Da: “Scegliere i vincitori, premiare i perdenti,” di Franco Debenedetti.
I suoi avversari lo accusavano di non cogliere quanto profondo fosse il cambiamento avvenuto in Italia durante il suo esilio: egli invece si rendeva conto della «triste eredità che ci viene, è vero, dal periodo della unificazione, ma che è stata intensificata nel periodo fascista e che ora incombe su tutti come una necessità fatale». Il suo modello di decentramento, di smobilitazione dell’apparato protezionistico del fascismo, non era proponibile a ceti medi la cui visione dello Stato il fascismo aveva profondamente cambiato, e che avevano interiorizzato l’abitudine mentale alla pubblicizzazione di vasti settori della vita sociale.
Dossetti e Vanoni hanno proposto nuovi valori, in primo luogo il valore dello Stato artefice di sviluppo armonico, lo Stato della massima occupazione, superatore dei maggiori squilibri sociali.
Dice Sturzo: L’errore è la cieca fede nello statalismo economico e l’ostilità crescente verso l’iniziativa privata, ogniqualvolta tale alternativa venga presentata ai partiti e alle Camere. Ne consegue che lo Stato ha sempre bisogno di maggiori mezzi per far fronte alle continue richieste di intervento. E mentre viene scoraggiata l’attività dei cittadini, viene inflazionata quella degli enti creati nel passato e moltiplicati nel presente […].
Sturzo si batté perché l’alternanza fosse tra la Dc, forza popolare, e un polo borghese-moderato: per quell’alternanza serviva il mercato. Non era solo la paura della bolscevizzazione del paese a spingerlo a chiedere alla Dc di seguire davvero la strada della Germania nella liberalizzazione delle strutture economiche, nello smantellamento degli enti e istituti ereditati dalla dittatura, anziché accodarsi di fatto alla Francia dell’indicative planning. La sua preoccupazione è sovraordinata rispetto a quel rischio: è la preoccupazione che in un’economia non del tutto economia di comando e non economia di mercato si possa corrompere la tempra dello Stato e della politica.
L’assurdo dell’economia italiana sta nel fatto di essere apparentemente privatistica e di mercato, ma effettivamente controllata da uno Stato che pretende di dirigere e non dirige, mentre il privato cerca di farla al dirigente e al cliente e la fa a se stesso. Anche Friedrich von Hayek, a chi voleva confutare le tesi della Via della schiavitù osservando che sei anni di governo socialista in Inghilterra non avevano prodotto uno Stato totalitario, scriveva che così «si perde di vista uno dei punti principali, ovvero che il cambiamento prodotto da un controllo estensivo dello Stato è di ordine psicologico: un’alterazione del carattere della gente. È un fenomeno che per forza di cose si produce con lentezza; un processo che non richiede qualche anno ma probabilmente una o due generazioni». Scrive ancora Sturzo: Il danno principale [dello statalismo] è nel campo della formazione psicologica di un popolo. Il fascismo abolì la partecipazione popolare all’amministrazione e al potere della cosa pubblica rendendo il cittadino estraneo agli interessi comuni; gli statalisti economici di oggi paralizzano lo spirito di iniziativa, il desiderio dell’avventura economica, il senso del rischio, lo spirito di guadagno per fare del cittadino un funzionario di grandi e piccoli enti, con la sola ambizione della promozione, del trasferimento, della gratifica. Le invettive di Sturzo erano di una violenza che a Gaetano Salvemini era parsa quella di un cattolico-giansenista e a Gabriele De Rosa di un giacobinismo cristiano: contro lo statalismo, contro il suo teorizzatore Giorgio La Pira, contro il suo massimo realizzatore Enrico Mattei.
Romano Prodi lo contesterà nel 1985. Per prodi sembra che Poste e Ferrovie debbano essere in deficit. Amato gli riconosce la contrarietà alle partecipazioni statali e la preveggenza della corruzione endemica