Da “La lista della spesa” di Carlo Cottarelli
POSSIAMO SPENDERE QUANTO GLI ALTRI?
Possiamo permetterci quanto spendiamo? Possiamo permetterci di spendere quanto altri paesi? No, perché il debito pubblico di partenza rapportato al pil è più alto che in altri paesi. il trend è comunque quello che gli altri paesi riducano la spesa.
Conta molto anche la qualità della spesa, anche perché certi tipi di spesa possono influire benevolmente sulla produttività totale dei fattori, se contribuiscono a formare o a mantenere uno stato forte e celere per giustizia, istruzione, infrastrutture, tutela del credito e della proprietà ecc.
Si può tenere alta la spesa se si alzano le tasse, ma questo riduce la crescita economica e non migliora necessariamente la qualità della spesa.
La spesa pubblica italiana, nonostante i tagli realizzati dal 2010, eccede quello che ci possiamo permettere (nel senso sopra indicato) di almeno il 2 e mezzo per cento del Pil, ovvero circa 40 miliardi. Assumendo che la spesa per pensioni sia poco comprimibile, spendiamo troppo in quasi tutti i settori, con l’eccezione di cultura e istruzione. Questo vuol dire che se si risparmia in questi due settori, vi si dovrebbe reinvestire.
Fra l’altro, studi condotti dal dipartimento di Finanza pubblica del Fondo monetario internazionale indicavano che la spesa per l’istruzione è quella che più fa aumentare il reddito di un paese nel medio periodo.
I TAGLI DI SPESA E L’EFFETTO SUL PIL
I tagli di spesa comportano una maggiore austerità solo se servono a ridurre il deficit pubblico (la differenza tra spese ed entrate dello stato). In questo caso si tolgono risorse all’economia e ciò ha un effetto recessivo (cioè il Pil tende a ridursi), almeno nell’immediato. Persino tagliare la spesa improduttiva (gli sprechi) ha un effetto recessivo perché ogni spesa costituisce un reddito per qualcuno e questo qualcuno ridurrà la propria spesa se il suo reddito cala. E meno spesa vuol dire meno produzione.
TAGLIARE LE SPESE E TAGLIARE LE TASSE
Le cose cambiano se i tagli vengono utilizzati per ridurre non il deficit ma la tassazione. In questo caso non si sottraggono risorse all’economia. Anzi, a parità di deficit, un taglio simultaneo delle spese e delle tasse può avere un effetto positivo sull’economia perché ne aumenta l’efficienza e la competitività.
In Italia, nel 2013, il peso della tassazione sul lavoro era superiore a quello della media dei paesi dell’area dell’euro di circa 30-35 miliardi (il 2 per cento del Pil), un peso non indifferente e uno svantaggio per la competitività italiana rispetto a quella dei paesi con cui condividiamo la moneta (e nei confronti dei quali quindi non si può recuperare svalutando il cambio).
Eliminando questo gap si riconquista competitività e capacità di crescita, sempre che non si vada a tagliare esborsi utili. Questo, però, richiede di ridurre le spese “cattive”, gli sprechi, o per lo meno quelle poco produttive, quelle che non servono alla crescita (per esempio, la costruzione di una strada su cui non viaggerà mai nessuno).
Riducendo con questo risparmio la tassazione sul lavoro, si stimolerà la crescita dell’occupazione nei settori in cui esiste un’effettiva domanda di prodotti. E l’economia crescerà più rapidamente. Effetti positivi sull’economia si potrebbero avere anche sostituendo una spesa pubblica “cattiva” con una “buona” (per esempio quella per l’istruzione).
Tuttavia, nell’attuale situazione italiana la priorità deve andare al taglio della tassazione, visto che il livello di spesa resta piuttosto elevato (come abbiamo visto anche in termini di confronti internazionali). Inoltre mancano ancora buoni meccanismi per garantire che le nuove iniziative di spesa non portino a ulteriori sprechi.
In altri termini, mentre sappiamo che tagliare le tasse rende l’economia più competitiva ed efficiente, non siamo sempre in grado di garantire che le nuove iniziative di spesa portino allo stesso risultato.
