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Lo stupore delle prese elettriche

Una storia del declino italiano

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 Sbobinatura di “A domanda rispondo, quando inizia il declino”, che è disponibile su canale YouTube di Michele Boldrin.

https://www.youtube.com/watch?v=6ZucMpw6Lho

 Qui il grafico della produttività italiana nel tempo:

https://fred.stlouisfed.org/series/RTFPNAITA632NRUG

 

La produttività va piatta dopo, una crescita piuttosto impetuosa, attorno a metà anni 70.

Tra il 75 e l’80 la curva si appiattisce e da lì in poi è più piatta. Dalla seconda metà degli anni 90 si inclina e cala. È scesa adesso ai livelli di quasi 50 anni fa.

Cosa è la produttività totale dei fattori? È una serie di numeri calcolati con un insieme di statistiche semplici. Si usano i dati di contabilità nazionale. Si calcola il pil reale (che comprende, per esempio, il numero di scarpe prodotte in Italia) di ogni anno, si calcola il numero di persone pienamente occupate o il numero di ore lavorate e si cerca di calcolare la ptf usando i prezzi relativi degli indicatori di macchine o impianti usati nella produzione (capitale usato nella produzione).

Quindi assumiamo che se il paese è tecnologicamente stabile, cioè non cambiano la tecnologia, i mezzi di produzione, la qualità dei prodotti, l’efficienza organizzativa, le variazioni percentuali del pil possono dipendere solo da variazioni percentuali simili dei fattori di produzione.

Se le tecniche sono le stesse, le macchine e la capacità di lavoro sono le stesse (non c’è cambio tecnologico) e faccio la stessa scarpa o la stessa torta, se ho più output è perché devo avere più input. In un mondo senza miglioramento tecnologico e innovazione (dove vale tutto, anche fare una camicia più bella che vale di più o un nuovo metodo di produzione o una nuova camicia che vale di più o prodotti diversi che valgono di più)  la variazione percentuale degli output è uguale alla variazione percentuale degli input.

Se c’è progresso tecnologico le variazioni percentuali degli output saranno dovute a variazioni percentuali degli input e in parte saranno inspiegabili direttamente. Si misura il cambio tecnologico dai risultati, ma non direttamente. Un computer quante macchine di tecnologia inferiore vale? Un telefono di versione quattro quanti telefoni di versione tre vale? Una scarpa più bella o un operaio specializzato quanto valgono rispetto a una scarpa più brutta o un operaio meno qualificato?

Tutto ciò è difficile quantificarlo, per quanto si riesca a misurare per settori o imprese specifici. In prima approssimazione, comunque, il valore dell’aumento dell’output non determinato da variazioni percentuali degli input, esprime il cambiamento tecnologico.  Se l’output varia del 10% e capitale e lavoro variano del 5 % in totale, allora il residuo in prima approssimazione è il cambio tecnologico. L’indicatore, grezzo quanto volete, si chiama produttività totale dei fattori e nasce da un’idea di Solow.

Facciamo. Variazione percentuale degli output meno variazione percentuale degli input (=variazione percentuale del capitale * peso del capitale, ovvero quota di valore aggiunto che va al capitale, meno variazione percentuale del lavoro * peso del lavoro, ovvero quota del valore aggiunto che va al lavoro). Se la somma di queste variazioni è inferiore alla variazione del pil, la differenza è la misura del progresso tecnologico e la chiamiamo produttività totale dei fattori.

 

Negli anni 50 e 60 la ptf è esplosa. Gli italiani erano gli stessi, che fino ad allora accumulavano capitale, ma poco. La gente andò dalle campagne nelle città, andò dalle campagne o dalle botteghe nelle industrie, cominciò a usare e a costruire e a chiedere cose nuove, a adottare tecniche di produzione nuove, a istruirsi, a formarsi (fosse anche solo al lavoro nelle industrie), a migliorare. Diventarono più produttivi.

I miracoli economici del dopoguerra ovunque sono dovuti ad accumulo di capitale e soprattutto all’adozione di tecniche produttive più avanzate. I dati mostrano come in quegli anni la produttività italiana crescesse molto. La produttività statunitense, un paese già avanzato e già produttivo, cresceva meno.

Prendiamo un meccanico: usava strumenti più sofisticati per riparare le macchine, andava in officine più attrezzate, divideva il lavoro con l’elettrauto e altri ecc.

