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Lo stupore delle prese elettriche

Un tumore chiamato politica industriale (2).

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Da: “Scegliere i vincitori, premiare i perdenti,” di Franco Debenedetti.

Oakeshott fa una distinzione cruciale tra lo Stato custode della legge che non impone fini propri, ma semplicemente facilita ai cittadini il raggiungimento dei loro, e lo Stato che usa la legge per proprie sostanziali finalità «morali». Massima espressione della visione etica dello Stato è il socialismo, che considera la politica industriale come lo strumento principe per realizzare l’uguaglianza. Per il liberalismo classico di Hume e Smith lo Stato ha un ruolo ancillare, il mercato è il mezzo principe per promuovere l’opulenza di un paese: il governo virtuoso è quello che toglie impedimenti alla libertà di commercio e d’intrapresa. È grazie alla visione liberale di benevolenza verso gli attori economici e di prosperità per il più gran numero dei cittadini che si compie, a partire dal Settecento, un fenomeno senza uguali,il miracolo economico europeo l’accelerazione nel processo di crescita con cui l’Europa distanziò, con la sua cultura e le sue istituzioni, quelle di tutto il mondo. Di quel miracolo l’individualismo è elemento cruciale: l’idea che la società sia costituita da unità eguali e autonome, ciascuna, in ultima analisi, più importante del gruppo a cui dà origine; da qui il principio della proprietà individuale, della libertà politica e legale, del personale rapporto con Dio.

Lo spirito del capitalismo – per il quale lo Stato va giudicato in base al rapporto dell’uomo con Dio secondo la visione trascendente della Chiesa – non nasce con Calvino, ma con Agostino da Ippona, e viene poi generalizzato da san Gregorio Magno. Le banche, elemento fondamentale per la nascita del capitalismo, vennero ben prima della Riforma: se hanno qualcosa a che fare con il protestantesimo, come nella famosa tesi di Max Weber, è la loro pratica che ha formato l’etica, non il contrario. Il commercio è la causa della Riforma e non viceversa; nella dorsale del capitalismo, da Ginevra a Manchester si potevano incontrare indifferentemente banchieri protestanti e industriali cattolici: dietro entrambi c’è la rivoluzione umanista e la fine dell’ideologia feudale. Fin dal XII secolo nell’Italia settentrionale mercanti e artigiani trovavano opportunità di commerci e manifatture in spazi relativamente privi di controlli. Le città-Stato potevano contare solo sul commercio per la loro prosperità, per garantire i beni pubblici essenziali, per difendere i confini e far osservare la legge. Il mercato non è più il luogo dove gli uomini si scambiano beni per loro utilità, ma quello in cui i mercanti non hanno altro obiettivo che massimizzare il proprio vantaggio economico. Per Richard Pipes, «in Occidente nulla contribuì maggiormente alla nascita della proprietà
privata e dei diritti a essa correlati della comparsa delle comunità urbane nel Medioevo»; cambiali, mutui, diritto fallimentare, perfino la responsabilità limitata vennero codificate nella lex mercatoria. Lì poté svilupparsi la «vitalità umana» di cui parla Carlo Cipolla, lì scattò la scintilla della «reazione creativa della storia».

Nei secoli che seguirono l’industria dei re era la guerra; i casi di «manifatture reali» furono abbastanza rari. Tra fine Settecento e per buona parte dell’Ottocento, nella prima rivoluzione industriale – quella della macchina a vapore, delle innovazioni di processo, della meccanizzazione del lavoro manuale – l’imprenditore è colui che fonda la sua azienda con pochi capitali, ottiene dal sovrano qualche «patente», qualche protezione, e fa il «salto nel buio». La mano d’opera che impiega è incolta, teme che le macchine rubino il lavoro. Non sono luddisti ma economisti quelli con cui polemizza Sismonde de Sismondi, che nutrono la crainte qu’un jour le roi, en tournant constamment une manivelle, fasse produire par des automates tout l’ouvrage de l’Angleterre. Una strana forma di politica industriale, non c’è che dire. È con la seconda rivoluzione industriale – quella del motore a scoppio e dell’elettricità, delle ferrovie e dell’automobile, dell’applicazione sistematica delle scoperte scientifiche, degli investimenti giganteschi – che entrano in scena, da un lato la figura dell’imprenditore schumpeteriano, dall’altro la politica industriale. Protagonisti di questa rivoluzione sono gli imprenditori con le grandi innovazioni – il telefono e l’aspirina, l’aereo e l’alluminio, il cinema e le fibre artificiali. Economisti e sociologi propongono modelli dell’impresa, della natura del processo innovativo, dei comportamenti di politici e industriali, e degli incentivi che li muovono. Ma proprio da qui si origina anche l’idea «forte» di politica industriale. Si dimostrerà un’insana idea.