IL PROBLEMA DEI TAGLI ALL’ITALIANA
Prima bisognerebbe decidere come finanziare la riduzione della tassazione, poi pensare alla riduzione del deficit, poi al finanziamento di spese cosiddette primarie.
Cosa fanno i legislatori? Prima pensano alle spese cosiddette prioritarie e alla riduzione del deficit, poi pensare alla riduzione della tassazione.
O anche spendere adesso per nuove spese, senza valutazioni di qualità, e dichiarare che i finanziamenti arriveranno da tagli futuri.
Spendiamo oggi che alle entrate ci penseremo poi.
I tagli finora non sono stati del tutto lineari: per esempio la spesa per comuni si è ridotta in misura maggiore di quella per le province.
Il problema è che i tagli sono stati lineari all’interno della singola amministrazione.
I tagli alla sanità sono stati uguali per le asl efficienti e non efficienti, quelli alle regioni non hanno fatto distinzioni tra chi è più o meno virtuoso.
Un buon esempio è rappresentato dalle spese per il personale delle regioni. Tra le regioni a statuto ordinario, la spesa per il personale (sulla base dei bilanci per il 2014) varia da un massimo di 177.000 euro per mille abitanti in Molise a un minimo di 19.800 euro in Lombardia. Ovviamente le spese delle regioni più piccole sono più elevate per abitante per la necessità di avere, per esempio, una giunta o un ufficio contabile in tutte le regioni, indipendentemente dalle dimensioni. Ma differenze di questa dimensione (quasi dieci volte in più per il Molise rispetto alla Lombardia) sono difficilmente spiegabili, se non in termini di differenze di efficienza.
Né si possono spiegare altrimenti differenze molto forti tra regioni simili per dimensione: la Liguria spende 37.500 euro per mille abitanti, la Calabria (leggermente più grande) 63.700 euro, quasi il doppio. L’Abruzzo, solo di poco più piccolo della Liguria, spende 94.400 euro per mille abitanti, due volte e mezzo tanto.
In generale, ritroviamo qui una regolarità geografica delle inefficienze: non sarà una sorpresa, ma le regioni del Nord spendono meno di quelle del Centro e quelle del Centro spendono meno di quelle del Sud. Ovviamente non si deve generalizzare, ma la maggior parte degli indicatori di efficienza per area geografica conferma questa caratteristica. (Chi spende di più non ha il pil più alto o una sua maggiore crescita: dove sono quelli che dicono che la spesa pubblica porta crescita? Dove sono i fan del moltiplicatore keynesiano?)
Inoltre di solito le regioni a statuto speciale sono più spendaccione di quelle a statuto ordinario.
Il problema è che è più facile tagliare in modo lineare perché i tagli mirati susciterebbero più proteste e possibili interventi della corte costituzionale.
Riassumendo, ecco cosa scrive Cottarelli: “Concludo questo capitolo riassumendo i principali ostacoli che si incontrano nel ridurre la spesa pubblica in Italia.
Le spese sono state già ridotte in modo significativo a partire dal 2010.
Tagliare la spesa fa sempre male a qualcuno, che si riduca la spesa per beni e servizi, quella per il personale pubblico, o i trasferimenti a famiglie e imprese. Ogni operazione di efficientamento va a colpire almeno una di queste tre voci.
Una parte molto significativa delle spese è costituita da esborsi per pensioni e sanità, voci politicamente molto delicate da affrontare.
Occorre tagliare la spesa in modo mirato, cercando di non colpire le amministrazioni già virtuose ma concentrandosi su quelle che sprecano, il che non è facile.
Anche quando si è disposti a ridurre le vecchie spese, le nuove iniziative non sono sottoposte a un vaglio adeguato: come per la tela di Penelope, c’è talvolta la tendenza a tagliare da un lato per spendere dall’altro. Forse perché non si è mai definito in modo chiaro –in termini di princìpi generali –che cosa si ritiene appropriato che il Pubblico debba fare rispetto a quello che fa il Privato.