E’ sulla base dei freddi numeri che l’economista francese ha scoperto una “ferrea legge del capitalismo” che porta inevitabilmente all’aumento della diseguaglianza: il capitale cresce più dell’economia e di questo passo il mondo si troverà nelle stesse condizioni di diseguaglianza del 1800, quando per avere successo contavano solo i patrimoni e i matrimoni. Per risolvere questo problema per Piketty c’è solo una via: tartassare i ricchi e redistribuire.
Ma c’è chi si è armato di santa pazienza e ha trovato nel libro dell’anno tanti errori fattuali, storici, metodologie opache, scelte arbitrarie nella compilazione dei grafici e dati manipolati.
Lo studio è di due economisti americani, Phillip Magness della George Mason University e Robert Murphy dell’Institute for Energy Research, ed è stato pubblicato sul Journal of Private Enterprise. Tutti gli errori di Piketty hanno una sola cosa in comune, vanno sempre a supporto della propria tesi: depurati da queste inesattezze, i dati non mostrano le evidenze e le tendenze che per l’economista francese sono legge.
Per dimostrare che la destra repubblicana e pro mercato crei diseguaglianze, Piketty scrive che gli Stati Uniti uscirono dalla Grande depressione solo grazie al democratico Franklin Delano Roosevelt che alzò le tasse sui ricchi, “che erano state abbassate al 25 per cento sotto la disastrosa presidenza di Hoover”. Il fatto non è vero, perché fu Hoover ad alzare l’aliquota dal 25 al 63 per cento nel 1932.
Stesso errore per quanto riguarda il salario minimo: Piketty scrive che i repubblicani Bush padre e figlio hanno bloccato il salario minimo federale impoverendo le classi lavoratrici, mentre i democratici Clinton e Obama lo hanno alzato riducendo le diseguaglianze. In realtà è facilmente verificabile che i due Bush hanno alzato il salario minimo più di Clinton e Obama.
Queste inesattezze mostrano secondo Magness e Murphy l’intenzione di Piketty di piegare i fatti alla propria visione del mondo. Ma le accuse più gravi non sono queste, bensì alcune operazioni “strane” nell’uso dei dati. I due economisti notano che in alcune celle Excel vengono aggiunti e sottratti numeri a caso e che viene usata una “bizzarra tecnica creativa per calcolare la media”.
La manipolazione più clamorosa riguarda un grafico sulla diseguaglianza della ricchezza negli Stati Uniti dal 1910 al 2010. Secondo la spiegazione di Piketty questa curva a “U” dimostra che la diseguaglianza, calata con le due guerre mondiali e il forte intervento dello stato, è poi esplosa di nuovo a partire dagli anni 80, quelli del neoliberismo di Ronald Reagan. Magness e Murphy sono andati a spulciare i dati e hanno notato che l’economista francese mette sullo stesso grafico fonti molto diverse: dal 1910 al 1950 usa i dati di uno studio, per i decenni successivi quelli di un altro, poi di nuovo quello di prima, poi un altro e un altro ancora. Il risultato è un “grafico Frankenstein assemblato con pezzi di letteratura secondaria che sembrano aggiunti o rimossi in base alla tendenza che desidera mostrare”.
In pratica Piketty fa cherry-picking, si sceglie i dati che gli fanno comodo. Per far capire quanto questa tecnica possa essere distorsiva, Magness ha pubblicato un grafico Piketty-style utilizzando le stesse fonti ma scegliendo i pezzi di dati che dimostrano la tesi opposta: il risultato è un altro “grafico Frankenstein” in cui la diseguaglianza cala dagli anni di Reagan in poi. La demolizione dello studio riguarda anche un altro importante grafico, quello del rapporto del capitale sul reddito, in cui Piketty inserisce dati del tutto arbitrari che hanno sempre lo scopo di segnalare l’aumento della diseguaglianza.
Gli 80 super ricchi detengono lo 0,7% della ricchezza mondiale, che equivale a dire che detengono il 50% della ricchezza posseduta dal 50% più povero, pur basandoci sul criterio adottato da Oxfam per definire la ricchezza.
