creati e fanno parte dei posti vacanti finché non vengono occupati da qualcuno. Ci sono poi flussi da disoccupazione e occupazione al gruppo che è fuori dalla forza lavoro (esempi: pensionamenti e lavoratori scoraggiati), e viceversa. Questi flussi per unità di tempo tra i vari gruppi ne determinano la consistenza (stock) in ogni istante. Di particolare interesse sono gli stock di occupazione e disoccupazione, la loro composizione, e la durata della permanenza in essi.
In questo mondo dinamico e con frizioni permane (è ovvio) la stessa ambiguità discussa sopra circa l’effetto della protezione del lavoratore su occupazione, disoccupazione, salari. Tuttavia possiamo concludere che in equilibrio sia occupazione sia disoccupazione avranno maggiore durata. Avremo cioè occupati di lungo periodo (carriere ininterrotte di 35 anni, per esempio) e disoccupati anch’essi di lungo periodo (persone che restano disoccupate per un anno o due dopo aver perso il lavoro, per esempio). Il motivo è lo stesso: la protezione riduce i flussi in entrata e in uscita sia tra i disoccupati sia tra gli occupati. Nella misura in cui la disoccupazione di lunga durata si conclude con una transizione dalla disoccupazione al gruppo fuori dalla forza lavoro e scoraggia l’inizio della ricerca di un lavoro, la protezione dell’occupazione genera anche maggiori flussi in entrata e minori flussi in uscita dal gruppo non forza lavoro: in altre parole, diminuisce il tasso di partecipazione. Il modello implica anche che se ci sono soggetti che più frequentemente di altri entrano ed escono dalla forza lavoro, i primi avranno tassi di disoccupazione più elevati, maggiore durata della disoccupazione e, in ultima istanza, una minor tasso di partecipazione al mercato del lavoro. Per le ragioni di cui si diceva sopra, la teoria implica che questi soggetti marginali siano soprattutto le donne e i giovani. Gli insiders al mercato del lavoro, invece (cioè gli occupati da molto tempo e che non devono uscire temporaneamente dal mercato per rientrarvi successivamente) faranno prevalentemente parte del gruppo degli occupati e quindi avranno un tasso di disoccupazione minore della media e un più alto tasso di partecipazione.
- Conclusione
Cosa dovremmo aspettarci se quest’anno il governo riuscisse ad allentare il regime di protezione dell’occupazione attualmente vigente in Italia? La teoria economica predice che il mercato del lavoro diventerebbe più dinamico: più lavoratori perderebbero il lavoro ma più persone (incluse quelle che l’avessero perso a causa della maggiore flessibilità) ne troverebbero uno. La durata della disoccupazione si ridurrebbe e aumenterebbe la produttività dell’economia a causa della maggiore efficienza del processo di riallocazione di lavoro e capitale. L’aumento di produttività indurrebbe un aumento dei salari, almeno nei settori concorrenziali. Inoltre, i gruppi più marginali nel mercato del lavoro (giovani e donne, in particolare) avrebbero solo da guadagnare: per essi (come gruppo) la teoria predice maggiore occupazione e minore durata della disoccupazione. Infine, i contratti a tempo determinato inizierebbero ad essere sostituiti con quelli a tempo indeterminato (meno “precari”). L’evidenza empirica disponibile conferma questi fatti. Ma per questo dovete aspettare la prossima puntata.
TRE
http://noisefromamerika.org/articolo/protezione-occupazione-cosa-sappiamo-cosa-no-parte-2-evidenza
Protezione dell’occupazione: cosa sappiamo e cosa no. Parte 2: evidenza
5 marzo 2012 • giulio zanella e alberto bisin
Terza puntata della serie. Nel precedente post abbiamo illustrato quello che sappiamo dalla teoria economica circa gli effetti di una maggiore o minore protezione legale del posto di lavoro, distinguendola dalla protezione del lavoratore, di cui per il momento non parliamo. In questo post illustriamo brevemente quello che sappiamo dall’evidenza empirica al riguardo.
