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Lo stupore delle prese elettriche

Welfare state e statuto dei lavoratori: buone idee, pessime realizzazioni.

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Lo Stato sociale creato può avere dato delle risposte a condizioni storiche, ma non è un totem. Le cose cambiano, il mondo cambia, nuovi attori entrano in scena. Invece in Italia sembra che ciò che è stato creato nei Settanta debba considerarsi immutabile.
L’welfare state in Italia è stato caratterizzato da: approccio ideologico, rivendicazione spinta ai massimi livelli, mancato calcolo delle compatibilià economiche, fiducia interessata in uno sviluppo capace di sanare da sé ogni squilibrio, unica dimensione possibile quella del presente, arroccamento a difesa dei privilegi conquistati, attacco a qualsiasi riforma, retorica delle lotte. Il proprio egoismo corporativo è nascosto dal cavallo di troia dell’uguaglianza sostanziale.

In realtà l’uguaglianza riguarda solo alcuni privilegiati e che ha come orizzonte i punti di arrivo anziché quella di partenza. L’ordinamento codifica questa diseguaglianza e gli status conseguiti diventano immutabili. I regimi possono estendersi ai nuovi cooptati finché ci sono le risorse, poi o si chiude la cittadella ai nuovi venuti (che non entrano) o si fanno entrare anche loro a debito (a scapito delle generazioni future): in italia sono successe ambedue le cose finché anche questo non è più stato possibile. Strumenti esemplificatori di questa distorsione: le pensioni retributive di anzianità (con aggancio alle retribuzioni degli ultimi anni: questo è il peggio) e statuto dei lavoratori. La base dell’welfare è lavoristica: chi ha un’occupazione di un certo tipo è garantito. Gli altri? Si fottano.
L’unico strumento di welfare universalistico è stato quello del ssn: almeno le prestazioni sono usufruibili da tutti.
Viene protetto il posto. Il lavoratore è ritenuto un minus habens che non può disporre dei propri diritti, che spesso sono inderogabili. Così il lavoratore è sempre ritenuto la parte più debole. Ha diritto a continuità di reddito, conservazione del posto, indennità di malattia e soprattutto una pensione che gli assicuri il mantenimento del reddito precedente anziché una specie di assicurazione che lo tuteli in caso di difficoltà. Il concetto di autoassicurazione non è compreso da nessuno.
Non ci sono strumenti di creazione del lavoro o che favoriscano la mobilità nel territorio. Si assicura il posto anche in aziende decotte, indipendentemente dal loro andamento e dai cicli economici.
Questo non vale per tutti, però. I più privilegiati sono i dipendenti pubblici, seguono i lavoratori delle grandi imprese, poi i più anziani e così via. Settori nuovi, più autonomi, più piccoli, meno strutturati, più innovativi e quelli in cui forse la necessità di protezione sarebbe maggiore per il possibile sconfinamento nel lavoro irregolare, vengono lasciati a loro stessi o tartassati.
Anche il sistema pensionistico viene cambiato negli anni settanta per effetto della fede nello sviluppo infinito che è portata dai rivendicatori, dai reduci, dai marcuse, dai sessantottini, dai movimentisti, dai contestatori, salvo poi rinfacciare questa fede a degli elementi esterni qualche decennio dopo. Figuriamoci se si prendono le colpe delle loro scelte scellerate e delle loro idee idiote. Loro pensavano che fosse possibile uno sviluppo senza costi. In parte avevano ragione: per loro stessi, feudatari sessantottini e oltre, è stato così.
Negli stessi anni settanta vengono introdotte le baby pensioni: a 35 anni si può andare in pensione.
Ma l’welfare state non dovrebbe ridurre le diseguaglianze? Bene. La spesa sociale è quasi esclusivamente per le pensioni. Si considera debole una persona di sessant’anni che ancora non è andata in pensione e si privilegia rispetto a chi vive in affitto in una grande città, chi è precario, chi ha perso un lavoro, chi è una ragazza madre. In nome di una presunta uguaglianza si sono create diseguaglianze e discriminazioni. Esiste un nome per questo welfare diseguale, discriminatorio, basato forse sul familismo amorale: l’welfare del padre di famiglia. Quello anglosassone, quello bismarckiano, quello scandinavo sono ben diversi e ben più efficaci ed efficienti. E’ inutile che guardiate a quelli come degli esempi: potevate costruirli, ma forse ne avreste beneficiato poco voi. A che pro farlo, allora, se non potevate partecipare al banchetto? Era quello che volevate con le vostre contestazioni: sostituirvi al potere mantenendo i suoi privilegi.
La vostra generazione di lavoratori degli anni settanta ha rifiutato qualunque ipotesi di riforma che desse un posto a tavola alle generazioni successive. Il vostro potere di veto rivela la natura egoistica delle vostre rivendicazioni di allora.
Lo stato sociale creato da voi è ingiusto e inefficiente. Il rischio, l’ambizione personale e l’individualismo responsabile sono comportamenti da disincentivare, secondo voi. Un eccesso di iniziativa personale rompe le rivendicazioni collettive e quindi chi lo persegue non ha diritto a tutele in caso di perdita di lavoro, difficoltà familiari e così via. In questo modo avete rubato il futuro ai vostri figli e nipoti. Eppure c’è ancora chi difende il pubblico impiego antimeritocratico di massa, la pensione di anzianità, lo statuto dei lavoratori, la scuola del voto politico.
Nello stesso statuto dei lavoratori si difendeva solo l’operaio massa, si riconosceva solo il salario suo e poi tutto avrebbe dovuto ruotare attorno a lui, comprese le variabili economiche. Impiegati, tecnici, autonomi ecc.avevano degli interessi che non erano riconosciuti come validi: solo quelli dell’operaio che considera il lavoro come fonte di reddito e non come altro venivano ritenuti meritevoli di protezione da partiti e sindacati e movimenti di sinistra.
La retorica dello statuto difende un mondo inesistente e difende chi appartiene al mondo di prima. Si difendono i privilegi di impiegati pubblici e grandi imprese, creando nuove disuguaglianze. Una generazione che ha conquistato per sé ogni tipo di tutela, a scapito del futuro, si asserraglia nel suo recinto e, quando le compatibilità economiche da lei ignorate, si presentano a chiedere il conto, pretende di scaricarle su qualcun altro. Oggi lo statuto dei lavoratori non protegge il lavoratore dall’azienda, ma dal suo vicino di scrivania o di fabbrica che non possiede gli stessi diritti perché magari è più giovane.

Per approfondire: Giuliano Cazzola, gli anni Settanta; Salvatore Rossi, Politica Economica Italiana; i libri di Guido Crainz, Sergio Ricossa, Vito Tanzi, Sergio Cottarelli, Roberto Perotti, Franco Debenedetti ed Emanuele Felice, i siti Noisefromamrika.org e phastidio.net, i paper sulle forme di welfare presenti in Europa e tanti altri ancora.

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