Avere debiti non significa affatto essere poveri. Anzi, per avere molti debiti bisogna essere ricchi! Nessuno presta soldi a chi non ne ha o a chi non ha prospettiva di farne per ripagare il debito.
Secondo Oxfam tra i più poveri del mondo ci sono tutti quelli che hanno fatto debiti per investimenti, che hanno contratto mutui, come famiglie, imprenditori o studenti americani che hanno chiesto prestiti per pagarsi il college e che forse guadagneranno stipendi a cinque o sei zeri.
I più poveri del mondo probabilmente saranno Bernie Madoff o Callisto Tanzi o Salvatore Ligresti. Tutta gente che ha più debiti di un bambino o di un contadino dell’Africa subsahariana che non ha di che mangiare, ha reddito zero e zero debiti.
Secondo Oxfam nel decile più povero del mondo non c’è nessun cinese perché centinaia di milioni di cinesi sono poveri, ma non hanno debiti.
Il decile che raccoglie i più poveri tra i più poveri è composto per oltre il 20% da europei e statunitensi. Gli africani sono il 30%. La ricchezza complessiva di questo decile è negativa.
Oxfam non dà invece importanza al fatto che in questi ultimi 20 anni di globalizzazione ci sono sempre meno poveri.
http://libertarianation.org/2015/07/10/quattro-miti-da-sfatare-sulla-diseguaglianza-economica/
Mito numero 1 – La definizione e la percezione di ricchezza sono soggettive e interpretabili in vario modo.
Mito numero 2 – La ricchezza non è manna dal cielo, ma va prodotta e una sua redistribuzione senza crearne di nuova aumenta la povertà per tutti.
Abbiamo visto che definire la ricchezza è estremamente difficile ma non basta perché la fallacia successiva riguarda la teofania della ricchezza, ovvero la sua apparizione dal nulla nella società. Dai discorsi che si sentono dei promotori della distribuzione della ricchezza pare che la ricchezza sia una entità che piova dal cielo e che debba essere divisa equamente dalla società. Come la manna che piove dal cielo come dono divino così la ricchezza viene vista come una quota di beni fissa che deve essere divisa equamente dalla popolazione mondiale. La Giustizia Divina richiede che venga spartita e spalmata in tutto il mondo. La vita per certe persone deve essere come un gioco in cui tutti partono con la stessa cifra iniziale, un Monopoli dove la banca divina distribuisce a tutti le stesse banconote. Ma la ricchezza non è una cifra fissata divinamente e non viene dal cielo. La ricchezza varia a seconda dei paesi, delle regioni, dei gruppi sociali e degli individui e viene prodotta, non ricevuta dall’alto. Per fare un esempio semplice immaginatevi due individui: A lavora da mattina a sera per arare il campo mentre B lo fa solo a giorni alterni e solo la mattina. A produrrà più ricchezza (100) di B ovviamente (50). E questa ricchezza (150) varierà a seconda dell’anno. Ammettiamo di essere in una perfetta società socialista dove si richieda la ridistribuzione della ricchezza. Allora la ricchezza (150) verrebbe spalmata tra A e B. Certo per un libertario è una ingiustizia quella che per un socialista è una giustizia ma seguitemi bene. Ammettiamo che A muoia. B diventa il ricco della situazione (perché non c’è nessuno più ricco di lui ora anche se 5 minuti prima veniva considerato il più povero) e deve dividere la sua ricchezza con chi ha prodotto meno di lui; poi è il suo turno di morire e così via fino a quando ci saranno la ricchezza verrà spartita equamente tra tutti, ovvero saranno tutti equamente poveri. La ricchezza magicamente finisce nel nulla e allora il povero B si renderà conto che la ricchezza deriva dal lavoro e non cade dal cielo.
Mito numero 3 – la disuguaglianza economica produce guerre? No. Sono i governi a produrre le guerre.
Se la ricchezza deriva dal lavoro come è possibile che il lavoro produca guerre? Questa correlazione tra differenze di ricchezza e guerre mi ha sempre lasciato perplesso. Ho serie difficoltà a capire come il fatto che io mi alzi alle 6 del mattino a lavorare e torni alle 7 a casa per pagarmi lo stipendio possa incidere direttamente sulla vita di un senzatetto. La causa delle guerre sono i governi. Punto. Ovvero una classe di privilegiati e parassiti che in combutta con alcune fette della società vede in una guerra un modo per avere più potere o più denaro. Non è la differenza in ricchezza a creare le guerre bensì la brama di alcuni di raggiungere la ricchezza.