1. Il problema dell’identificazione
In che modo possiamo valutare empiricamente gli effetti della protezione legale dell’occupazione? Idealmente, dovremmo eseguire un esperimento controllato simile a questo: prendere molti mercati del lavoro identici ma non comunicanti, proteggere l’occupazione in meta’ di essi (scelti a caso), e non proteggerla nell’altra meta’. Poiche’ i due gruppi di mercati sono identici in tutto e per tutto eccetto che nella protezione dell’occupazione (si noti un aspetto cruciale: non essendo questi mercati comunicanti i lavoratori non possono spostarsi dal gruppo non protetto a quello protetto e viceversa dopo l’inizio dell’esperimento) ogni differenza che osserviamo tra i due gruppi deve essere dovuta alla protezione dell’occupazione. Cosi’ procedono ad esempio i ricercatori in medicina quando vogliono testare gli effetti di un nuovo composto chimico.
Esperimenti di questo tipo (si chiamano esperimenti controllati) sono generalmente difficili in economia, se non ricorrendo ad ardite finzioni in “laboratori” reali o artificiali (gli scienziati sociali, ahinoi, non sono fortunati come gli scienziati naturali). Ultimamente si fa qualcosa di simile in economia dello sviluppo, ad esempio cambiando il programma scolastico nelle scuole di meta’ dei villaggi di una regione e non nell’altra meta’, per poi vedere l’effetto che fa. Per quanto riguarda l’economia del lavoro, che ci interessa qui, in principio si potrebbe generare una variazione sperimentale della policy in alcune aree di un paese al fine di valutarne gli effetti localmente prima di decidere se estendere il regime sotto sperimentazione all’intera economia. Ad esempio, in Italia Pietro Ichino insiste da anni sulla necessita’ di sperimentare localmente il modello di “flexsecurity” di cui lui e altri senatori sono promotori in parlamento. Ma sembrano esistere barriere culturali (per ora) insormontabili che rendono impossibili sperimentazioni di questo tipo.
Questa impossibilita’ illustra bene il problema che fronteggiamo quando cerchiamo di isolare l’effetto causale della protezione dell’occupazione sulla performance del mercato del lavoro: la protezione legale non e’ mai stabilita arbitrariamente; c’e’ sempre una ragione. Per esempio, un governo potrebbe essere indotto a proteggere l’occupazione quando questa si sta riducendo a causa di una contrazione dell’attivita’ economica. In questo caso non sarebbe la protezione a causare minore occupazione ma il contrario. La possibilita’ di causalita’ inversa genera quello che gli economisti chiamano il problema della “identificazione”. Isolare l’effetto causale di una politica (come la protezione dell’occupazione) significa “identificare” questo effetto. E identificarlo, senza esperimenti controllati, e’ operazione difficile e ogni tanto un po’ arbitraria. Questo non significa che dobbiamo necessariamente disperarci.
A volte il contesto istituzionale di una riforma genera involontariamente qualcosa di simile a un esperimento, come quando si stabilisce una soglia (15 dipendenti, per esempio) al di sopra della quale la protezione si applica mentre al di sotto non si applica. L’idea e’ di sfruttare il fatto che il numero 15 e’ stato scelto arbitrariamente, che le imprese di 15 dipendenti sono, in media, molto simili alle imprese di 16 dipendenti, salvo il diverso regime legislativo. Questo, in teoria, puo’ generare dati simili a quelli ottenibili con un esperimento controllato. Il lavoro di Pica e Leonardi riassunto nel loro post e’ un esempio di ricerca che sfrutta “esperimenti naturali” di questo tipo.
2. Breve riassunto dell’evidenza empirica
Un’ottima rassegna recentemente scritta da Per Skedinger riassume tutto quello che di rilevante abbiamo imparato dall’analisi empirica durante gli ultimi 20 anni circa gli effetti sull’occupazione della protezione legale del posto di lavoro. Procediamo qui in maniera ben poco originale facendo il riassunto del riassunto (senza citare i singoli studi, il lettore interessato puo’ consultare la bibliografia della rassegna di Skedinger).
La prima generazione di studi ha utilizzato dati aggregati per paesi diversi (tipicamente paesi OCSE), ripetuti nel tempo. L’utilita’ di questi dati e’ limitata perche’ oltre ai problemi di misurazione (esprimere in una metrica comune legislazioni talvolta non del tutto confrontabili) c’e’ poca variabilita’ temporale dei regimi di protezione legale dell’occupazione all’interno dei paesi OCSE. I risultati sono spesso contrastanti da uno studio all’altro. Quelli che sembrano robusti sono i seguenti:
(a) In presenza di protezione dell’occupazione i flussi da occupazione a disoccupazione e viceversa sono minori.