Anche i politici sono attori razionali, mossi dal proprio interesse, dall’obiettivo di massimizzare la propria utilità. Le democrazie moderne sono tutte rappresentative, le decisioni politiche vengono perlopiù delegate a rappresentanti eletti. Agli interessi degli elettori i loro possono avvicinarsi, mai coincidere. Dal XVIII secolo sappiamo che non ci sono regole elettorali immuni da manipolazioni. Adam Smith avverte che «le persone che hanno l’amministrazione del governo sono generalmente inclini sia a remunerare se stessi che i loro immediati dipendenti più di quanto basterebbe». A dimostrare per primi la fallacia del modello dello Stato come del «dittatore benevolo» sono due italiani, Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. Ma sarà la scuola della public choice, con Duncan Black nel 1948, e poi James Buchanan e Gordon Tullock dal 1962, a confutare quella fallacia in modo analiticamente inattaccabile. La divergenza di interessi produce conflitti: di tipo generale (vecchi contro giovani, insider contro outsider o, in modo più comprensivo, destra contro sinistra); di tipo settoriale (agricoltura contro industria, industria pubblica contro industria privata); di agenzia, principal essendo l’elettore, agent l’eletto, il che genera i noti problemi di moral hazard. Che sia per incapacità o per corruzione dell’agente, le risorse finiscono per essere distratte ai danni del cittadino, il quale non ha gli strumenti per impedirlo e a volte neppure i mezzi per venirne a conoscenza. E non è detto che le utilità per l’agente siano solo materiali, in molti casi egli cerca di sfruttare la propria posizione per acquistare influenza e potere, la subottimalità delle decisioni che vengono prese con questo fine si traduce in danno per i cittadini.

Tutti gli strumenti di politica economica – monetaria, fiscale, industriale – sono distorsivi, nel senso che incidono in modo
diverso sulle componenti della società. Ma mentre le politiche macroeconomiche (monetarie e di bilancio) non alterano direttamente il sistema dei prezzi relativi, quelle microeconomiche (quindi anche la politica industriale) utilizzano come loro strumento l’alterazione dei prezzi relativi; in alcuni casi proprio questa alterazione è l’esplicita finalità. Neppure una politica macroeconomica espansiva agisce automaticamente su tutta l’economia: anche per i buchi della famosa parabola keynesiana ci vuole qualcuno che decida dove, come e da chi debbano essere scavati di giorno e riempiti di notte. Tanto meno è esente da effetti distorsivi la politica industriale: agisce in presa diretta sull’economia, ed è quindi particolarmente predisposta a essere il luogo dove maggiore è il problema di agenzia, dove più ghiotte sono le occasioni per i politici di agire seguendo il proprio interesse privato. E così di dare pratica dimostrazione alla teoria della public choice. Le politiche monetarie sono astratte, agiscono in tempi lunghi; le teorie macroeconomiche che ne sono la base sono sovente discorsi tra iniziati. Le politiche industriali invece hanno effetti visibili, sul funzionamento dei mercati – del lavoro, delle merci, del capitale –, su concorrenza e dimensione di impresa, sull’innovazione, effetti che si producono fin dal momento del loro annuncio: questo rende le politiche industriali strumento della politica quotidiana. Quando si entra nella stanza dei bottoni e non si trovano i bottoni, politica diventa uscire in piazza e posare la prima pietra di una nuova iniziativa o tagliare il nastro di una appena terminata. Se la politica monetaria è la Maria del Vangelo, assorta ad ascoltare il verbo dei macroeconomisti, la politica industriale è la Marta «tutta presa dai molti servizi», da offrire al popolo per ingraziarselo. In questo senso è la più pratica delle politiche

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