Mito numero 4 – la ridistribuzione della ricchezza è la soluzione. No la creazione di ricchezza è la soluzione.
La soluzione per poter creare più ricchezza e vederla crescere nelle mani di più persone non è la distribuzione di quella prodotta da pochi, ma è la semplice eliminazione di tutti gli ostacoli che ne limitano la creazione negli strati più poveri della società: monopoli, protezionismi, proprietà intellettuale, tassazione ecc.
Duemila anni di ipocrita lotta alla povertà propagandata da chiese e da ideologie politiche moderne non hanno creato ricchezza, anzi l’esatto contrario. E hanno instillato nella mentalità occidentale un falso senso di colpa per cui i poveri del Terzo Mondo sono poveri perché noi siamo ricchi.
Ma è bastato negli ultimi anni dare in mano agli strati più poveri della società mondiale strumenti a basso costo come telefonini, internet, autmobili e accesso al mercato globale per avere in 25 anni UN MILIARDO DI POVERI in meno sul pianeta Terra.
Quando viaggiai in Tanzania rimasi stupefatto dalla quantità di cellulari in mano ai masai. La guida mi disse che da quando i masai avevano scoperto il telefonino ora potevano commerciare con i villaggi non masai a decine di chilometri di distanza. Sapevano quante vacche da portare al mercato e quando potevano portarle al mercato. Di conseguenza il villaggio masai che visitai, nonostante vivesse ancora in modo tradizionale, era considerato come “ricco” rispetto ad altri che ancora non avevano utilizzato la tecnologia del cellulare, che grazie al mercato e alla produzione di massa costa oggi pochissimo. Anche se i socialisti di 30 anni fa parlavano già di “tecnologia per pochi ricchi”. Il villaggio produceva monili e grazie alla vendita di questi ai turisti poteva permettersi di costruire e far mandare avanti una scuola del villaggio privata. I bambini della scuola del villaggio erano tutti sani e la mortalità infantile era quasi inesistente grazie ai vaccini della medicina moderna. Vaccini che ormai non sono più sotto tutela di brevetti e i cui prezzi quindi si sono abbassati di molto grazie alla competizione del libero mercato. In centinaia di anni di interazione con la carità occidentale niente è riuscito a fare abbassare il livello di povertà di queste popolazioni se non l’arrivo della tecnologia, del mercato e dell’accesso al libero mercato. Non è stata la distribuzione della ricchezza a creare Giustizia ma la semplice interazione pacifica tra persone libere e la loro volontà di produrre ricchezza per se stessi e la propria famiglia.
Sorpresa: gli ultimi due decenni di globalizzazione hanno ridotto le differenze in Europa e nel mondo
si dice che “i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. Non è vero. La diseguaglianza non è aumentata a livello globale, non a livello europeo e neppure a livello nazionale. Anzi, è successo in gran parte il contrario: si è ridotta o è rimasta costante.
I dati mostrano che dalla caduta del Muro di Berlino, e in particolare negli ultimi anni, abbiamo assistito a un eccezionale periodo di produzione e redistribuzione della ricchezza su scala globale. Secondo i dati della Banca mondiale, per la prima volta la quota di poveri nel mondo è scesa sotto il 10 per cento, dal 36 per cento del 1990, che vuol dire oltre un miliardo di poveri in meno, e nonostante nel frattempo la popolazione mondiale sia cresciuta enormemente, di quasi 2 miliardi di individui.
Il grande arricchimento dei poveri, in particolare in paesi come Cina e India, ha prodotto anche una riduzione della diseguaglianza mondiale, che è scesa continuamente dal 1989 e più velocemente dal 2002 in poi, un declino che neppure la crisi finanziaria globale ha rallentato. E questo processo che ha reso il mondo più ricco e più uguale, a differenza di quanto si afferma con una certa sicurezza, non ha neppure causato un aumento della diseguaglianza in Europa.