(b) In presenza di protezione dell’occupazione, le donne e i giovani fanno peggio degli altri gruppi in termini sia di occupazione (piu’ bassa) sia di disoccupazione (piu’ alta)
Entrambe queste regolarita’ empiriche sono in linea con quanto predetto dalla teoria. Questo e’ di per se’ rassicurante, ma gli studi che le fanno emergere non risolvono in maniera chiara il problema della “identificazione”. Potremmo quindi essere in presenza di relazione spurie, non causali.
Una seconda generazione di studi empirici ha utilizzato dati per paesi diversi ripetuti nel tempo e disaggregati a livello di impresa per studiare effetti che vanno oltre quelli sui livelli aggregati di occupazione e disoccupazione. Da questi studi emergono ulteriori risultati di interesse:
(c) In presenza di protezione dell’occupazione la creazione e la distruzione di posti di lavoro sono entrambi piu’ lenti. Si riduce cioe’ la velocita’ di riallocazione dei lavoratori. Anche questa evidenza e’ in linea con la teoria.
(d) Tutti i precedenti effetti (a, b, c) sono piu’ forti in presenza di contrattazione collettiva, cioe’ quando i salari fanno piu’ difficolta’ ad aggiustarsi.
(e) In presenza di protezione dell’occupazione le imprese diventano piu’ selettive e assumono con maggiore probabilita’ lavoratori piu’ istruiti.
Anche in questo tipo di studi, l’identificazione e’ un po’ traballante. Ma un’ultima generazione di studi empirici ha utilizzato dati di singoli paesi, sfruttando tutte quelle riforme che, influenzando un gruppo ma non un altro, generano involontariamente una situazione che assomiglia a un esperimento controllato come illustrato sopra. L’identificazione e’ quindi piu’ solida. E’ importante allora che questi studi confermano i precedenti risultati circa l’effetto negativo della protezione sulla dinamica del mercato del lavoro (transizioni da occupazione a disoccupazione e viceversa, e riallocazione dei lavoratori; punti a, b, c) e circa l’effetto sulla selettivita’ delle imprese (punto e). In aggiunta, da questi studi sappiamo che:
(f) Quando si riduce la protezione dell’occupazione le imprese iniziano a sostituire contratti temporanei con contratti permanenti. Cioe’ piu’ persone vengono assunte con contratti a tempo indeterminato.
Empiricamente ci sono poi effetti su altre variabili, come i salari e i tassi di investimento (mentre e’ ormai assodato che in Italia non sembrano esserci effetti rilevanti sul tasso di crescita delle imprese). Di questi altri effetti hanno gia’ parlato Pica e Leonardi.
3. Conclusione
Cosa dovremmo aspettarci se quest’anno il governo riuscisse ad allentare il regime di protezione dell’occupazione attualmente vigente in Italia? La teoria economica predice che il mercato del lavoro diventerebbe piu’ dinamico: piu’ lavoratori perderebbero il lavoro ma piu’ persone ne troverebbero uno. La durata della disoccupazione si ridurrebbe e aumenterebbe la produttivita’ dell’economia a causa della maggiore efficienza del processo di riallocazione di lavoro e capitale. L’aumento di produttivita’ indurrebbe un aumento dei salari. Inoltre, i gruppi piu’ marginali nel mercato del lavoro (giovani e donne, in particolare) avrebbero solo da guadagnare: per essi (come gruppo) la teoria prevede maggiore occupazione e minore durata della disoccupazione. Infine, i contratti a tempo determinato inizierebbero ad essere sostituiti con quelli a tempo indeterminato (meno “precari”). L’evidenza empirica disponibile (sebbene parte di essa vada presa con cautela perche’ non e’ chiaro fino a che punto il problema dell’identificazione e’ risolto) conferma tutti questi risultati teorici e suggerisce che gli effetti sono tanto piu’ forti quanto piu’ e’ importante la contrattazione collettiva (che in Italia, come sappiamo, e’ molto importante). Infine, migliorerebbero anche le prospettive dei lavoratori meno istruiti e meno qualificati.
