VENERDÌ 12 SETTEMBRE 2014. RIGA.
Cammino fino all’autostazione di Vilnius. Salgo sul pullman che va a Riga. C’è l’wifi funzionante, quindi i bisogni primari sono soddisfatti. Dopo qualche decina di minuti mi renderò conto che deve esserci anche un una presa di corrente grazie alla quale ricaricare i succhiabatterie altrimenti detti smartphone e tablet. Infatti ne usufruisco.
Sto in quel che c’è, come dicono quelli della mindfulness, e mi godo il viaggio: guardo il paesaggio, penso, poi quando sembra assodato che il panorama sia costituito per chilometri da campi gialli, come in una qualsiasi autostrada, leggo la guida di Riga.
Mi vedo carri armati russi da queste parti. Non solo nel dopoguerra, ma nel 1991. Penso che noi nati e cresciuti in Occidente negli anni Settanta e Ottanta siamo stati una generazione cresciuta nella bambagia e anche molto coccolata da genitori e nonni che avevano patito la fame e conosciuto la guerra prima di ricostruire l’Italia e portare a uno dei più lunghi periodi di pace e di prosperità della storia. Nel resto del mondo continuavano a esserci giornate di fame e guerra o oppressione un po’ per tutti. In sintesi: essere nati in Occidente negli anni settanta significa avere avuto culo, almeno per qualche decennio.
Intanto, grazie alla lettura della Lonely Planet, conosco la storia di Emilia Benjamina, mentre attorno a me un tipo rasato, robusto, paffuto, con un faccione enorme e vestito con giacca nera e jeans. gioca con lo smartphone per tutto il viaggio. In troppi telefonano: deve essere una mania non sapere stare in silenzio.
Il paesaggio varia. Ecco le foreste lettoni, i prati verdi, i boschi, qualche animale che pascola e due agricoltori di numero. Si vedono fuori dai finestrini delle grandi distese di prati. Manca qualche collina a rompere un po’ la monotonia in verticale del paesaggio. Per lo meno, però, ci sono gli alberi, a differenza che in posti come la pianura padana.
Una ragazza torna su da una scala, dentro il pullman, con un caffè in mano. Non c’erano solo i wc, allora, laggiù. Chissà: magari ci trovo perfino IT, se ci vado. Alla frontiera tra la Lituania e la Lettonia il controllore non ha niente da obiettare contro il mio passaporto. Prima di scendere, lascio il tavolino poggia oggetti aperto per manifesta incapacità di chiuderlo. Arrivo a piedi all’hotel, quindi, e suono un campanello, ma nessuno apre. Dopo altri tre tentativi capisco che quello illumina delle telecamere, ma per l’albergo devo premere da un’altra parte.
La città ha dei viali larghi e diritti, molti parchi e giardini, un fiume che l’attraversa e la più grande collezione di edifici art nouveau del mondo. Il centro è caratterizzato da delle viuzze labirintiche, da una piazza grande e da dei palazzi con facciate diversamente colorate (rosse, grigie, gialle ecc.) e costruite. Il duomo, che domina la piazza centrale, è a mattoni. Detto tutto ciò, comunque, la definizione di Parigi del nord mi sembra esagerata. Dire che non vedere il mercato centrale di Riga è come non visitare il Louvre a Parigi è la Lonely-Planettata del secolo.
Molto interessante è il museo delle occupazioni nazi-sovietiche, che mostra storie e oggetti di oppressione in Lettonia e anche negli altri Paesi della ex cortina di ferro. Se la gente si facesse di più i cazzi suoi e non avesse bisogno di protezione, sicurezza, guide e leader forse non si lascerebbe ammaliare da degli psicopatici che vogliono comandare il mondo o cambiarlo per portare a società etiche o uomini nuovi.
Malgrado il livello enorme di stanchezza arretrata cammino indefesso per il centro. Resta memorabile il fatto che scivoli sugli scalini fuori della stazione dei treni e cada sulla schiena, per poi rialzarmi e fuggire prima che a qualcuno possa venire in mente di chiedermi come sto. Ceno con roba lettone: pancake di patate, salmone e la kvass, una bevanda che va molto di moda. Per tornare in hotel vedo un bar dove dei ragazzini con capelli tagliati corti e variamente pettinati giocano a freccette e ascoltano musica rock insieme a delle ragazze similmente pettinate e indossanti minigonne ascellari sotto analoghi giubbotti neri.
Alle nove decido che sono troppo spossato per correre. Il giorno dopo si riparte.