La privatizzazione è stata un regalo agli amici. In pratica Telecom ha continuato ad avere il monopolio dell’ultimo miglio e se lo faceva pagare alle altre compagnie, che così dovevano far pagare di più i consumatori, i quali hanno anche pagato a lungo il canone.
C’è voluta la rivoluzione del mobile per svegliarli. Poi sono arrivate le reti proprietarie degli altri e quelle in fibra ecc., ma una vera concorrenza non è forse mai nata nel fisso.
Ancora adesso, mi diceva il tecnico telecom che ha messo l’impianto in fibra a firenze a casa mia, la massima velocità raggiungibile è 200gb, ma tecnicamente non si capisce perché abbiano messo questo limite.
Sulla qualità della rete italiana basta vedere i disservizi o il fatto che per poter vedere le olimpiadi (tipo) in streaming andavamo benissimo in mobile già nel 2016 (almeno io, con Tim e Vodafone), mentre per guardarle a pari velocità e quindi senza disconnessioni sul fisso è dovuta arrivare la fibra. Il fatto è che nel mobile c’è stata più concorrenza fin da subito.
Sul fisso c’è un problema di margini ridotti: è difficile prevedere grandi risorse investite.
Il problema è stato che la privatizzazione è stata la cessione di un monopolio agli amici dei politici per il vizio di voler regolamentare invece di fare gare e contratti che assicurino l’allocazione efficiente delle risorse (che dà il mercato), evitare che alcuni prendano una rendita di posizione (la rete è una e rischia il monopolio) e assicurare che non vengano penalizzati i consumatori a seguito del monopolio di rete.
I piani quinquennali non funzionano perché non si sa come evolverà la tecnologia e il mercato. Già oggi i margini si fanno sui contenuti. Chissà cosa accadrà in futuro. Lasciar fare al gioco della domanda e dell’offerta espone meno al rischio di fare investimenti che non hanno ritorni o “cattedrali nel deserto”. Rischio che diventa spreco di soldi pubblici se l’investimento lo fa un ente statale.
In generale il motivo dell’asimmetria informativa e dell’impossibilità di prevedere come si svilupperanno i mercati e le tecnologie ha portato al fallimento delle nazionalizzazioni e delle economie pianificate. Che vuoi pianificare quando ogni giorno miliioni di persone agiscono, scoprono, creano, inventano, rispondono ai tuoi incentivi in modo diverso da quello che avevi previsto?
La cassa depositi e prestiti viene invocata per qualsiasi cosa. A me preoccupano alcune cose. Intanto il risparmiatore che ha messo i risparmi alle poste rischia di trovarsi fregato in termini di rischio capitale se esplode il costo del debito (aumenta l’esposizione dello stato) anche a seguito di investimenti pubblici, i quali nei paesi sviluppati di solito non producono crescita.
Vodafone, tim e chiunque altro (più operatori ci sono meglio è, più libera concorrenza c’è) possono costruirsi la propria rete e pagarsela coi propri soldi tenendo conto dell’evoluzione della tecnologia, dei costi di produzione, dell’offerta e della domanda, dei gusti dei consumatori ecc.
Parte dei costi fissi possono essere addebitati ai consumatori che usufruiscono del servizio. Se poi lo stato ritiene di voler favorire l’accesso alla rete può usare incentivi vari, crediti d’imposta ecc. Far pagare alle aziende il noleggio allo stato comporta che i consumatori paghino il costo del servizio, quello dell’infrastruttura e il noleggio allo stato. A questo poi vengono pagate tasse e i costi opportunità legati anche ai tassi d’interesse legati al maggior debito. Questo a meno che non esista una sola rete fissa o una sola possibilità di accesso all’ultimo miglio e quindi si ricada nell’ottica del monopolio naturale.
Tutto quello che è innovazione lo possono fare meglio i privati, in concorrenza, coi capitali propri (la cdp non ha soldi a sufficienza ed essendo statale è probabile che investa male quelli che ha, cioè li investa per sussidiare aziende decotte come Alitalia o tenere quote di partecipazione in aziende che lo stato ritiene strategiche, ma non esistono aziende strategiche. I soldi, peraltro, sono dei risparmiatori e dei contribuenti, che magari vorrebbero che i loro risparmi fossero investiti meglio e i secondi potrebbero avere una pressione fiscale più bassa e gestire meglio i propri soldi rispetto a quel che fa lo stato). Il punto è come garantire questa concorrenza, come regolare l’accesso al mercato laddove ci siano degli effettivi monopoli che potrebbero penalizzare i consumatori o dare rendite di posizione agli offerenti. C’è una letteratura sterminata su come regolamentare l’accesso alle reti.