La crescita degli anni del boom e negli anni seguenti avvenne perché gli italiani di allora accettarono per forza o ragione di pagare prezzi di spostamento, dal sud al nord, da campagna alla città, da agricoltura a industria. Accettarono di cambiare, di imparare cose nuove, di fare lavori nuovi.

L’imprenditore accettò di cambiare, di buttar via le cose che aveva investito in certi modi e fare cose nuove o investire in nuovi modi.

Nacquero nuovi imprenditori. Chi era ricco ma non sapeva fare cose nuove passava la mano ad altri o perdeva.

C’erano i nuovi ricchi. Gli Agnelli erano ricchi anche prima. Altri no.

Nel dopoguerra nascono nuovi imprenditori ricchi, anche artigiani che diventano grandi facendo cose nuove, nuovi prodotti, ecc. La Riello, per esempio.

 

Non è successo per caso che nella seconda metà degli anni 70 la produttività italiana si sia fermata. Sono stati gli italiani a chiedere certe cose anziché altre. Sia le classi dirigenti che il resto del paese. Lo stop della produttività è stato deciso dall’evoluzione sociale, economica, politica del paese.

Negli anni 70 arrivano i primi shock, non solo petroliferi, ma anche di cambiamento tecnologico (dieci anni dopo altri shock saranno causati dall’esplosione dei paesi emergenti, dall’esplosione di internet, dall’integrazione del commercio internazionale, anche dalla caduta del muro). Come era cresciuta l’economia italiana? Con una notevole industrializzazione, con l’uso di tecnologie nuove, con l’imitazione di paesi più avanzati, con la trasformazione di molti lavoratori agricoli o artigiani in operai e impiegati in fabbriche tecnologicamente più avanzate. La produttività alta, negli anni 50 e 60 non ebbe subito la contropartita nella crescita dei salari. Questo portò alle proteste sociali, alla crescita dei salari e al loro avvicinamento alla produttività, il che è anche giusto. Negli anni 60 i lavoratori dipendenti aggiustarono i loro livelli salariali al loro livello di produttività. Questo abbassò i profitti delle imprese rispetto al passato. La reazione delle imprese non fu quella di innovare e quindi aumentare ulteriormente la produttività.

Ogni parte contrattuale, imprenditori, dirigenti, operai ecc, cercarono di prendere una quota maggiore del valore aggiunto. Questo può starci in una transazione. Ciò che le parti in causa avrebbero dovuto capire è che interessi di tutti era che la torta crescesse. Gli imprenditori avrebbero potuto e dovuto cercare di organizzare diversamente il lavoro e le funzioni aziendali, di fare marketing, di pensare a nuovi prodotti o a nuovi metodi di produzione, di far diventare le imprese più innovative e più efficienti. In questo modo la produttività sarebbe stata più alta.

I lavoratori avrebbero dovuto cercare di lavorare meglio o farsi dare di più non solo come stipendio ma anche come sviluppo della propria professionalità. Non è nell’interesse del lavoratore ammazzare l’impresa. Non è nell’interesse dell’imprenditore pagare sempre poco il lavoratore.

Questa dinamica tra capitale e lavoro è naturale nell’economia di mercato.

Nel sistema economico italiano entrambe le parti hanno perso il loro ruolo. Le imprese non hanno reagito innovando. “Vuoi farti pagare di più? Innovo, ti faccio rendere di più”, sarebbe stata una risposta opportuna. Le imprese invece hanno prima di tutto cercato di mantenere i salari bassi, creando o acuendo così un conflitto.

Per i sindacati il salario era una variabile indipendente dalle condizioni di impresa. La produttività e l’efficienza erano quasi mal viste. Anche i sindacati cercano il conflitto.

Come interviene lo stato? Facendo sì che tutti siano contenti (e votino chi li rende contenti). I contratti collettivi prevedono aumenti salariali. I lavoratori hanno dei miglioramenti salariali e di condizioni lavorative che a un certo punto diventano slegati dalla produttività. Le imprese, che a fronte degli aumenti salariali vedono diminuire i profitti, vengono sussidiate. Lo stato interviene con sussidi, fondi, idee, aiuti per spiegare alle imprese cosa devono fare e per sussidiare le imprese in perdita, che  non riuscivano a compensare gli aumenti salariali con aumenti di produttività.

Attorno a metà anni settanta avvengono due cose. Aumenta il prezzo dell’energia e si avvia il cambiamento tecnologico portato dai computer.