Il think tank Bruegel ha recentemente pubblicato due studi sulla distribuzione dei redditi e sulla crescita inclusiva in Europa. Le conclusioni di entrambi i lavori sono che “la diseguaglianza nell’Unione europea, contrariamente alle percezioni, è diminuita negli ultimi due decenni”.
Nello specifico Darvas sostiene che la diseguaglianza si è ridotta dal 1995 al 2008 e successivamente è rimasta costante. Facendo un paragone con gli altri continenti, l’Europa ha il livello di diseguaglianza più basso e proprio per effetto di una politica di redistribuzione dei redditi più incisiva negli ultimi decenni.
Gli economisti precisano che, se c’è stata una convergenza dei redditi a livello europeo per l’allargamento a est, è anche vero che che la diseguaglianza è aumentata all’interno di alcuni stati e ha contato molto in scelte come il referendum sulla Brexit nel Regno Unito. Questo vuol dire che, mentre diminuisce la diseguaglianza a livello mondiale ed europeo, un effetto collaterale della globalizzazione può essere l’aumento della diseguaglianza in alcuni stati con i conseguenti problemi di instabilità politica e risentimento sociale.
Ma è questo il caso dell’Italia? No. Ancora una volta, contrariamente a quanto viene ripetuto, la diseguaglianza non è aumentata. Come scrive la Banca d’Italia nell’ultima Relazione annuale, l’indice di Gini che misura la diseguaglianza dei redditi è rimasto invariato: “La crisi economica non ha determinato un significativo aumento della diseguaglianza: la contrazione del reddito equivalente reale, di circa il 14 per cento dal 2006, ha interessato in misura pressoché omogenea l’intera distribuzione”.
Insomma, pensiamo di essere più diseguali, ma siamo semplicemente più poveri. Ciò che invece è cambiato profondamente è la composizione demografica della distribuzione: negli ultimi anni, mentre il livello di diseguaglianza è rimasto costante, gli anziani sono diventati più ricchi e i giovani sempre più poveri. E’ la questione generazionale di cui invece nessuno parla.
https://fee.org/articles/why-i-dont-worry-about-income-inequality/
50 anni fa ci voleva una somma notevole per lanciare e gestire un’organizzazione. Avresti avuto bisogno di una segretaria, di una linea telefonica a lunga distanza, di uno spazio per un ufficio,di un agente di viaggio, di una stampante, di un negozio di stampa da visitare, di spazio per gli archivi, costi di spedizione ecc.
Oggi puoi costruire un sito su wordpress, commissionare il lavoro di design su Fiver o 99 design, ottenere centinaia di stampe digitali in pronta consegna, prenotare un viaggio, immagazzinare i propri file, gestire delle campagne via mail chimp e così via con poche centinaia di euro.
Tutti possono scrivere e registrare canzoni, pubblicare libri, aprire imprese, vendere beni e servizi, imparare qualcosa nel mondo, incontrare persone attorno al mondo gratis o quasi con un telefono e una connessione wifi. Queste cose sono ugualmente accessibili ai ricchi e ai poveri. La ricchezza, misurata in termini di opportunità e di desideri da soddisfare, il vero fine del denaro, è più grande ed equamente distribuita che mai.
Gli ostacoli più grandi sono quelli eretti attraverso albi, licenze, regolamentazioni, leggi sui salari, leggi fiscali, restrizioni all’immigrazione, monopoli intellettuali. L’educazione e l’ozio sussidiati sono gli ostacoli più grandi per i poveri che vogliano creare e disporre di nuova ricchezza e creare una vita migliore. .
Non si tratta di reddito o di ricchezza netta. Ciò che conta è ciò che sai e puoi fare e il valore che puoi creare e consumare. Il grafico sopra e il mondo attorno a noi indicano che non c’è mai stata una tale distribuzione di ricchezza.
Non contano il pil o il reddito. Contano le opportunità e il valore.
https://fee.org/articles/2016-is-the-year-of-inequality-and-prosperity/
La povertà può diminiure e la diseguaglianza crescere finché l’ammontare totale di ricchezza nel mondo cresce. Ignorare questo fa ricadere nella fallacia della torta fissa. In tutta la storia dell’umanità la ricchezza globale è cambiata di poco. Ma grazie al commercio e all’industrializzazione la ricchezza è esplosa, specialmente nel XX secolo, e continua a crescere. Allo stesso tempo gli avanzamenti tecnologici hanno migliorato il benessere degli uomini in modi che non possono essere osservati guardando solo il pil.
