Da “Scegliere i vincitori, premiare i perdenti,” di Franco Debenedetti.
…anche nelle maggiori strettezze, i danari del pubblico si trovan sempre, per impiegarli a sproposito. ALESSANDRO MANZONI, I promessi sposi, XXVIII
Le due metà del cielo, quella dell’iniziativa privata e quella dell’industria di Stato, erano diverse innanzitutto per dimensioni: le aziende pubbliche occupavano oltre il 13% della forza lavoro, superiore perfino alla Francia, quasi il doppio che in Germania e tre volte la Gran Bretagna. Pubblico era il controllo del sistema creditizio. Investire in settori che formano l’ossatura dell’industria di un paese, compresi quelli che seguono i paradigmi tecnologici più interessanti – comunicazioni e telecomunicazioni, energia, difesa –, era in pratica interdetto ai privati, o possibile solo a loro rischio e pericolo. Perché il potere della presenza pubblica si estendeva anche al suo intorno, scoraggiava iniziative di concorrenti e condizionava comportamenti di fornitori. Soprattutto imponeva e diffondeva nell’opinione pubblica l’idea per cui la politica industriale è salutare e l’intervento pubblico diretto necessario.
Di «spropositi» ne fanno anche i danari privati. Non sono quindi le conseguenze a far la differenza tra danaro pubblico e privato, bensì le cause, il perché. Con qualche approssimazione, lo «sproposito» nel privato è un’eventualità, nel pubblico tende a essere un destino. Il controllo della proprietà pubblica, nella nostra democrazia bloccata della guerra fredda, era in mano alle correnti interne ai partiti. A quello della privata, nel nostro capitalismo senza capitali, provvedevano le piramidi e le scatole cinesi. Il problema, per entrambi, è la governance dell’impresa:
L’Italia non doveva più essere un paese in cui lo Stato gestisce direttamente attività economiche e l’industria privata chiede aiuti e difende rendite, ma un paese che investe e inventa. Un paese dove circolino le «idee per il libero mercato». Un paese di persone libere e non di sudditi.
L’intervento statale oggi si è ridotto, un po’ di libero mercato esiste e si muove, va riconosciuto.
La politica industriale è una prassi e un’ideologia: si rincorrono e reciprocamente si giustificano. È sovente ideologica la ragione dell’intervento pubblico; nella pratica questo distorce e spesso elimina la concorrenza, determinando così un «fallimento di mercato», che a sua volta fornirà l’occasione per giustificarne l’intervento. È tutta ideologica la convinzione che l’attività diretta dello Stato in economia possa rimediare ai mali – disoccupazione, arretratezze, iniquità – e portare il bene – crescita, protezione, innovazione –, e che se può, deve, e se deve, che ottenerlo sia un diritto. Con il che, il risultato è opposto a quello che ci si proponeva: non vengono messe a profitto tutte le risorse disponibili e, invece di creare incentivi alle iniziative, si sottrae spazio alle imprenditorialità. L’ideologia dilaga oltre il mondo delle imprese, si estende a banche e finanza, influenza la politica giudiziaria, si intreccia con la politica comunitaria, pervade sindacati e corporazioni, innerva la burocrazia di ministeri e di regioni. La politica industriale non è solo il rimedio escogitato per salvare imprese e banche nella crisi degli anni trenta. Salvata a sua volta dal compromesso politico del dopoguerra, ingigantitasi negli anni del keynesismo dilagante per legittimare, sostenere e alimentare l’intervento diretto pubblico nell’economia, è stata (definitivamente?) condannata dal vincolo di bilancio e dal cambiamento tecnologico. Più importanti ancora, e meno descritti, sono gli effetti che essa ha avuto al di fuori del suo campo, sull’«altra metà del cielo», sull’industria privata; influendo in modo a volte determinante su forma di governance, su scelte di settori, mercati, localizzazioni, su successi e sconfitte. La politica industriale è poco efficiente. Lo è per ragioni empiriche, per i risultati che ha prodotto in tutti i paesi, in quelli del socialismo realizzato e in quelli a prevalente economia di mercato, in tutti i modi in cui è stata declinata, prima, seconda o terza via che fosse. Ma è per ragioni intrinseche, non aggirabili, che la politica industriale risulta dannosa per il tessuto economico e sociale del paese che la persegue: ragioni che riguardano in particolare la scelta degli investimenti e la governance delle imprese di proprietà dello Stato.
Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. ALESSANDRO MANZONI, I promessi sposi, X