Il progresso tecnologico nell’impresa dipende dalla ricerca scientifica. Richiede l’apertura del mondo imprenditoriale a quello universitario e viceversa. Questo non accade.

Le imprese devono affrontare gli aumenti dei salari e delle materie prime nonché la sfida del cambiamento tecnologico e reagiscono chiudendosi e chiedendo protezioni, sussidi e salvataggi. Lo stato, anziché lasciar fallire le imprese decotte e lasciar quindi nascere quelle nuove potenzialmente innovative, concede i salvataggi. Con soldi presi dalle banche, controllate dalla politica. Ai lavoratori, contemporaneamente, concede la scala mobile. Al momento a pagare saranno i risparmi delle famiglie. In seguito saranno le stesse imprese e gli stessi lavoratori che si ritroveranno arretrati rispetto al resto del mondo. I sindacati non capiscono che devono essere responsabili: che avrebbero dovuto cercare di mungere la mucca, ma non di ammazzarla.

 

Arriviamo agli anni 80. A fronte delle domande contrastanti di capitale e lavoro, che includono da ambo le parti richieste di prepensionamenti, Craxi e il CAF reagiscono col perseguire l’indebitamento. I politici non reagiscono con coraggio, dicendo che bisogna cambiare, che a lungo termine non funzionano i salvataggi e le svalutazioni. Altra reazione, politica, di craxi e caf. Indebitiamoci. La sinistra non capisce che ci vuole un mix di conflitto e collaborazione. Questo approccio nasce dal sistema pubblico e si generalizza. Le conseguenze dell’approccio seguito nei venti anni precedenti si vedono nei primi anni 90: l’Italia non si è evoluta, si è molto indebitata, ha una pressione fiscale alta, i risparmiatori se ne vanno e arriva la botta. Tangentopoli è un soffio di vento. Arriva Berlusconi e non cambia niente rispetto a prima.

 

Parliamo di svalutazione. L’Italia esporta. Ci sono fenomeni che ti rendono meno competitivo. Allora, o fai prodotti migliori a costi più bassi o fai le cose di prima a costi più bassi. Poiché i salari erano aumentati, facevi sì che la lira si svalutasse, così i salari reali si riducevano.

Svalutare la moneta è uguale a ridurre i salari reali interni. Prima valeva 100 la lira, ora vale 80, tu puoi comprare cose per 80 anziché per 100.

Di quanto diminuiscano i salari reali dipende anche da fattori esterni e dal peso delle  importazioni sul consumo nazionale. La svalutazione è comunque una droga. Ti illude di rispondere rapidamente ai cambiamenti, ma in realtà non sei diventato più bravo, non sei più competitivo perché sei diventato più bravo, ma solo perché paghi meno i lavoratori.

La Fiat è un esempio di questo. La Fiat negli anni 70 smette di essere un’impresa innovativa e dinamica e si aggiusta a botte di svalutazione e sussidi. Non innova, non impara, non cresce, non si ristruttura, non cambia modelli e metodi (anche attraverso licenziamenti di dirigenti). Continua il tran tran e prima o poi prende la botta.

La svalutazione non può continuare all’infinito. I soldi pubblici finiscono, il debito si accumula, entra sul mercato qualcuno che ha costi più bassi di te.

Abbiamo sussidiato il sistema con svalutazioni e debito anziché innovare tecnologicamente.

Tutto questo diventa perdente con la globalizzazione, quando arrivano altri paesi sulla scena e fanno quello che ha fatto l’Italia nei primi anni del miracolo economico. Paesi asiatici, paesi sudamericani. 

 

 

La classe politica eccellente dell’immediato dopoguerra non esiste più.Tutti parlano di riforme che non fanno. Tutti pensano solo a spendere, a regalare  pensioni presto senza accorgersi che la vita lavorativa e l’aspettativa di vita cambiano.

Si è diffusa l’idea che lo stato tamponi e salvi invece di essere un regolatore che stimola il cambiamento e poi lascia fare al mercato. Anche con la conseguenza che le imprese non produttive falliscano.

 

La Cina oggi si trova in una situazione analoga a quella dell’Italia negli anni 70. Crescita impetuosa dell’impresa, agricoltura non più arretratissima (nel ‘70 era come l’Italia del 400), economia complessivamente somigliante all’Italia degli anni 70. Non può più crescere a colpi di imitazione. Non c’è più spazio per fare quello. Adesso deve vivere di vita propria. Deve cambiare. Sembra che loro abbiano chiaro il problema che noi non abbiamo mai affrontato e adesso paghiamo 40 anni di ritardo.