Poiché la torta cresce, focalizzarsi solo sulla diseguaglianza ha poco senso. La maggior parte di noi preferirebbe avere una relativamente piccola parte di una torta gigante (magari in aumento marginale?) che la fetta più grande di una torta microscopica.
In altre parole la maggior parte di noi vuole essere più ricca in termini assoluti indipendentemente dalla posizione relativa. Ecco perché molti di noi sceglierebbero di essere una persona comune oggi che un membro dell’aristocrazia nell’Ottocento o un re nel diciottesimo secolo.
https://fee.org/articles/busting-myths-about-income-inequality/
Busting Myths about Income Inequality
Politicians speak often about income inequality. But that doesn’t mean they are well-informed. Indeed, they propagate four myths about the issue.
- Most often, those vying for elected office describe income inequality as static — as though the people who make up each income group do not change.
The “top 1 percent” or the “top 10 percent” of income-earners are portrayed as exclusive clubs that seldom accept new members or see old and current members leave. No fluidity, no change. - Political figures also have a tendency only to blame income inequality on factors like trade, immigration, an insufficiently high minimum wage, inadequate taxes on the wealthy, or the vague concept of “greed.”
- They typically ignore the sizeable role of choices under an individual’s control
- They downplay the role of regressive government regulations.
Reality is much more interesting than soundbites.
Americans often move between different income brackets over the course of their lives. Indeed, over 50 percent of Americans find themselves among the top 10 percent of income-earners for at least one year during their working lives, and over 11 percent of Americans will be counted among the top 1 percent of income-earners for at least one year.
Fortunately, a great deal of what explains this income mobility are choices that are largely within an individual’s control. While people tend to earn more in their “prime earning years” than in their youth or old age, other key factors that explain income differences are education level, marital status, and number of earners per household. As AEI’s Mark Perry recently wrote:
The good news is that the key demographic factors that explain differences in household income are not fixed over our lifetimes and are largely under our control (e.g. staying in school and graduating, getting and staying married, etc.), which means that individuals and households are not destined to remain in a single income quintile forever.
According to the U.S. economist Thomas Sowell, whom Perry cites, “Most working Americans, who were initially in the bottom 20 percent of income-earners, rise out of that bottom 20 percent. More of them end up in the top 20 percent than remain in the bottom 20 percent.”
While people move between income groups over their lifetime, many worry that income inequality between different income groups is increasing. The growing income inequality is real, but its causes are more complex than the demagogues make them out to be.
Consider, for example, the effect of “power couples,” or people with high levels of education marrying one another and forming dual-earner households. In a free society, people can marry whoever they want, even if it does contribute to widening income disparities.
Or consider the effects of regressive government regulations on exacerbating income inequality. These include barriers to entry that protect incumbent businesses and stifle competition. To name one extreme example, Louisiana recently required a government-issued license to become a florist. Lifting more of these regressive regulations would aid income mobility and help to reduce income inequality, while also furthering economic growth.
If our elections were more about the substance of serious public policy issues, rather than demagoguery and soundbites, achieving reasonable solutions could move from the land of make-believe to our complex, dynamic reality.
This article first appeared at CapX.
Chelsea Follet works at the Cato Institute as a Researcher and Managing Editor of HumanProgress.org.
https://fee.org/articles/inequality-the-rhetoric-and-reality/
Inequality: The Rhetoric and Reality
The publication of Thomas Piketty’s bestseller Capital in the Twenty-First Century has led to widespread attention on the rising gap between rich and poor, and to populist calls for government to redistribute income and wealth.
Purveyors of that rhetoric, however, overlook the reality that when the state plays a major role in leveling differences in income and wealth, economic freedom is eroded. The problem is, economic freedom is the true engine of progress for all people.
Income and wealth are created in the process of discovering and expanding new markets. Innovation and entrepreneurship extend the range of choices open to people. And yet not everyone is equal in their contribution to this process. There are differences among people in their abilities, motivations, and entrepreneurial talent, not to mention their life circumstances.