Questo senza limiti temporali: uno, due, cinque, dieci anni. Sapranno loro quando fare gli investimenti e come farli. Sapranno calcolare i valori attuali netti dei progetti. Rischieranno il loro capitale e non quello dei contribuenti (Stato) o dei risparmiatori (Cassa depositi e prestiti più Stato).
La rete fissa non porta margini di profitto, oggi. Sono i contenuti a portarli. Ha senso che i costi della rete li paghino le aziende e li trasferiscano ai consumatori o meno in base alle loro decisioni di pricing, ma ha senso che si facciano la propria rete e così determinino i loro costi fissi.
Si può discutere se l’ultimo miglio rappresenti un monopolio naturale o se lo sia l’infrastruttura esistente. Questa è già stata pagata ai tempi dell’orribile privatizzazione (orribile non perché privatizzazione, ma perché regalo agli amici senza gara e con liberalizzazione tesa comunque a garantire dei privilegi a Telecom).
Lo stato non è neutrale. A parte che preleva i soldi altrui, è formato da persone che perseguono i propri interessi e l’efficienza economica, la corretta remunerazione del capitale, la gestione efficiente degli investimenti non sono contemplate. Inoltre gli investimenti pubblici non portano più crescita economica in un paese già sviluppato (il moltiplicatore è inferiore a uno) e spiazzano gli investimenti privati, che sono quelli che la assicurano.
Lo stato imprenditore, i piani quinquennali, l’economia pianificata hanno già fallito a sufficienza.
Politica industriale significa di solito scegliere i vincitori e premiare i perdenti anziché lasciar fare al mercato, che è il modo più efficiente di allocare le risorse, purché sia messo in grado di farlo.
Inoltre adesso gli interventi della cdp sarebbero visti dal mercato come aumento del debito pubblico (anche se restano fuori, da un punto di vista contabile), con tutto quel che ne consegue: tassi di interesse più alti, maggior rischio paese, necessità di tenere avanzi primari per non fare default ecc.
Essenzialmente la cdp ha poi vincoli di capitale e di gestione. In poche parole: non ha soldi e quelli che ha non sono i suoi e rischia di investirli secondo logiche politiche anziché di efficienza economica.
Un po’ di link su Telecom e CDP. Che poi forse un giorno svilupperò questa ricerca personale. Solo che contemporaneamente ne voglio fare altre diecimila. Vabbe’ finché c’è vita…
http://noisefromamerika.org/articolo/telecom-politica-industriale
(ii) Scorporo della rete fissa.
Serpeggia l’argomento che, essendo la rete attualmente esistente stata costruita in regime di monopolio pubblico, pubblica dovrebbe rimanerne la proprietà. Da qui l’idea dello scorporo e della ri-nazionalizzazione. L’argomento è assolutamente inaccettabile per due motivi. In primo luogo, la rete fissa, al contrario di quanto sostenuto dal ministro, non è un monopolio naturale, caratterizzata cioè dall’impossibilità oggettiva di essere rimpiazzata: non solo è possibile ma è di vitale importanza per il paese implementare e diffondere in modo capillare sul territorio le nuove tecnologie (fibra ottica e WiMAX, ad esempio) come già avviene in altri paesi. In secondo luogo, gli investimenti necessari ad adattare la rete di accesso italiana agli standard tecnologici del presente sono dell’ordine di 8-10 miliardi di euro, più di due volte la cifra offerta per Telecom e più che sufficienti ad eliminare qualunque “residuo” di investimento pubblico precedente.
La vera sfida è quella di creare un sistema di incentivi tale per cui, da una parte si effettuino gli investimenti necessari all’ammodernamento della rete di accesso, dall’altra venga preservata la concorrenza tra imprese fornitrici di servizi: in questo senso si deve parlare di scorporare la rete fissa e, pur mantenendone la proprietà privata, di inserirla in un quadro regolamentare che tenga conto della sua natura di pubblica utilità.
Dal capitolo 15 di principles of microeconomics di greg mankiw, in tema di monopoli naturali
The third policy used by the government to deal with monopoly is public ownership.
That is, rather than regulating a natural monopoly that is run by a private
firm, the government can run the monopoly itself. This solution is common in
many European countries, where the government owns and operates utilities
such as telephone, water, and electric companies. In the United States, the government
runs the Postal Service. The delivery of ordinary first-class mail is often
thought to be a natural monopoly.