 

Quindi la politica, le associazioni, i sindacati ecc hanno chiesto sussidi e aiuti anziché innovazioni. Hanno chiesto svalutazioni, interventi statali, salvataggi

Invece non si salva l’impresa come è: si cambia. Oppure si può anche decidere di proteggere e salvare tutti, ma poi non lamentiamoci se le condizioni di vita peggiorano e i redditi scendono.

La bassa produttività è un problema culturale e tecnologico. Si continua a produrre con tecniche sbagliate anche perché si pensa che se fin qui ti è andata bene facendo le cose in un certo modo, tu debba continuare per sempre a fare le cose nello stesso modo.

Prendiamo Benetton o Stefanel. Le loro aziende di abbigliamento tiravano perché avevano adottato tecniche moderne e innovative e sono diventati leader. Il mondo però cambia. Innovano tutti. Il distributore adesso è h&m oppure Zara, che hanno adottato tecniche vecchie, le hanno migliorate e ne hanno aggiunte altre. Non c’è solo imitazione. C’è anche l’innovazione.

 

Come fare per tornare a innovare? Bisogna ripartire dalla scuola e dall’università. Il processo è lungo ma intanto iniziamolo.

Bisogna accettare il fatto che la produttività cresce se e solo se accettiamo di pagare il prezzo anche sociale di chiudere le imprese e le forme di lavoro arretrate. Chi ci lavora deve fare altre cose. Il capitale investito lì è investito male, quindi deve spostarsi o perdersi.

La produttività non è gratis. Bisogna lasciare che muoiano imprese fallimentari e diano spazio ad altre.

 

Gli imprenditori di un tempo investivano in macchine e case invece che in azienda? In parte questo è vero e in parte è un problema. Nessuno lo ha quantificato. Dagli anni 60 in poi in molti settori si sono fatti profitti notevoli. Proprio perché abbiamo favorito regimi fiscali e contrattuali di favore, le imprese sono rimaste piccole e l’imprenditore ha potuto evitare di reinvestire i profitti per destinarli a comprare case e terreni. Quando arriva la crisi non vogliamo che si tocchino le case e continuiamo a chiedere sussidi.

Un problema storico è la scarsa presenza di imprese che abbiano un azionariato vasto che reinvesta i profitti nell’impresa. Abbiamo troppe microimprese familiari col padrone (o il commerciante, l’artigiano) che mette via quanto guadagna.  Alcune famiglie, come i Ferrero, i primi Pirelli, i Barilla, hanno reinvestito i profitti, hanno fatto crescere l’azienda e non si sono certo impoveriti. Quelli che non reinvestono prima o poi muoiono. Vengono buttati via relazioni di lavoro, professionalità, sociali.

 

 

Esiste una visione secondo cui, se analizzate il progresso tecnologico industria per industria negli ultimi duecento anni e mettete in fila le varie tecnologie (siderurgia, elettricità, tessile), notate come l’uso di tecnologie più nuove richieda imprese più grandi.

La dimensione ottimale (optimal dimensio) tende a crescere con l’avvento di nuove tecnologie.

Un tempo le botteghe e le piccole imprese potevano essere efficienti, anche se erano piccole come dimensioni, capitali, lavoro.

Man mano che la tecnologia migliora, anche le dimensioni degli impianti aumentano e richiedono investimenti maggiori.

Nei settori che crescono, il cambiamento tecnologico rende le imprese più grandi. Se vuoi stare al passo della tecnologia devi diventare un po’ più grande.

Col cambiamento tecnologico, settore per settore, cresce la dimensione ottima del settore. Voler restare piccoli per forza è la ricetta perfetta per il suicidio.

Un paese non deve rifiutare di far morire le imprese piccole e inefficienti e è necessario che le imprese inefficienti falliscano affinché le piccole più capaci diventino grandi e le grandi crescano ancora.

 

Se sono l’Inghilterra comincio la rivoluzione industriale, parto da imprese piccole, laboratori artigiani, ho capitali piccoli. Nel processo di crescita accumulo capitale, cambio tecnologia, cresce passo per passo la dimensione ottima delle imprese.