Those differences are the basis of comparative advantage and the gains from voluntary exchanges on private free markets. Both rich and poor gain from free markets; trade is not a zero- or negative-sum game.
Attacking the rich, as if they are guilty of some crime, and calling for state action to bring about a “fairer” distribution of income and wealth leads to an ethos of envy — certainly not one that supports the foundations of abundance: private property, personal responsibility, and freedom.
In an open market system, people who create new products and services prosper, as do consumers. Entrepreneurs create wealth and choices. The role of the state should be to safeguard rights to property and let markets flourish. When state power trumps free markets, choices are narrowed and opportunities for wealth creation are lost.
Throughout history, governments have discriminated against the rich, ultimately harming the poor. Central planning should have taught us that replacing private entrepreneurs with government bureaucrats merely politicizes economic life and concentrates power; it does not widen choices or increase income mobility.
Both rich and poor gain from free markets; trade is not a zero- or negative-sum game.
Peter Bauer, a pioneer in development economics, recognized early on that “in a modern open society, the accumulation of wealth, especially great wealth, normally results from activities which extend the choices of others.”
Government has the power to coerce, but private entrepreneurs must persuade consumers to buy their products and convince investors to support their vision. The process of “creative destruction,” as described by Joseph Schumpeter, means that dynastic wealth is often short-lived.
Bauer preferred to use the term “economic differences” rather than “economic inequality.” He did so because he thought the former would convey more meaning than the latter. The rhetoric of inequality fosters populism and even extremism in the quest for egalitarian outcomes. In contrast, speaking of differences recognizes reality and reminds us that “differences in readiness to utilize economic opportunities — willingness to innovate, to assume risk, to organize — are highly significant in explaining economic differences in open societies.”
What interested Bauer was how to increase the range of choices open to people, not how to use government to reduce differences in income and wealth. As Bauer reminded us,
Political power implies the ability of rulers forcibly to restrict the choices open to those they rule. Enforced reduction or removal of economic differences emerging from voluntary arrangements extends and intensifies the inequality of coercive power.
Equal freedom under a just rule of law and limited government doesn’t mean that everyone will be equal in their endowments, motivations, or aptitudes. Disallowing those differences, however, destroys the driving force behind wealth creation and poverty reduction. There is no better example than China.
Under Mao Zedong, private entrepreneurs were outlawed, as was private property, which is the foundation of free markets. Slogans such as “Strike hard against the slightest sign of private ownership” allowed little room for improving the plight of the poor. The establishment of communes during the “Great Leap Forward” (1958–1961) and the centralization of economic decision making led to the Great Famine, ended civil society, and imposed an iron fence around individualism while following a policy of forced egalitarianism.
In contrast, China’s paramount leader Deng Xiaoping allowed the resurgence of markets and opened China to the outside world. Now the largest trading nation in the world, China has demonstrated that economic liberalization is the best cure for broadening people’s choices and has allowed hundreds of millions of people to lift themselves out of poverty.
Deng’s slogan “To get rich is glorious” is in stark contrast to Mao’s leveling schemes. In 1978, and as recently as 2002, there were no Chinese billionaires; today there are 220. That change would not have been possible without the development of China as a trading nation.
There are now 536 billionaires in the United States and growing animosity against the “1 percent” — especially by those who were harmed by the Great Recession. Nevertheless, polls have shown that most Americans think economic growth is far more important than capping the incomes of the very rich or narrowing the income gap. Only 3 percent of those polled by CBS and the New York Times in January thought that economic inequality was the primary problem facing the nation. Most Americans are more concerned with income mobility — that is, moving up the income ladder — then with penalizing success.
Regardless, some politicians will use inflammatory rhetoric to make differences between rich and poor the focus of their campaigns in the presidential election season. In doing so, they should recognize the risks that government intervention in the creation and distribution of income and wealth pose for a free society and for all-around prosperity.
Government policies can widen the gap between rich and poor through corporate welfare, through unconventional monetary policy that penalizes savers while pumping up asset prices, and through minimum wage laws and other legislation that price low-skilled workers out of the market and thus impede income mobility.