Economists usually prefer private to public ownership of natural monopolies. The
key issue is how the ownership of the firm affects the costs of production. Private
owners have an incentive to minimize costs as long as they reap part of the benefit in
the form of higher profit. If the firm’s managers are doing a bad job of keeping costs
down, the firm’s owners will fire them. By contrast, if the government bureaucrats
who run a monopoly do a bad job, the losers are the customers and taxpayers, whose
only recourse is the political system. The bureaucrats may become a special-interest
group and attempt to block cost-reducing reforms. Put simply, as a way of ensuring
that firms are well run, the voting booth is less reliable than the profit motive.
Ricerche non ancora lette, ma che mi interessano, sulla regolamentazione dell’accesso alla rete:
https://econpapers.repec.org/paper/pardipeco/2007-ep01.htm
http://www.fedoa.unina.it/10093/
http://www.rivistapoliticaeconomica.it/2004/mar-apr/dignazio.pdf
http://economia.unipv.it/cavaliere/didattica/aa1011/Capitolo3.pdf
ALTRI LINK LETTI
https://phastidio.net/2006/09/26/vendere-telecom-allo-scoperto/
https://phastidio.net/2015/07/09/prove-tecniche-di-assalto-alla-diligenza/
https://phastidio.net/2006/09/14/romano-dacci-la-linea/
https://phastidio.net/2010/08/10/la-banda-larga-del-buco/
il dubbio che in questo paese non si riesca a sviluppare un’infrastruttura digitale come quella esistente nei paesi con i quali ci confrontiamo a causa dei “personalismi di chi antepone i propri particolari interessi al bene di tutti, al bene del Paese“, a noi resta.
https://phastidio.net/2007/04/16/citofonare-palazzo-chigi/
Qui una risposta alle critiche del Grillo
Qui il problema degli interventi legislativi sui prezzi. https://phastidio.net/2007/03/30/e-leconomia-stupidi/#more-881
Qui si parla della Fiat ma sempre per criticare la politica industriale, specie se all’italiana https://phastidio.net/2015/07/28/politica-industriale-improperio-italiano/
https://phastidio.net/2017/03/21/cdp-la-pozione-magica-decotti-bolliti/
La realtà dice che la Cassa è piuttosto tirata, sul piano finanziario e patrimoniale, ed ha al momento una redditività piuttosto problematica. Gli investimenti infrastrutturali, come segnalato da Penati, sono caratterizzati da ritorni sull’investimento in tempi lunghissimi, e l’intervento della Cassa in partnership pubblico-privata dovrebbe evitare di perpetuare la costante di questo paese di capitalisti relazionali, cioè di accollare al pubblico gli oneri e lasciare ai privati i benefici. Il rischio è quello di disperdere e sprecare risorse, e depauperare il patrimonio della Cassa.
Alla Cassa, per dare il via a queste iniziative, serve quindi capitale, e non poco.
Ci si potrebbe comunque chiedere perché, anche in un paese bancocentrico come l’Italia, iniziative di venture capital non possano svilupparsi in ambito privato.
Sull’effetto spiazzamento degli anni 70, da un paper di Paolo Onofri:
Un indebitamento primario così elevato negli anni settanta segnala una intermediazione di
risorse crescente da parte del settore pubblico ; ad essa corrisponde una attivazione di domanda
aggregata via via più contenuta, sia per l’elevato peso dato dai trasferimenti, sia perché aumenta il
costo finanziario di ogni unità di domanda attivata dal bilancio pubblico.
Questo costo di intermediazione finanziaria ha assunto due diverse modalità nel tempo.
Negli anni oggetto della nostra attenzione, questa crescente intermediazione impone una crescente
apertura dei portafogli bancari a impieghi a favore del settore pubblico. A tale forma di
“spiazzamento” fa da contraltare il fatto che questi obblighi favoriscono il finanziamento dei
disavanzi con la tassa da inflazione, verso la quale trovano una oggettiva convergenza di interessi
sia l’apparato statale che il sistema delle imprese. L’inflazione alta, persistente e almeno in parte
prevedibile, provoca comportamenti molto cauti nei consumatori, ma favorisce la ripresa del ciclo
degli investimenti sul finire degli anni settanta.
Non si tratta, però, di un meccanismo stabile. La sua intrinseca instabilità finanziaria diventa
manifesta con la sorpresa inflazionistica del 1979-80, quando, di fronte al secondo shock
petrolifero, nonostante gli altri paesi avessero fatto tesoro dell’esperienza della reazione al primo e
avessero messo in atto molto più rapidamente politiche di bilancio restrittive e rovesciato il regime
delle politiche monetarie, il nostro paese procede nella direzione opposta ; solamente con il gennaio
1981 ci sarà una svolta parziale nelle politica economica italiana, sancita nel giugno dello stesso
anno dalla svolta più radicale di quella monetaria.