Se sono la Germania arrivo più tardi, le imprese avanzate del tempo sono quelle siderurgiche, ho bisogno di un capitale maggiore per raggiungere l’Inghilterra (vedi gli studi di Gershenkron). L’industrializzazione tardiva ha anche dei vantaggi poiché posso imitare cosa hanno fatto gli altri. Gli altri sono arrivati da zero a dieci in un certo tempo. Io parto da uno e ho chiaro come arrivare a dieci perché posso copiare e non inventare tutto. Il catching up è il fenomeno che l’Italia ha vissuto a partire dagli anni 50 nella chimica, nella siderurgia, nella meccanica ecc. Chi arriva dopo può correre rapidamente e raggiungere il leader. La Cina ha fatto in 40 anni cosa l’Inghilterra ha fatto in 200 anni. Per fare questo però ci vogliono grandi capitali.

L’IRI ha una storia complicata, ma è stata utile in questo tipo di percorso. In parte è stata una storia di successo. In parte è stata un disastro. È una cosa del primo dopoguerra. C’erano un forte intervento statale e banche statali. Per essere finanziato dovevi passare dallo stato, che inizialmente cercava di creare grandi imprese dando il capitale necessario.

Il ruolo dell’IRI è stato quello di favorire l’accumulazione di capitale e grandi industrie. Ha permesso di mobilitare rapidamente grandi capitali. In quel caso l’intervento dello stato o l’uso di strumenti per favorire le esportazioni può essere utile. Il modello di economia orientata alle esportazioni e l’iri sono stati  effettivamente cruciali per lo sviluppo economico italiano.

 

Quello che funziona per un po’ non vale per sempre. Prima o poi si ripropone il problema dell’innovazione.

Se parti da uno, puoi arrivare anche a nove, per dire, attraverso l’imitazione e pure l’aiuto di stato. Quando sei arrivato a nove non serve più mettere grandi capitali. Ci vogliono capacità di innovare, nuove capacità imprenditoriali e, tra le altre cose, si deve lasciar chiudere chi deve chiudere. Non serve più salvare. Non serve più avere il monopolio. Serve la concorrenza.

Negli anni 70 andava buttata via l’IRI salvatrice e invece ci abbiamo incorporato altre imprese.

 

Dobbiamo aprirci alla concorrenza, eliminare le imprese inefficienti, lasciar vivere e crescere chi vive, non impedire la nascita di nuovi soggetti.

Negli anni 70 in vari settori non c’era concorrenza privata. Lo stato non licenzia, non butta fuori. Nazionalizzare ci è costato molto in termini di debito e anche nella conseguente necessità di privatizzare in fretta. Anziché creare opportunità di concorrenza si sono mantenuti i monopoli o il controllo politico. I beni di stato si privatizzano per fare concorrenza, non per tenerli sotto il controllo politico come fatto con eni, enel ecc.

Negli anni 90 non abbiamo privatizzato a seguito di un ragionamento organico, ma per fare cassa e per fare i furbi.

 

 

Abbiamo avuto degli esempi di imprese che avrebbero potuto essere all’avanguardia. Nel senso che avrebbero potuto avere un network di imprese, ingegneri ecc che fossero all’avanguardia. Olivetti ci ha provato. Apple lo ha fatto.

 

I sindacati vedevano le imprese come vacche da mungere ma sono le tue vacche e quindi devi trattarle bene. La contrattazione aziendale o il sindacato dentro il cda possono funzionare o no. Purché il rapporto sia tra collaboratori e non tra nemici.Anche gli imprenditori hanno dato in buona parte il benvenuto alle svalutazioni o hanno visto il lavoratore come il nemico da sfruttare. La cooperazione deve essere da ambedue le parti. Ci vuole una classe imprenditoriale illuminata. Un imprenditore leader spiegava che il padre negli anni 60 non voleva relazioni positive dialettiche col sindacato e dava a lui del comunista.

 

 

La grande impresa innovativa moderna ha difficoltà a fare compartecipare al cda e agli utili i lavoratori. Dipende dai settori. Molte start up sono cooperative. I tedeschi hanno delle tradizioni di quel tipo.

 

Nazionalizzare è stato un calmieratore sociale dovuto alla paura della deriva comunista? Sì, è il problema della borghesia italiana da almeno gli anni 20. Pericolo a cui si rispondeva a legnate. Per risolvere il problema bastava separare la parte dei lavoratori che voleva la distruzione del sistema da quella che chiedeva solo più reddito, sia negli anni 20 che nei 60. Peraltro è vero che negli anni 50 e 60 c’erano sfruttamento, salari bassi, produttività alta e profitti alti. Le lotte salariali erano legittime. La crescita era dovuta anche al contributo dei lavoratori. La reazione brutale di alcune aziende ha rafforzato gli estremisti e poi i teorizzatori del salario come variabile indipendente.

