Chissà perché questo piccolo caffè mi piace tanto. E’ sporco e triste, triste. Se almeno qualcosa lo distinguesse da centinaia di altri: macché.
Il barista si è appena grattato sotto le ascelle e ha servito un cliente. Quello non ci ha nemmeno fatto caso. Stavano parlando di una squadrina.
Quel gruppo di pensionati gioca a carte da almeno due ore. Ad un certo punto, stamani, ho anche temuto che venissero alle mani. Per una briscola non chiamata, pare. Ogni tanto mi avvicino ai tavoli dei giocatori e osservo. Mi piacciono i loro gesti, le loro urla, i loro segreti, i loro conteggi. Si applicano nell’arte del Tressette e della Briscola.
Ci sono vari tipi di giocatori:
i feticisti, che maneggiano le carte come se stessero sfilando i vestiti ad una donna compiacente;
gli acrobati, che le fanno volteggiare in aria magari immaginando di far girare quella donna come una bambola;
i ragionieri, maestri nel far di conto, che sanno quante carte per ciascun seme sono uscite, nel proprio tavolo ed in tutti quelli dei bar del quartiere e si ricordano tutti i punteggi degli ultimi due mesi;
i pensatori, che rimuginano sulla mossa da effettuare, tanto che qualcuno pensa che in realtà stiano giocando a scacchi;
gli indecisi, che fanno il gesto di gettare una carta sul tavolo ma ci ripensano e ci ripensano e fanno fare alla carta avanti e indietro (qualcuno, in estate, si avvicina a loro perché è come se avessero un ventaglio) e sfilano una carta tra quelle che hanno in mano e poi la rimettono nel mazzo e malgrado ciò nessuno gli prende una carta a caso dalle mani e la sbatte sul tavolo;
i bestemmiatori, che urlano, litigano, pensano sempre che gli altri sbaglino, ma si lamentano anche con se stessi, le donne, indifferentemente le proprie o quelle altrui, il governo ladro e riescono ad ogni tiro a fornire una nuova descrizione della Santissima Trinità.
Quando non giocano si rilassano, sbracati sulle sedie, oppure discutono, di solito in piedi, urlando parole che è come se restassero intrappolate nella nebbia prodotta dal fumo onnipresente di sigaretta.”
Entra un avvocato: “vede, signor sindaco? Questo locale rovina l’immagine del paese e favorisce le peggiori nequizie umane. La gioventù non cresce bene. I perditempo, i punkabbestia possono oziare, a differenze che nei rinomati locali a fianco in cui non osano neppure entrare. I ragazzi si trovano immersi in un ambiente di fumo, gioco, vizio. La buona educazione: dove è finita?”
Sindaco: “Già. Ha ragione, avvocato. Capisco bene quanto possa essere degradante per l’immagine del paese avere un bar del genere in pieno centro. Che squallore! Andiamo a vedere al piano di sotto.”
Solo io ho ascoltato quello che hanno detto questi entrati? Non si sono nemmeno fermati a prendere un caffè: si sono diretti verso il piano inferiore, dove si trovano la sala giochi e, oltrepassata una porta, una specie di pub. Per poco non sono stati travolti da un gruppo di ragazzini entrati dal cortile esterno, dove si trova il tavolo da ping pong e dove i ragazzi sono soliti trascorrere le giornate a parlare e a sbaciucchiarsi. Quei ragazzi facevano parte della squadra di calcio locale: le loro borse potevano somigliare, agli occhi dei nuovi avventori, a delle armi che i supereroi dei cartoni animati giapponesi facevano roteare.”
“Ma fate un po’ d’attenzione, perdio!”, dice l’uomo che dovrebbe essere il sindaco. Un ragazzo ha accennato una scusa che l’altro non ha degnato di attenzione. Passato il gruppo di ragazzi, che adesso stava ordinando schiacciate e coca cola, qualcuna condita dalle caccole del barista, gli uomini sono usciti dalla sala e sono andati a vedere il bagno. Non vorrei che stessero facendo un’ispezione in incognito: ci sono strane voci su questo bar. Sembra che dia noia al grande locale situato di fronte, dall’altro lato della piazza, che è pieno di luci, giacche, cravatte, signorilità, prezzi altissimi, cibo di plastica e servito in porzioni minime.
Seguo quegli uomini. Escono dal bagno di tutta fretta. Salgono le scale. Ordinano un caffè in fretta. Pagano. Lasciano la tazzina sul bancone senza bere. Uno dei due compone un numero di telefono. Escono. Corrono alla macchina. Il tizio col telefonino lo rimette in tasca spazientito: evidentemente la persona chiamata non ha risposto. Partono con l’auto. L’uomo seduto al passeggero si volta verso il bar prima che l’auto si allontani. Sento un tocco sulla spalla. È il barista. “Li conosci quei due?” Mi chiede.
“No”. Rispondo.
“Io sì”. Speriamo che non abbiano chiamato i loro amici, dice lui. Poi fa spallucce e torna dietro al bancone. “Vuoi una birra?” Mi urla.
Annuisco e rientro nel bar.
“Anche io ne voglio una!” Sento urlare a un pensionato insieme al rumore di un mazzo di carte sbattuto sul tavolo.
“Maremma spiattellata! Giocare a Tressette con te è come giocare col morto!”.
(To be continued?)