L’effetto di un allentamento del regime di protezione dell’occupazione creerebbe quindi, come ogni riforma controversa, vincenti e perdenti. La maggiore dinamicita’ del mercato del lavoro che ne risulterebbe suggerisce di procedere con una riforma complementare degli armortizzatori sociali, che oggi in Italia sono del tutto inadeguati a un ipotetico mercato in cui la riallocazione del lavoro e’ frequente, anche se rapida (nel senso di una minore durata della disoccupazione). Questa riforma complementare potrebbe ridurre i costi per i lavoratori associati alla riduzione delle protezioni. Alla domanda “ma da dove prendiamo le risorse per un serio sistema di assicurazione contro la disoccupazione?” rispondiamo cosi’: a conti fatti (li ha fatti Andrea Moro alle giornate nFA 2011 a Siena), un sistema di assicurazione contro la disoccupazione alla danese non costerebbe, a regime, molto piu’ del sistema di ammortizzatori sociali per i lavoratori oggi in vigore in Italia. E sarebbe per tutti, non per pochi.
Ma ci fermiamo qui. La partita sembra essere soprattutto politica, insomma. Si creerebbero, dicevamo, vincenti e perdenti. Sputtanare (suvvia, siamo stati bravi, noiosi, precisi, e accademici fino a qui, ci siamo trattenuti, fateci divertire almeno alla fine) chi racconta il contrario con sicumera e’ il nostro sogno di primavera (e abbiamo fatto pure la rima).
Tanti contratti, poco lavoro
Cosa accade quando si liberalizzano i contratti a tempo determinato come nel decreto sul lavoro appena varato, come primo atto del Governo Renzi? L’esperienza della Spagna è molto utile a riguardo. Nel 1984 il governo spagnolo liberalizzò i contratti a tempo determinato eliminando il requisito che l’attività svolta nell’ambito di questo contratto dovesse avere natura temporanea e rendendo ammissibili ripetute proroghe dello stesso contratto.
Un recente studio di Garcia-Perez, Ioana Marinescu e Judit Vall Castello analizza gli effetti di queste riforme. Si possono così riassumere: una vita lavorativa con più contratti temporanei, meno giorni di lavoro all’anno e salari più bassi.
I grafici qua sotto, tratti dallo studio, analizzano la situazione prima e dopo la riforma. Vanno letti comparando i punti vicino alla retta verticale che denota se l’individuo è stato affetto o meno dalla riforma. Il primo grafico mostra come le persone entrate nel mercato del lavoro nel 1985, dopo la riforma (parte destra del grafico), hanno avuto nell’arco di 15 anni un contratto a tempo determinato in più rispetto agli individui entrati prima della riforma (parte sinistra del grafico).
Nota: numero medio di contratti accumulati in base all’anno di nascita
Più contratti non significa più lavoro. Le persone entrate nel mercato del lavoro dopo la riforma hanno lavorato, a parità di altre condizioni, 313 giorni in meno nell’arco di 15 anni (21 giorni in meno all’anno). Questo il messaggio del grafico qui sotto che mostra sull’asse verticale le ore lavorate. In sintesi, quindi, più contratti di più breve durata di prima.
Nota: numero medio di giorni lavorati accumulati in base all’anno di nascita
Tutto questo avviene perché le persone perdono più spesso il lavoro e passano da un contratto all’altro. I grafici qui sotto guardano proprio al numero di episodi di disoccupazione e occcupazione. Aumentano entrambi, il che significa che la carriera dei temporales è ancora di più sull’ottovolante con frequenti passaggi dall’occupazione alla disoccupazione e viceversa.
Nota: numero medio di periodi passati in occupazione e disoccupazione in base all’anno di nascita
Infine quali effetti sui salari? Come mostra l’ultimo grafico, gli individui che sono entrati nel mercato del lavoro spagnolo dopo la riforma (parte destra del grafico) soffrono una riduzione delle retribuzioni dell’11,8%. E solo l’8% di questa perdita può essere associata alla diminuzione precedentemente illustrata di giorni di lavoro. La riforma ha quindi ridotto i salari orari, aumentando il divario fra contratti a tempo determinato e indeterminato.
Nota: numero medio di mensilità accumulate in base all’anno di nascita
(*) Non c’è alcuna variabile che influenza i due campioni del 1967 e del 1969 a parte la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato. Il contratto a tempo determinato dopo la riforma può avere una durata minima di 6 mesi e massima di 3 anni. Al termine di questo il lavoratore può essere assunto con contratto a tempo indeterminato oppure licenziato. Non viene invece modificata la legislazione per i contratti a tempo indeterminato. La proporzione dei lavoratori con contratto a tempo determinato in Spagna passa dal 10% degli anni ‘80 al 30% dei primi anni ’90.
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