All’epoca l’Unione Sovietica poteva essere una minaccia reale e sicuramente lo appariva. La classe politica non è stata comunque in grado indicare come affrontare i conflitti sindacali.

 

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I 5s esprimono una visione di richiesta di soldi e diritti anziché di collaborazione alla produzione e impegno

Molta piccola impresa leghista pensa di poter rispondere al conflitto col muro o uso dei migranti o esenzioni fiscali che non sono la soluzione.

Le tasse vanno abbassate per tutti.

Esistono settori industriali in cui allo stato conviene tenere controllo di aziende? No. Conviene a cosa? Lo stato non guadagna soldi gestendo le aziende. Deve finanziare le spese con tassazione adeguata e deve fare spese adeguate non eccessive.

Le aziende producono nel mercato per vendere e sono aggregati di lavoratori, tecnici ecc e devono fare prodotti buoni a seconda di come si muove il mercato e creare valore aggiunto. Hanno bisogno di crescere, nascere, morire, svilupparsi, entrare in concorrenza.

Nello stato il meccanismo della concorrenza, dello sforzo non c’è.

Il profitto è quel qualcosa che segnala che sei riuscito a produrre qualcosa che vale di più di quel che costa. Sei stato bravo.

Un’impresa pubblica guarda al territorio, a lavoratori, alle proteste, non ai profitti. Lo stato raccoglie i soldi con le tasse e non con i profitti

È bene quando arrivano i soldi esteri. Arrivano in Italia, agli italiani. Chi compra le aziende vuole fare soldi. Vuole  creare profitti e valore. Le imprese si localizzano dove l’ambiente ne permette la valorizzazione. Vale anche all’interno per la Piaggio o per l’impresa veneta che vuole aprire in Toscana.

È cretino impedire a Telefonica di acquistare la TIM. Innanzitutto la pagavano e poi investivano in Italia. Il problema per il potere politico è perdere il controllo.

Non c’è grande differenza tra tassare il capitale o il lavoro. Tassi lo scienziato o il commerciante? La tassazione su capitale e lavoro deve essere bassa per non distruggere gli incentivi a fare. Bisognerebbe abbassare le tasse su ciò che produce reddito e spostarle sui consumi e sui patrimoni.

 

Ci sono delle nicchie dove non si fa concorrenza, dove esistono i monopoli. Ci sono dei rari casi di monopoli naturali (le reti) e ci sono studi sui regolamenti. Il problema italiano con Autostrade è tutto politico. Il monopolio dell’istruzione in mano allo stato è sbagliato. Ci dovrebbe essere un meccanismo di concorrenza tra scuole e università pubbliche.

Bisogna spiegare alla gente che ci sono dei prezzi da pagare per avere un futuro migliore. Cambiare lavoro, rimettersi a studiare, tagliare la spesa pubblica, decimare le imprese inefficienti…

Esiste una cultura secondo cui il cambiamento sarebbe il male, ma la realizzazione di sé richiede degli sforzi.

I sistemi economici non crollano da mattina a sera. Si erodono progressivamente, come una casa che non viene manutenuta.

La produzione a basso valore aggiunto si sposta nei paesi emergenti. Questo è un fatto. Se non vai alla frontiera tecnologica resti indietro, i tuoi costi restano alti, altri faranno le tue cose. Se ti eri illuso con le svalutazioni e hai ridotto i salari reali non sei comunque diventato migliore, non hai abbassato il costo del lavoro per unità di prodotto, arriva h&m e ti batte.

La tecnologia non la scegliamo politicamente. Viene adottata dalla gente

Certi investimenti pubblici sono delle precondizioni della crescita. Non fanno crescere. Devi avere le scuole e le università che funzionano. Devi avere asili, laboratori, ponti, strade. Non devi sussidiare forestali inutili, postini di troppo, pensionati retributivi, imprese fallimentari. Non devi pagare la gente perché non lavori. Se trasportare le merci richiede un viaggio più lungo in strade dissestate la produttività si riduce.

Bisogna incentivare la concorrenza, l’iniziativa individuale, il merito.

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