A positive program designed to foster economic growth — and leave people free to choose — by lowering marginal tax rates on labor and capital, reducing costly regulations, slowing the growth of government, and normalizing monetary policy would be the best medicine to benefit both rich and poor.
Oxfam’s upside down inequality study: Bjorn Lomborg
Statistical games hide optimistic reality of global gains
Today there is a commonplace — and wrong — impression that inequality is inexorably rising. Oxfam just contributed to the misunderstanding by claiming that the richest eight people own the same amount as half the world’s population.
Oxfam measures net wealth, not income. Crucially, it includes ‘negative’ wealth, meaning the 5% of Americans with student loans or negative equity in their houses are considered among the world’s poorest — poorer than three-quarters of all Africans. This means that even the most impoverished soul you could imagine — a day laborer from Zimbabwe with nothing but a comb to his name — in Oxfam’s eyes is richer than the poorest 45% of the world’s population. Oxfam’s data also leaves out any entitlements to pensions and entirely ignores the huge assets owned by the state.
The real story on inequality is a much more optimistic one than Oxfam’s narrative. Here income matters much more than wealth. Measured over the past two centuries, the gap between rich and poor incomes certainly grew. But this is because ever more people were lifted out of poverty. In 1820, global inequality was quite low simply because almost all of our ancestors were equally poor. The Industrial Revolution saw rapid income growth in some and then many countries.
Nearly 200 years ago, around 94% of the planet was impoverished. In 2015, the World Bank found that for the first time ever, less than 10% of the globe was living in absolute poverty. Focusing on inequality alone means that we fail to recognize this amazing achievement freeing so many from the shackles of poverty. As Nobel Laureate economist Angus Deaton says, just because not everyone breaks free, it “in no way makes the escape less desirable or less admirable.”
In 1820, the divide between rich and poor incomes was as wide globally as it is in today’s most unequal societies, like Brazil or Mexico. Thanks to rapid development in some countries, the gap grew after 1820, and was especially bad from the 1950s for several decades.
From around the 1980s, something remarkable happened. Along with massive numbers escaping poverty, a burgeoning global middle class emerged. This class numbered around one billion people in 1985. Thirty years later it has more than doubled to 2.5 billion, with 430 million more Chinese joining. This is the reason that global inequality has actually declinedover the past three decades, and quite rapidly so in the last 15 years.
Within countries, income inequality has certainly risen somewhat, mostly as an outcome of globalization. But the starkness of the inequality is generally much less now than 100 years ago. When we hear that the top 1% of earners are capturing a record-setting share of the economy — an argument made most famous by Thomas Piketty — we need to remember that this is based on data just for the U.S. and other developed, Anglophone countries. By way of example, in the United States the top 1% earned 19% of all income in 1913 but their share slipped to just 10.5% in 1976, only to double to a astonishing 20% in 2014.
The experience is markedly different in continental Europe and Japan, where the top echelon started in 1910 with a similar share to the tycoons of the U.S., declined in a similar way, but since then saw little or no increase. As a share, the top 1% in these countries earn about half of what they did 100 years ago. This is part of the global pattern where inequality has been declining, because many more in the developing world have emerged from poverty.
POLICING THE USA: A look at race, justice, media
Moreover, inequality matters to much more than income. Half of all of the welfare gains from 1960 to 2000 come from the fact that we live much longer, healthier lives. In 1900, we lived to be 30 on average; today, we live to 71. A century or so ago, medical breakthroughs actually increased inequality, whereas today these are increasingly extended to almost everyone. Over the past 50 years, the difference in life expectancy between the world’s wealthiest and poorest countries has dropped from 28 to 19 years. Research shows that inequality in lifespan today is lower than it has been for two centuries.
Education inequality has also declined globally. In 1870, when more than three-quarters of the world were illiterate, access to education was even more unequal than income. Today, more than four in five can read — and the illiterate are mostly older people, while younger generations have gained unprecedented access to education.
Inequality is certainly important, not the least because too much can reduce growth and stifle social mobility. It needs to be tackled, but we should be wary of overhyped claims that skip the incredible developments made in reducing the global ranks of the truly impoverished and narrowing the gaps on income, education and health.